Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 20470 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 20470 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11839/2022 R.G. proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliato in MILANO LARGO TREVESINDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 692/2021 depositata il 01/03/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’avv. NOME COGNOME ha chiesto ed ottenuto, dal Tribunale di Milano, ingiunzione di pagamento della somma di 32.830,20 per i compensi professionali maturati in forza di incarico professionale del 25 maggio 2017, conferito da RAGIONE_SOCIALE, destinataria dell’ingiunzione. L’incarico riguardava, in relazione a un mutuo bancario, la consulenza per il raggiungimento di un accordo per il ripianamento del debito, prevedendosi, in caso di accordo raggiunto, il compenso pari all’1,5% del valore della pratica e, in ogni caso, il pagamento di oneri e spese, determinati, rispettivamente, in € 2.000,00 e in € 300,00.
Contro il decreto, RAGIONE_SOCIALE proponeva opposizione, che era accolta dal Tribunale di Milano, il quale riconosceva che l’incarico, al quale si riferiva la pretesa, era stato revocato da RAGIONE_SOCIALE, essendo inoltre pacifico che la transazione con la banca era stata conclusa nel maggio del 2018, in data successiva alla revoca: circostanza, questa, che secondo il primo giudice escludeva che il professionista avesse diritto all’inter o compenso pattuito.
La Corte d’appello di Milano, adita dal legale, confermava la decisione, in forza delle seguenti considerazioni:
in primo luogo, riteneva infondata la censura, mossa dall’appellante, secondo cui il Tribunale aveva affermato che il compenso, nel caso di specie, si riferisse a una obbligazione di risultato e non di mezzi; al riguardo la Corte di merito osservava che «dalla lettura dell’atto, emerge chiaramente come la somma pattuita per lo svolgimento per le prestazioni richieste fossa stata già quantificata dall’avvocato in complessive € 2.300,00 mentre il diritto a un ulteriore compenso nella misura dell’1,5% del valore della prativa sarebbe sorto in capo al difensore solo ed
esclusivamente al raggiungimento dell’accordo conciliativo ivi prospettato, e dunque a un momento del rapporto mai intervenuto, giacché detto accordo veniva perfezionato da RAGIONE_SOCIALE solo il 7 maggio 2018, a oltre sei mesi di distanza dalla revoca del mandato conferito all’avv. COGNOME La circostanza che l’accordo transattivo con l’Istituto per il Credito Sportivo fosse stato concluso per conto della società da altro difensore, debitamente provata dalla RAGIONE_SOCIALE nel fascicolo di parte di prima istanza, veniva altresì confermata dallo stesso appellante tanto nel corso del procedimento di primo grado (pag. 1 della memoria ex art 183, co. 6 n. 2 c.p.c.) quanto nello scritto introduttivo nel presente giudizio di gravame (pag. 8); né la documentazione versata in atti all’avvocato COGNOME risultava idonea a far ritenere che alla revoca del mandato, da parte di RAGIONE_SOCIALE le trattative con l’Istituto fossero già consolidate».
In forza delle considerazioni che precedono la Corte d’appello ha ritenuto infondata l’ulteriore censura dell’appellante, secondo cui la decisione del primo giudice, che sarebbe stata assunta senza una adeguata considerazione dei documenti prodotti, finiva per riconoscere il carattere gratuito della prestazione resa dal professionista. Infatti, secondo la Corte d’appello, non era mai emersa alcuna prova in ordine all’imminente conclusione dell’accordo ad opera dell’avv. COGNOME alla data di revoca dell’incarico professionale. A tale considerazione la Corte di merito ha aggiunto che, neanche in sede di gravame, il legale aveva indicato quale, fra i documenti prodotti, era idoneo a giustificare sul punto una decisione differente.
La Corte d’appello proseguiva nella propria analisi, osservando che la società aveva estinto la propria obbligazione, versando i
compenti pattuiti per la prestazione resa, tramite assegno bancario consegnato «come da intese precedentemente intervenute tra le parti nelle mani del sig. NOME COGNOMEintermediario); l’attività stragiudiziale prestata dall’avvocato risultava così essere stata già oggetto di remunerazione da parte della società, la quale – lo si evidenzia nuovamente -null’altro doveva all’odierno appellante a conclusione del rapporto professionale con lo stesso».
Per la cassazione della sentenza l’avv. COGNOME ha proposto ricorso affidato a tre motivi, illustrati da memoria. RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso, depositando anche la memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. I motivi di ricorso possono essere così riassunti:
a) il primo motivo (‘ violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, n. 3 c.p.c. in relazione agli artt. 2230 e segg. c.c. e art. 13 co. 3 l. n. 247 del 31.12.17 nonché nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 per motivazione apparente in relazione all’art. 111 Cost’) censura la decisione perché, in contrasto con consolidati principi giurisprudenziali, avrebbe ritenuto che l’obbligazione del professionista fosse obbligazione di risultato e non di mezzi; «inoltre la Corte d’appello non avrebbe considerato che ‘l’accordo transattivo alla fine è stato raggiunto, il che legittima oltremodo il pagamento della parcella nella misura richiesta. Non importa ad opera di chi»; infine «la motivazione adottata dalla Corte d’Appello, inoltre si rivela del tutto apparente e contraddittoria, perché omette attraverso un iter argomentativo assolutamente illogico ed inconferente di dare conto dei motivi per cui, in deroga alla normativa ed alla giurisprudenza pacifica in argomento, l’obbligazione dedotta tra le parti avrebbe dovuto
ritenersi di risultato e non di mezzi. Invero la Corte ha del tutto omesso evidenziare quali sono gli indici in base ai quali ritenere che dalla lettura del contratto di conferimento di incarico ‘emerge chiaramente’ che le parti avessero voluto stipulare una obbligazione di risultato».
il secondo motivo ( ‘ violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 2233 c.c. e nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 per motivazione apparente in relazione all’art. 111 Cost. ‘) censura la decisione perché la Corte d’appello, «nonostante la mole di attività svolta comprovata e documentata da pagg. 2 a 7 dell’atto di citazione in appello», al pari di quanto già fatto dal Tribunale, aveva dato «esclusivo rilievo alla conclusione dell’accordo transattivo e dunque ad un ‘ risultato ‘ anziché a tutti i mezzi spiegati per raggiungerlo. Per questo motivo si ritiene che in violazione delle norme denunziate abbia ritenuto gratuita tutta l’attività in precedenza svolta»;
il terzo motivo (‘ omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. nonché nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 per violazione dell’art. 132 c.c. per motivazione apparente in relazione all’art. 111 cost., 115, 116 c.p.c. e 2697 c.c.’), perché la Corte d’appello aveva riconosciuto che la società avesse corrisposto il pagamento del compenso pattuito in assenza del ‘benché minimo principio di prova, ma solo sulla base delle dichiarazioni avversarie’, incorrendo così nel vizio di motivazione apparente, suscettibile di censura in sede di legittimità.
Il primo motivo è inammissibile. La Corte d’appello non ha affermato in termini generali che gli obblighi professionali dell’avv ocato sono di mezzi e non di risultato; essa ha piuttosto
riconosciuto, con riferimento al caso concreto, che tra avvocato e cliente era intervenuto un accordo in base al quale la diversa misura del compenso era condizionato al perfezionamento di un accordo transattivo fra la cliente e la banca creditrice. Nel caso di specie l’accordo si era perfezionato, ma dopo l’intervenuto recesso del cliente. Conseguentemente – secondo la ricostruzione della Corte di merito – la condizione, alla quale era stata subordinata l’insorgenza del diritto al compenso proporzionale, era pertanto mancata.
In linea di principio, occorre ricordare che l’art. 2237 c.c., il quale pone a carico del cliente che receda dal contratto d’opera il compenso per l’opera svolta (indipendentemente dall’utilità che ne sia derivata), può essere derogato dai contraenti, i quali possono subordinare il diritto del professionista al compenso alla realizzazione di un determinato risultato, con la conseguenza che il fatto oggettivo del mancato verificarsi dell’evento dedotto come oggetto della condizione sospensiva comporta l’esclusione del compenso stesso, salvo che il recesso ante tempus da parte del cliente sia stato causa del venir meno del risultato oggetto di tale condizione (Cass. n. 14510/2012; n. 16620/2013).
Ed invero, l’avv. COGNOME sostiene che l’accordo infine raggiunto costituiva il buon esito dell’attività da lui svolta prima della revoca del mandato. Fatto è che la corte di merito ha considerato tale obiezione, ma ha ritenuto che non ci fosse «alcuna prova dell’imminente conclusione dell’accordo ad opera dell’avv. COGNOME». In questi termini, però, è chiaro che la censura mossa con il motivo in esame non niente a che vedere con il vizio della violazione di legge, ma investe la ricostruzione del fatto, per non avere la Corte d’appello riconosciuto l’efficienza causale decisiva
dell’attività svolta dal legale rispetto alla conclusione dell’accordo. Sotto la veste della violazione di legge, il ricorrente mira pertanto a ottenere, in sede di legittimità, una inammissibile ripetizione del giudizio di fatto. È altrettanto chiaro che la censura di motivazione apparente è del tutto fuori luogo: la motivazione esiste e non è nient’affatto apparente, rendendo del tutto palese e percepibile le ragioni del decisum .
Le considerazioni che precedono rendono evidente l’infondatezza del secondo motivo, nelle sue varie articolazioni. La Corte d’appello ha dato la propria interpretazione dell’accordo e ha quindi definito la causa in rapporto a una ricostruzione di fatto coerente con quella interpretazione. Ancora una volta, sotto l’egida della violazione di legge e del vizio di motivazione, la censura è interamente versata in fatto. La Corte d’appello non ha affermato che il professionista ha svolto la propria opera gratuitamente, ma ha affermato che non erano maturati i presupposti per pretendere il maggiore compenso pattuito in proporzione al valore della pratica.
Il terzo motivo è inammissibile in tutte le sue articolazioni. In quanto al vizio di motivazione, derivante dalla mancata considerazione degli elementi istruttori, le considerazioni proposte dal ricorrente non si confrontano con il contenuto complessivo della decisione, nella quale si legge testualmente «come risulti documentato che la società avesse regolarmente estinto il proprio debito come da intese precedentemente intervenute tra le parti nelle mani del sig. NOME COGNOMEintermediario); l’attività stragiudiziale prestata dall’avvocato risultava così essere stata già oggetto di remunerazione da parte della società, la quale – lo si evidenzia nuovamente -null’altro doveva all’odierno appellante a conclusione del rapporto professionale con lo stesso». In questi
termini è evidente che la censura, sotto la veste del vizio di motivazione, censura in effetti la ricostruzione del fatto, censurabile attualmente in cassazione nei limiti dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. Invero, il ricorrente propone la censura anche sotto questo profilo, che è però inammissibile, in presenza di doppia conforme. Infatti, trattandosi di giudizio d’appello iniziato con citazione notificata il 16 aprile 2013, il motivo incorre nella preclusione stabilita dall’art. 348-ter, ultimo comma, c.p.c., applicabile, ratione temporis (Cass. n. 11439/2018; n. 26860/2014). In base a tale norma non sono impugnabili per omesso esame di fatti storici le sentenze di secondo grado in ipotesi di c.d. doppia conforme. L’ipotesi ricorre quando nei due gradi di merito le “questioni di fatto” siano state decise in base alle “stesse ragioni” (Cass. n. 26744/2016; n. 20994/2019; n. 29322/2019; n. 8320/2022).
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con addebito di spese.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale/ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda