Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 33690 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 33690 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 20/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10157/2020 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECODICE_FISCALE, rappresentata e difesa da se stessa ex art. 86 c.p.c. ed elettivamente domiciliata presso il proprio indirizzo PEC iscritto nel REGINDE; -ricorrente- contro
COMUNE di ARPAIA, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE; -controricorrente- avverso ordinanza di TRIBUNALE BENEVENTO n. 3394/2019 depositata il 05/03/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Premesso che:
l’avvocato NOME COGNOME avendo svolto attività professionale in difesa del Comune di Arpaia in una causa di lavoro risalente al 2014 e conclusasi nel 2017, con ricorso al Tribunale di Benevento ex artt. 702 bis c.p.c. e 14 d.lgs150/2011 chiedeva la condanna del Comune al pagamento del compenso, indicato in 25.000 euro.
Il Tribunale, con l’ordinanza in epigrafe, rilevato che nella delibera n. 81/15, con cui il Comune aveva incaricato la ricorrente dell’attività difensiva, era previsto che ai fini della determinazione del compenso avrebbe dovuto essere applicata la delibera n. 64/10 e che questa delibera prevedeva, per le cause che, come quella oggetto d’incarico, fossero di valore superiore a 26.000,01 euro, un compenso di 1.500,00 euro, accoglieva il ricorso nei limiti di questa somma, precisando non potersi fare applicazione, ratione temporis, dell’art. 19 quaterdecies della legge n. 172/2017, introduttivo dell’art. 13 bis della l. 247/2012, in tema di equo compenso;
l’avv. COGNOME ricorre con due motivi per la cassazione della ordinanza in epigrafe;
il Comune di Arpaia resite con controricorso.
Considerato che:
1. con il primo motivo di ricorso vengono lamentate, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 4 c.p.c., la violazione degli art. 2233 c.c. e del d.m. 55/2014, nonché, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 2233 e 1362 c.c., degli artt. 13 e 13 bis della legge n. 27 del 2012 e dell’art. 2697 c.c. Si sostiene che il Tribunale avrebbe dovuto liquidare il compenso facendo applicazione dei parametri di cui al d.m. n. 55/2014 e non in base a quanto previsto nella delibera n. 64/2010. Ciò perché non vi era stato alcun accordo ‘tra le parti in merito alle tariffe applicate dal Comune con la delibera n. 64/2010’ e in
quanto nella delibera di conferimento incarico n. 81/15 era sì previsto che per ‘il compenso sarà applicata la tariffa forfetaria secondo la tabella dei compensi approvata con delibera di giunta comunale n. 64/2010’, ma era altresì previsto e il Tribunale non ne aveva tenuto conto – che la convenzione sarebbe stata stipulata ‘come da preventivo che il legale renderà in base ai minimi tariffari e salvo espresse integrazioni future in relazioni a circostanze che ne giustifichino il riconoscimento’. Viene altresì contestata l’affermazione del Tribunale in merito alla inapplicabilità della l. n. 172/2017 e quindi dell’art. 13 bis della l. n. 247 del 2012 e si sostiene che il Comune avrebbe dovuto dare prova della esistenza di accordi relativi al compenso. Si svolgono considerazioni sulla inderogabilità dei minimi tariffari del compenso dell’avvocato e sui limiti entro cui è ammissibile la rinuncia, anche parziale, al compenso da parte dell’avvocato;
con il secondo motivo di ricorso viene lamentato che il Tribunale avrebbe, in violazione dell’art. 2697 c.c. e senza motivazione, ritenuto che vi fosse stato un accordo tra le parti in ordine al compenso.
I due motivi di ricorso possono essere esaminati assieme.
3.1. È incontestato che nella delibera di conferimento dell’incarico era espressamente stabilito, attraverso il rinvio alla tabella allegata alla delibera della giunta comunale n. 64/2010, che all’avvocato COGNOME sarebbe stato riconosciuto il compenso di 1.500,00 euro.
3.2. L’affermazione per cui non vi era stato alcun accordo e comunque non era stato dimostrato dal Comune che vi fosse stato un accordo ‘tra le parti in merito alle tariffe applicate dal Comune con la delibera n. 64/2010’ non tiene conto della giusta ratio della ordinanza secondo cui vi era stato accordo sulla quantificazione del compenso nella misura indicata in tale delibera.
3.3. L’affermazione per cui il Tribunale avrebbe in sostanza violato il criterio sistematico di interpretazione del contratto (art. 1363
c.c.) perché non avrebbe tenuto conto della clausola della delibera di conferimento incarico n.81/15, in cui era fatta salva la possibilità di integrare la convenzione ‘in relazione a circostanze che ne giustifichino il riconoscimento’, è un’affermazione scollegata dal contenuto dell’ordinanza dato che il Tribunale non ha fatto cenno -e neppure in ricorso vi è alcun cenno – a convenzioni successive alla delibera di conferimento di incarico volte a riconoscere all’avvocato COGNOME una maggiorazione del compenso inizialmente convenuto.
3.4. È poi infondata la contestazione rivolta all’affermazione del Tribunale in merito alla inapplicabilità, ratione temporis, della l. n. 172/2017 (‘Conversione in legge, con modificazioni, del decreto -legge 16 ottobre 2017, n. 148’), entrata in vigore il 6 dicembre 2017, e quindi dell’art. 13 bis della l. 247 del 2012, introdotto dall’art. 19 quaterdecies della l.172 cit. In tema, la Corte ha già avuto occasione di precisare che ‘l’art. 13 bis della l. n. 247 del 2012 sul cd. equo compenso dell’avvocato non ha natura interpretativa e valore retroattivo, facendo difetto sia l’espressa previsione nel senso dell’interpretazione autentica, sia i presupposti di incertezza applicativa di norme anteriori che ne avrebbero giustificato l’adozione’ (Cass. ,
Sez. 1, ordinanza n.7904 del 17/04/2020). Riguardo, infine, al preteso errore in cui il Tribunale sarebbe incorso riconoscendo un compenso inferiore ai minimi tariffari di cui al d.m. n. 55/2014, da considerarsi inderogabili, va detto che l’errore non sussiste data la possibilità di un accordo tra le parti circa la determinazione del compenso anche in misura inferiore ai limiti tariffari di cui al d.m. n. 55/2014. In questo senso è la giurisprudenza di questa Corte per cui ‘la legge 31 -12-2012 n. 247 (di riforma della professione forense) ha in generale stabilito, art. 13, che il compenso spettante al professionista è pattuito di regola per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale, e che la pattuizione dei
compensi è libera, salvo il divieto dei patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa; a loro volta, secondo la medesima previsione, i parametri indicati nell’apposito decreto ministeriale, ai sensi dell’art. 1, terzo comma, della stessa legge, possono essere applicati “quando all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell’interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge”; questa Corte ha chiarito (v. Cass. n. 21235/2013; Cass. n. 1900/2017; Cass. n. 14293/18) che il compenso per prestazioni professionali va determinato in base alla tariffa e va adeguato all’importanza dell’opera solo nel caso in cui esso non sia stato liberamente pattuito, in quanto l’art. 2233 cod. civ. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo rilevanza in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta fra le parti – e solo in mancanza di quest’ultima, in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, infine, alla determinazione del giudice; non rilevano, in ipotesi di libera pattuizione del compenso, neppure i minimi tariffari, giacché la previsione di codesti non si traduce in una norma imperativa idonea a rendere invalida qualsiasi pattuizione in deroga, visto che risponde all’interesse del decoro e della dignità delle singole categorie professionali e non a quello generale dell’intera collettività, che è il solo idoneo ad attribuire carattere di imperatività al precetto con la conseguente sanzione della nullità delle convenzioni ove a esso contrarie (ancora Cass. n. 7904/2020 che richiama Cass. n. 17222/2011, Cass. 1900/2017). La Corte ha altresì puntualizzato che il codice del 1942 affida la determinazione del compenso dei professionisti intellettuali ai criteri individuati dall’art. 2233 c.c., ordinati secondo una specifica gerarchia entro la
