Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 33177 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 33177 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/12/2024
Oggetto: Compensi difensore – Contestazione estensione mandato
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14007/2020 R.G. proposto da
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME
-ricorrente –
contro
NOMECOGNOME che si difende personalmente ex art. 86 cod. proc. civ., con indicazione dell’indirizzo PEC per le comunicazioni.
-controricorrente –
Avverso l’ordinanza n. 5017/2020 resa dal Tribunale di Potenza il 24/3/2020, depositata il 7/4/2020 e non notificata; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12
dicembre 2024 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
Con atto di citazione ritualmente notificato, COGNOME NOME propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 766/2018, col quale il Tribunale di Potenza le aveva intimato il pagamento della somma di € 35.848,62, oltre accessori e interessi legali, in favore dell’avv. NOME COGNOME per compensi professionali, lamentando l’erroneità e indeterminatezza della pretesa creditoria avanzata con riferimento a tre procedure stragiudiziali e l’omessa detrazione degli acconti già versati per l’importo di € 4.000,00, e chiedendo la revoca del decreto ingiuntivo opposto ovvero la riduzione dell’importo dovuto.
Costituitasi in giudizio, NOME COGNOME chiese il rigetto dell’opposizione, salva la detrazione dell’importo di € 3.760,58 per gli acconti percepiti al netto delle spese vive anticipate.
Con ordinanza n. 5017/2020 del 07/04/2020, il Tribunale di Potenza, in composizione collegiale, revocò il decreto ingiuntivo opposto e condannò NOME al pagamento, in favore dell’avv. NOME COGNOME della somma di € 24.778,08, compensando le spese di lite nella misura della metà e condannando l’opponente al pagamento, in favore del creditore opposto, della restante metà.
Contro la predetta ordinanza, NOME COGNOME propone ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi. NOME COGNOME si è difesa con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2233 cod. civ. e del d.m. n. 55/2014, e la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12 cod. proc. civ. e dell’art. 5 d.m. n. 55/2014, perché, nel liquidare le competenze relative al procedimento n. 1182/1989 R.G.T. di divisione
ereditaria, al quale era stato riunito il procedimento n. 163/1992 riguardante le domande di simulazione proposte da NOME NOME e NOME e nel quale l’avv. COGNOME si era costituita solo il 26/8/2014, riportandosi agli scritti difensivi del precedente avv. COGNOME i giudici di merito avevano applicato il criterio indicato nel primo comma dell’art. 5 d.m. n. 55 del 2014, che riguardava la liquidazione dei compensi a carico del soccombente sulla base del valore della quota in contestazione nelle cause di divisione ereditaria, e non, invece, il secondo comma della medesima disposizione, che, per le liquidazioni a carico del cliente, dettava il diverso criterio del valore corrispondente all’entità della domanda. Al riguardo, la ricorrente ha fatto presente che l’avv. COGNOME si era costituito soltanto nel giudizio di simulazione, successivamente riunito a quello di divisione, e che l’avv. COGNOME si era costituita in sostituzione di quest’ultimo, limitandosi a riportarsi ai precedenti scritti difensivi, come del resto confermato dal Tribunale di Potenza nell’ordinanza che aveva definito il proc. n. 1331/2014 R.G.T., che la stessa sentenza non definitiva n. 77/2016, contenente le domande ed eccezioni in concreto esercitate da ciascuna delle parti, attestava che le domande proposte da COGNOME NOME e NOME, introduttive della causa n. 163/1992, si riferivano alla richiesta di declaratoria della simulazione dei contratti di acquisto dei cespiti e delle partecipazioni societarie, ma non anche all’azione di riduzione, e che sulle stesse vi era stata rinuncia con la memoria ex art. 184, quarto comma, cod. proc. civ. datata 12/6/1997, con la conseguenza che nessuna attività istruttoria era stata all’uopo svolta, sicché il Tribunale aveva errato nell’applicare lo scaglione medio per controversie di valore compreso tra euro 52.001,00 ed euro 260.000,00 e non quello corretto per controversie di valore indeterminato basso da euro 25.001,00 ed euro 52.000,00, in
ragione delle domande effettivamente proposte e delle difese effettivamente svolte dalla convenuta Marsico.
In caso di reiezione di tale doglianza, la ricorrente ha inoltre fatto presente che il Tribunale aveva errato nell’individuare il valore della controversia nella misura di euro 175.084,72, facendo esplicito riferimento al valore della quota in contestazione propria della causa di divisione ereditaria (proc. n. 1182/1989), atteso che l’avv. COGNOME non aveva espletato l’attività defensionale nell’ambito del giudizio di divisione ereditaria, ma soltanto in quello di simulazione dal valore indeterminato, come evincibile sia dalla stessa ordinanza impugnata, sia dalla comparsa di costituzione del 26/8/2014, sia dalla nota del 26/8/2014, a firma della predetta professionista, indirizzata al primo difensore, sia dall’ordinanza resa a definizione del giudizio n. 1331/2018, sia dalla sentenza n. 77/2016.
1.2 Preliminarmente, va dichiarata l’infondatezza delle eccezioni di inammissibilità dei motivi di ricorso sollevate dalla controricorrente, per essere gli stessi genericamente dedotti, non essendo tale rilievo riscontrabile genericamente per tutti i motivi, i quali chiariscono adeguatamente le ragioni delle doglianze e le carenze argomentative ravvisate nell’ordinanza impugnata.
Venendo al merito, il primo motivo è infondato.
Occorre, innanzitutto, evidenziare come non sia in contestazione l’avvenuto conferimento di un mandato defensionale in favore dell’avv. COGNOME, ma soltanto la sua estensione alla diversa causa di divisione ereditaria, avendo la ricorrente assunto di non avere conferito alcun mandato per essa, ma soltanto per la diversa azione di simulazione avanzata nei suoi confronti da COGNOME NOME e COGNOME NOME, per la quale si era costituito il precedente difensore sostituito dall’odierna controricorrente.
A tal riguardo, va preliminarmente chiarito come il mandato sostanziale o contratto di patrocinio, a differenza della procura ad
litem che costituisce un negozio unilaterale soggetto a forma scritta, con il quale il difensore viene investito del potere di rappresentare la parte in giudizio, sia, invece, un negozio bilaterale, con il quale il professionista viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato e del contratto d’opera, di svolgere la sua opera professionale in favore della parte (Cass., Sez. 6-3, 31/3/2021, n. 8863; Cass., Sez. 3, 8/6/2017, n. 14276), dando luogo ad un rapporto interno extraprocessuale ben distinto dal mandato ad litem e disciplinato, come si è detto, dalle norme di un ordinario mandato di diritto sostanziale (Cass., Sez. 2, 27/12/2004, n. 24010; Cass., Sez. 2, 15/1/2000, n. 405), sicché, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura ad litem , essendo questa necessaria solo per lo svolgimento dell’attività processuale, né è richiesta la forma scritta, vigendo per il mandato il principio di libertà di forma (Cass., Sez. 2, 16/6/2006, n. 13963).
L’autonomia, per genesi ed effetti, dei due atti, contratto di patrocinio e procura, in virtù della quale l’invalidità della seconda non può essere superata dal primo, che può riferirsi solo ad un’attività extragiudiziaria svolta dal professionista in favore del cliente sulla base di un rapporto interno di natura extraprocessuale (Cass., Sez. 2, 29/8/2014, n. 18450), fa sì che il rilascio di procura alle liti costituisca un mero indice presuntivo della sussistenza tra le parti dell’autonomo rapporto di patrocinio, fonte dell’obbligazione di pagamento del compenso dell’avvocato (come nel caso di specie), che, se contestato, non esonera il difensore dal fornirne la prova, divenendo all’uopo non esaustiva la mera esibizione della procura (Cass., Sez. 2, 11/3/2019, n. 6905).
Né sconfessa tali argomentazioni il principio, pure affermato da questa Corte, secondo cui il rilascio della procura fa presumere che la persona nei cui confronti si agisce per il conseguimento del
compenso abbia anche conferito l’incarico (Cass., Sez. 2, 28/3/2012, n. 4959; Cass., Sez. 2, 27/12/2004, n. 24010; Cass., Sez. 2, 6/12/1988, n. 6631), atteso che, come convisibilmente osservato da Cass., Sez. 2, 11/3/2019, n. 6905, cit., tale giurisprudenza riguarda il caso in cui il compenso sia assunto come dovuto da persona diversa da quella che ha rilasciato la procura ad litem, a conferma del principio secondo cui l’onere probatorio del contratto di patrocinio incombe sull’avvocato che domandi il compenso e che non può assolverlo, in caso di contestazione, mediante il mero richiamo alla procura processuale.
Nella specie, i giudici di merito, analizzando il procedimento n. 1182/1989, avente ad oggetto la divisione ereditaria, hanno affermato che il valore della causa andasse ricavato dal tenore della memoria di costituzione e difesa e dalla sentenza in atti n. 77/2016 che aveva definito il giudizio, sostenendo che si trattasse di domanda proposta in materia di ricostruzione della massa ereditaria ai fini della successiva divisione giudiziale, il cui valore andava determinato, ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato, non in quello della massa attiva ex art. 12 cod. proc. civ., ma avuto riguardo alla quota in contestazione ex art. 5 d.m. n. 55 del 2014, ossia quella di euro 175.084,72, come da c.t.u. del giudizio divisorio e da progetto di divisione.
Orbene, analizzando la memoria di costituzione del 26/8/2014 e la procura vergata a margine, appare subito chiaro come questa avesse avuto ad oggetto il procedimento n. 1182/1989, stante l’esplicita indicazione numerica in esso contenuta, e come il relativo oggetto non potesse che essere esteso anche alla domanda di divisione ereditaria e non limitato alla sola domanda di simulazione che aveva dato luogo al procedimento n. 163/1992 ad esso riunito, posto che la rinuncia a quest’ultima era intervenuta, secondo quanto affermato dalla stessa ricorrente, molto tempo prima, ossia
il 12/6/1997, con la conseguenza che a poco rileva, nella specie, il fatto che il provvedimento di riunione ex art. 274 cod. proc. civ. mantenga intatta l’autonomia dei giudizi anche in relazione alla posizione assunta dalle parti in ciascuno di essi (Cass., Sez. 3, 7/10/2005, n. 19654; Cass., Sez. U, 3/12/1992, n. 12885).
Consegue da quanto detto l’infondatezza della censura.
2.1 Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2233 cod. civ. e del d.m. n. 55/2014 e la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 cod. proc. civ. e dell’art. 4 d.m. n. 55 del 2014, perché il Tribunale, sempre con riferimento al giudizio di cui al motivo che precede, aveva liquidato anche le fasi istruttoria e decisoria, senza considerare che nessuna attività istruttoria era stata svolta per il giudizio di simulazione, atteso che la fissazione dell’udienza per il conferimento dell’incarico al c.t.u. era avvenuta per il solo giudizio di divisione e che proprio con l’ordinanza n. 1331/2018, resa a definizione del giudizio di simulazione, il Tribunale aveva già provveduto a liquidare interamente al precedente difensore la complessiva somma di euro 6.500,00, con evidente mancata valutazione dell’intervenuta rinuncia alla domanda, e che la liquidazione della fase decisoria era avvenuta senza considerare che il Tribunale vi aveva già provveduto in favore dell’avv. Belisario nella misura complessiva di euro 8.100,00, con evidente duplicazione delle competenze relative a tali fasi.
2.2 Il secondo motivo è parimenti infondato.
Infatti, l’estensione del mandato defensionale e della procura all’intero procedimento n. 1182/1989, comprensivo di quello avente n. 163/1992, assorbe le doglianze riguardanti la necessità di discernere tra le rispettive azioni, onde procedere alla liquidazione delle sole spettanze afferenti all’azione di simulazione, spettando all’avv. Sassano anche quelle riferite al giudizio di
divisione, col solo limite dettato dall’art. 6, l. n. 794 del 1942, secondo cui quando più avvocati siano stati incaricati della difesa è riconosciuto a ciascuno di essi il diritto ad un onorario nei confronti del cliente solo in base all’opera effettivamente prestata (Cass., Sez. 2, 4/11/2010, n. 22463, Cass., Sez. 6-2, 18/11/2019, n. 29822), valevole anche in caso di diversa collocazione cronologica degli atti specifici del professionista, rispetto ai quali opera il principio secondo cui, nell’ipotesi di più difensori della stessa parte nel corso del procedimento, a ciascuno di essi potranno essere attribuiti, nei rapporti col cliente, soltanto gli onorari relativi agli atti personalmente compiuti (Cass., Sez. 2, 20/1/1976, n. 168).
E’, dunque, in applicazione di questo principio che i giudici di merito hanno espunto dalla liquidazione in favore dell’avv. COGNOME la voce relativa alla fase introduttiva del giudizio, in quanto interamente svolta dal precedente difensore, avv. NOME COGNOME limitandosi ad analizzare la fase istruttoria/trattazione, siccome riguardante la partecipazione e assistenza agli atti necessari per la formazione della prova o del mezzo istruttorio, anche quand o disposto d’ufficio (nella specie il conferimento di incarico al c.t.u. per il progetto di divisione).
E del resto la fase di trattazione e istruttoria è sempre dovuta, in quanto, come già affermato da questa Corte, il d.m. n. 55 del 2014 non prevede alcun compenso specifico per la fase istruttoria, ma prevede un compenso unitario per la fase di trattazione, che comprende anche quella istruttoria, con la conseguenza che nel computo dell’onorario deve essere compreso anche il compenso spettante per la fase istruttoria, a prescindere dal suo concreto svolgimento (Cass., Sez. 2, 27/3/2023, n. 8561; Cass., Sez. 2, 18/2/2019, n. 4698).
Consegue da quanto detto l’infondatezza della censura.
3.1 Con il terzo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2233 cod. civ. e del d.m. n. 55 del 2014 perché il Tribunale di Potenza, con riguardo all’atto di precetto redatto dall’avv. Sassano in relazione a lla sentenza n. 86/2018 della Corte d’Appello di Potenza a definizione del giudizio n. 344/2014, pur in presenza di una revoca espressa del mandato comunicata con raccomandata del 18/4/2014 e mail del 27/4/2014, aveva liquidato a titolo di competenze la somma di euro 781,43, calcolata sulla quota complessiva di credito, pari a euro 72.178,69, anziché su quella in contestazione spettante alla ricorrente di euro 8.019,85, che avrebbe imposto di applicare lo scaglione medio da euro 5.201,00 a euro 26.000,00, liquidando euro 225,00.
Inoltre, i giudici avevano anche violato e falsamente applicato l’art. 112 cod. proc. civ., in quanto avevano liquidato al medesimo difensore le competenze relative al citato precetto in misura maggiore rispetto a quanto dalla medesima richiesto e ottenuto con il decreto ingiuntivo originariamente opposto e poi revocato, in quanto avevano liquidato la somma di euro 781,43 in luogo della somma di euro 405,00 originariamente richiesta.
3.2 Il terzo motivo è inammissibile.
Esso non attinge infatti la ratio decidendi della pronuncia impugnata, in contrasto col principio secondo cui i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata devono avere i caratteri non solo della specificità e della completezza, ma anche della riferibilità alla decisione stessa (Cass., Sez. 3, 2/8/2002, n. 11530), atteso che, contrariamente a quanto lasciato arguire nella doglianza, i giudici di merito si sono espressi in ordine alla corretta esecuzione dell’atto di precetto, affermando che lo stesso era intervenuto prima che il mandato venisse revocato.
Deve, inoltre, osservarsi come l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo , come, nella specie, la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso (Cass., Sez. 3, 7/6/2023, n. 16028; Cass., Sez. 5, 29/9/2017, n. 2288).
La censura non spiega invece né l’oggetto del giudizio d’appello, nonostante la doglianza sia stata fondata sull’avvenuta applicazione di un scaglione erroneo, né il contenuto del ricorso monitorio, né l’esito di quella fase del giudizio, con la conseguenza che la stessa è rimasta generica e difficilmente comprensibile.
4.1 Con il quarto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2233 cod. civ. e del d.m. n. 55 del 2014, perché, con riferimento alle tre singole procedure stragiudiziali nei confronti dell’Acquedotto Lucano s.p.a. (limitata all’invio di una lettera rimasta inevasa), del Banco di Napoli (limitata alla richiesta di fissazione di una data per la riscossione del saldo attivo di un libretto bancario), e di NOME, NOME e NOME, tutte contestate dalla ricorrente; i giudici di merito avevano liquidato, in favore dell’avv. COGNOME, la somma di euro 5.025,21 senza tener conto né del valore degli affari di ciascuna di esse, né delle attività effettivamente prestate, né dell’interesse effettivo della cliente, né del completamento delle pratiche, né della data di cessazione dei singoli rapporti.
Inoltre, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 18, 19, 21 e 25 del d.m. n. 55/2014 e dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere i giudici di merito liquidato al medesimo difensore la somma di euro 5.025,21, superiore a quella di euro 1.1148,00 chiesta per ciascuna dal medesimo in sede monitoria.
4.2 Il motivo è inammissibile.
Fermo restando quanto osservato nel motivo che precede, va ulteriormente rilevato come, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., il ricorso per cassazione debba contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito (tra le tante Cass., Sez. 6-3, 28/5/2018, n. 13312; Cass., Sez. 6-3, 3/2/2015, n. 1926).
Il principio di autosufficienza non risponde, invero, ad un’esigenza di mero formalismo, ma è volto ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, da evincersi unitamente ai motivi dell’impugnazione, e a consentire di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass., Sez. 3, 12/1/2024, n. 1352; Cass., Sez. 5, 4/10/2018, n. 24340).
La ricorrente, invece, enuncia genericamente le questioni stragiudiziali di cui si era occupata l’avv. COGNOME indicando soltanto il nome delle sue controparti, senza spiegare né i motivi dell’intervento del legale, né il valore delle singole contese, così impedendo a questa Corte di cogliere la dedotta erroneità dello scaglione utilizzato dai giudici di merito nella liquidazione delle relative spettanze.
5.1 Con il quinto motivo, si lamenta, infine, la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ. per avere il Tribunale di Potenza condannato la ricorrente al pagamento della metà delle spese di lite, considerandola soccombente, senza considerare che il primo e il quarto motivo di opposizione erano stati interamente accolti e il secondo parzialmente, mentre il terzo non era stato neppure preso in considerazione, con la conseguenza che avrebbero dovuto compensare interamente le spese.
6.2 Il quinto motivo è infondato.
In tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va, infatti, inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è pertanto limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti (Cass., Sez. 1, 4/8/2017, n. 19613).
7. In conclusione, dichiarata l’infondatezza del primo, secondo e quinto motivo e l’inammissibilità del terzo e quarto, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della ricorrente.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 dicembre