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Compenso amministratore: quando è revocabile?

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un ex amministratore unico contro un’azione di revocatoria fallimentare per oltre 200.000 euro di compensi. I giudici hanno confermato che i pagamenti, privi di una valida base nello statuto societario e deliberati in stato di insolvenza, costituivano atti di straordinaria amministrazione dannosi per i creditori. Di conseguenza, il principio di non revocabilità del compenso amministratore non era applicabile.

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Compenso Amministratore: Quando Può Essere Revocato in Caso di Fallimento?

Il compenso amministratore è un tema centrale e spesso delicato nella vita di una società, specialmente quando questa naviga in acque finanziarie turbolente. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali sulla sua revocabilità in caso di fallimento, sottolineando l’importanza della base statutaria e della natura degli atti di pagamento nel contesto di una crisi d’impresa. La decisione esamina il caso di un amministratore unico condannato a restituire oltre 200.000 euro percepiti a titolo di compenso, ritenuti illegittimi e dannosi per i creditori.

I Fatti del Caso: Un Compenso Contestato

Il caso ha origine dalla decisione del Tribunale, confermata poi dalla Corte d’Appello, di accogliere la domanda di revocatoria fallimentare avanzata dalla curatela di una S.r.l. L’azione era diretta a recuperare una somma complessiva di 213.760,00 euro, versata dalla società al suo amministratore unico a titolo di compenso.

Secondo i giudici di merito, questi pagamenti erano illegittimi per due ragioni principali:
1. Mancanza di una base statutaria: Lo statuto sociale prevedeva per gli amministratori solo il rimborso delle spese e, eventualmente, un’indennità annuale deliberata dai soci. Non menzionava in alcun modo un compenso mensile fisso.
2. Natura straordinaria dell’atto: I pagamenti, privi di una valida fonte giustificativa e deliberati in un contesto di palese insolvenza, non potevano essere considerati atti di ordinaria amministrazione. Pertanto, non beneficiavano delle esenzioni dalla revocatoria previste dalla legge fallimentare.

L’amministratore ha proposto ricorso in Cassazione, contestando l’interpretazione dello statuto e sostenendo la natura ordinaria e necessaria dei pagamenti per la continuità aziendale.

La Decisione della Cassazione e il compenso amministratore

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, rigettando le argomentazioni dell’ex amministratore e consolidando importanti principi in materia.

Primo Motivo: L’Interpretazione dello Statuto Sociale

L’amministratore lamentava una violazione delle regole di ermeneutica contrattuale (art. 1363 c.c.), sostenendo che i giudici di merito avessero interpretato erroneamente lo statuto. La Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: l’interpretazione dei contratti e degli atti negoziali, come lo statuto di una società, è un’attività esclusiva del giudice di merito. In sede di legittimità, la Corte può solo verificare se il giudice abbia applicato correttamente i canoni legali di interpretazione, non può sostituire la propria interpretazione a quella, plausibile e non irragionevole, fornita nei gradi precedenti. Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva logicamente concluso che lo statuto non prevedeva un compenso mensile, rendendo i pagamenti privi di causa legittima.

Secondo Motivo: La Natura Straordinaria del Pagamento e il compenso amministratore

Il secondo motivo di ricorso si concentrava sulla natura dei pagamenti. L’amministratore sosteneva che, essendo funzionali all’operatività della società, dovessero essere considerati atti di ordinaria amministrazione. Anche su questo punto, la Cassazione ha dato torto al ricorrente. La Corte ha chiarito che, nell’ambito di una procedura concorsuale o in uno stato di insolvenza, la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione deve essere valutata esclusivamente nell’ottica dell’interesse dei creditori. Un atto che, pur astrattamente ordinario, riduce il patrimonio a danno dei creditori assume un connotato di straordinarietà. La delibera che riconosceva il compenso amministratore, per di più con efficacia retroattiva e adottata dopo il deposito della domanda di concordato, era un atto idoneo a incidere negativamente sul patrimonio e a pregiudicare le ragioni dei creditori, qualificandosi quindi come atto di straordinaria amministrazione.

Le Motivazioni della Corte

Le motivazioni della Corte Suprema si fondano su due pilastri. In primo luogo, l’insindacabilità dell’interpretazione statutaria fornita dai giudici di merito, quando questa sia logica e plausibile. La Corte d’Appello aveva correttamente evidenziato come lo statuto distinguesse nettamente tra rimborso spese/indennità annuale per gli amministratori e compenso per figure specifiche come i consiglieri delegati, concludendo che per l’amministratore unico non era previsto un vero e proprio stipendio. Qualsiasi modifica a tale disposizione avrebbe richiesto una formale modifica statutaria, mai avvenuta. In secondo luogo, la valutazione della natura di un atto in un contesto di crisi d’impresa deve essere rigorosa e finalizzata alla tutela della massa creditoria. Pagare un compenso privo di fondamento legale in una situazione di palese insolvenza non è un atto di gestione normale, ma una disposizione patrimoniale che lede la par condicio creditorum.

Conclusioni

Questa ordinanza rafforza un messaggio chiaro per gli amministratori di società: la legittimità del loro compenso deve avere una base solida e inequivocabile nello statuto sociale o in una valida delibera assembleare. In assenza di ciò, e soprattutto in prossimità di una crisi aziendale, i pagamenti ricevuti sono a forte rischio di revocatoria fallimentare. La decisione sottolinea che l’interesse supremo da tutelare in tali contesti è quello dei creditori, e qualsiasi atto che riduca il patrimonio senza una valida giustificazione sarà considerato straordinario e potenzialmente revocabile. Gli amministratori devono quindi agire con la massima prudenza, assicurandosi che la loro remunerazione sia formalmente corretta e non pregiudizievole per l’integrità del patrimonio sociale.

Quando il compenso di un amministratore può essere soggetto a revocatoria fallimentare?
Il compenso di un amministratore è soggetto a revocatoria fallimentare quando manca una valida fonte giustificativa, come una previsione chiara nello statuto sociale o una legittima delibera. Inoltre, se il pagamento viene effettuato in un contesto di insolvenza e viene qualificato come atto di straordinaria amministrazione perché pregiudica il patrimonio a danno dei creditori, può essere revocato.

L’interpretazione dello statuto sociale da parte del giudice di merito può essere contestata in Cassazione?
No, l’interpretazione di un atto negoziale come lo statuto sociale è un’attività riservata al giudice di merito. La Corte di Cassazione può intervenire solo per verificare la corretta applicazione delle regole legali di interpretazione (ermeneutica contrattuale), ma non può sostituire la propria interpretazione a quella del giudice di merito se quest’ultima è plausibile e logicamente motivata.

Un pagamento a un amministratore può essere considerato un atto di straordinaria amministrazione?
Sì, un pagamento può essere considerato un atto di straordinaria amministrazione se, valutato nell’interesse dei creditori in un contesto di crisi d’impresa, determina una riduzione del patrimonio sociale senza una valida giustificazione. La qualifica non dipende dalla natura astratta dell’atto, ma dal suo impatto concreto sul patrimonio destinato a soddisfare i creditori.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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