quale figurano anche le tariffe. La peculiarità di queste ultime, nell’ambito della professione forense, in passato, emergeva dall’art. 24, l. 13 giugno 1942, n. 794, il quale, a pena di nullità, vietava la deroga agli onorari minimi, divieto che, fra l’altro, veniva interpretato in maniera rigorosa dalla giurisprudenza, che riteneva che in tal modo fosse assicurato il rispetto del criterio di adeguatezza al decoro della professione posto dall’art. 2233, comma 2, c.c., per garantire una libera concorrenza sul mercato e per proteggere i clienti dall’imposizione di compensi eccessivamente elevati. La c.d. riforma Bersani (d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in l. n. 248/2006), ha comportato l’abrogazione di tutte le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano, con riferimento alle prestazioni professionali, «l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime». L’art. 9, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in l. 24 marzo 2012, n. 27, ha provveduto all’abrogazione delle tariffe (comma 1), sostituendole con i parametri (comma 2), ed a tale intervento normativo fece seguito l’emanazione della l. 31 dicembre 2012, n. 247, recante la nuova disciplina dell’ordinamento forense, il cui art. 13, commi 6 e 7, riprende i parametri già introdotti per tutte le professioni intellettuali dal d.l. n. 1/2012. Nelle more dell’emanazione della legge n. 247/2012, stante l’avvenuta abrogazione delle tariffe, era stato però emanato il DM n. 140/2012, volto a fissare i nuovi criteri di determinazione dei compensi dei professionisti forensi. Il decreto contiene l’esplicita affermazione del carattere sussidiario della liquidazione giudiziale del compenso rispetto all’accordo delle parti e della possibilità di ricorrere all’analogia per risolvere i casi non espressamente menzionati nel regolamento (entrambi esplicitati nell’art. 1, comma 1), nonché l’affermazione della non vincolatività, anche per il giudice, delle soglie indicate per la determinazione del compenso, nelle tabelle allegate al regolamento. L’art. 13 della legge n. 247/2012, per ciò che attiene alla determinazione dei
compensi, al comma 6, dispone che: ‘I parametri indicati nel decreto emanato dal Ministro della giustizia, su proposta del CNF, ogni due anni, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, si applicano quando all’atto dell’incarico o successivamente il compenso non sia stato determinato in forma scritta, in ogni caso di mancata determinazione consensuale, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi e nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell’interesse di terzi o per prestazioni officiose previste dalla legge’, ed al successivo comma 7 precisa che: ‘I parametri sono formulati in modo da favorire la trasparenza nella determinazione dei compensi dovuti per le prestazioni professionali e l’unitarietà e la semplicità nella determinazione dei compensi’. In attuazione di tale norma è stato poi emesso il DM 10 marzo 2014, n. 55, che ha sostituito integralmente, per gli esercenti la professione forense, sia la parte generale che quella che era loro specificamente dedicata (artt. 2 -14) del DM 20 luglio 2012 n. 140. La novella ha confermato la possibilità di deroga ai valori minimi e massimi anche per la liquidazione del compenso da parte del giudice in assenza di accordo. Il quadro normativo ha poi subito un’ulteriore variazione a seguito dell’emanazione del DM n. 37/2018, entrato in vigore il 27 aprile 2018, che ha modificato solo alcune delle previsioni del DM n. 55/2014, eliminando la possibilità, per il giudice, di una liquidazione anche al di sotto dei minimi tariffari senza avere come riferimento alcuna soglia numerica minima. La soluzione in punto di inderogabilità, in riferimento alla liquidazione dei compensi da parte del giudice, dei minimi tariffari, non contrasta con la normativa comunitaria e ciò, ‘in primo luogo, in quanto le tariffe, seppure approntate da parte del CNF, sono poi sottoposte al vaglio ed al controllo dell’autorità statale, essendo la loro approvazione oggetto di una trasposizione in decreti ministeriali, e con la formulazione di un preventivo parere da parte del Consiglio di Stato’ e in secondo luogo – ed è questo che nella presente
fattispecie interessa ‘in quanto resta impregiudicata la possibilità per le parti di poter porre in essere degli accordi anche in deroga alle previsioni tariffarie, essendo l’inderogabilità dettata per il caso di assenza di pattuizioni ovvero di liquidazione giudiziale in danno della parte soccombente’ (Cass. n. 24993 del 2023 in motivazione).
In ragione di quanto precede i motivi di ricorso devono essere rigettati;
le spese seguono la soccombenza;
6. ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater d.P.R. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in € 3. 000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e altri accessori di legge se dovuti.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda