Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25651 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25651 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/09/2025
O R D I N A N Z A
sul ricorso proposto da:
COGNOME Flora , rappresentata e difesa dagli Avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Ricorrente
contro
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato.
Controricorrente avverso l’ordinanza n.2934/2019 della Corte di appello di Roma, depositata il 13.3.2019.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15.4.2025 dal consigliere NOME COGNOME
Fatti di causa e ragioni della decisione
Con ordinanza n. 2934 del 13.3.2019 la Corte di appello di Roma rigettò l’opposiz ione proposta da COGNOME Flora ai sensi dell’art. 42, comma 7, d.lgs. n. 159 del 2011, avverso il decreto emesso dal GIP del tribunale di Roma che gli aveva liquidato l’importo di euro 199.696,00 a titolo di compenso per lo svolgimento di incarico di amministratore giudiziario di impianti fotovoltaici
della società RAGIONE_SOCIALE oggetto di sequestro preventivo emesso ai sensi dell’art. 321 c.p.p. e dell’art. 12 sexies legge n. 356 del 1992, incarico svolto dal maggio 2012 all’agosto 2017.
La Corte romana motivò il rigetto del ricorso reputando che correttamente il Tribunale avesse liquidato l’importo applicando i minimi tariffari previsti dall’art. 3, comma 2 lettera a), del d.p.r. n. 177 del 2015, con riduzione massima del 50% ai sensi del successivo art. 4, ritenendo tale determinazione del tutto adeguata e congrua all’attività prestata dall’esp onente, sia in temini qualitativi che quantitativi.
Per la cassazione di questa ordinanza, con atto notificato il 14.10.2019, ha proposto ricorso COGNOME COGNOME sulla base di sei motivi.
Il Ministero della Giustizia ha notificato controricorso.
Parte ricorrente ha depositato memoria.
Il primo motivo di ricorso denuncia violazione dell’art. 42, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011, dell’art. 2 legge n. 94 del 1999, dell’art. 8 d.lgs. n. 14 del 2010 e degli artt. 3 e 4 d.p.r. n. 177 del 2015, lamentando che la Corte di appello abbia proceduto alla decisione della causa dichiarando di ricorrere a criteri equitativi, in contrasto con la disciplina dettata dalla legge, che invece determina criteri obiettivi e vincolanti per la determinazione del compenso.
Il motivo è infondato.
Dalla lettura del provvedimento emerge chiaramente che la Corte di appello ha provveduto a determinare il compenso richiesto dalla ricorrente tra il minimo ed il massimo dei parametri posti dall’art. 3, comma 1 lett. a), d.p.r. n. 117 del 2015, riconoscendo carattere vincolante ai criteri stabiliti dalla normativa. Il criterio equitativo a cui fa riferimento il provvedimento impugnato, viene invece richiamato allo scopo di rappresentare l’esigenza che nella liquidazione il giudice debba procedere al ‘ragio nevole bilanciamento tra il diritto ad un equo compenso in capo all’amministratore giudiziario e l”interesse di chi sopporti i costi della procedura’, cioè in un ambito e significato pienamente conforme alla finalità dell’attività che il professionista incaricato esercita nell’ambito del procedimento giudiziario in cui è nominato. Così intesa, la prospettiva da cui si è mossa la Corte di appello non integra alcuna violazione di legge, tenuto altresì
conto che, nella determinazione del compenso, il giudicante ha fatto applicazione del tutto correttamente del criterio relativo alla adeguatezza e congruità del compenso all’attività concretamente svolta, valutandone l’impegno e la gravosità.
Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 111 Cost. e 134 c.p.c., censurando di nullità l’ordinanza impugnata per mera apparenza della motivazione, per non avere la Corte territoriale espresso le ragioni del proprio convincimento, mediante indicazione degli elementi fattuali presi in considerazione, essendosi limitata a recepire acriticamente le valutazioni del decreto impugnato. In particolare, risultano ignorate le deduzioni svolte dalla ricorrente in sede di opposizione, ove aveva compiutamen te descritto l’oggetto e la natura delle attività espletate nello svolgimento dell’incarico, il cui impegno ed importanza certamente non giustificavano la liquidazione del compenso al minimo e l’ulteriore riduzione dello stesso alla metà.
Il motivo non merita accoglimento.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte che, a seguito riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito, restando il sindacato di legittimità sulla motivazione circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa o obiettivamente incomprensibile.
Nel caso di specie l’ordinanza impugnata si sottrae alla censura sollevata, dal momento che ha giustificato l’applicazione dei minimi tariffati sulla base della esplicita considerazione che l’attività in concreto espletata dal professionista , in termini sia quantitativi che qualitativi, era un’attività di routine, che comportava un controllo settimanale degli impianti in sequestro e non aveva richiesto particolare impegno. La stessa motivazione evidenza che la Corte di appello ha condotto una valutazione in concreto dell’attività e sple tata dall’amministratore
giudiziario e che quindi sono state prese in considerazioni le deduzioni da questi svolte in sede di opposizione, con le quali l’esponente non formulava contestazioni specifiche, ma rappresentava i molteplici adempimenti eseguiti ed il carico di lavoro assolto. In ogni caso la critica svolta dal ricorrente non supera la soglia di una mera denuncia di insufficienza di motivazione, non più proponibile in sede di giudizio di legittimità.
Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2233 c.c. e degli artt. 3, comma 1, e 8 d.p.r. n. 177 del 2015, censurando l’ordinanza impugnata per avere violato i principi secondo cui il compenso equo va di regola individuato nel parametro medio della tariffa e deve essere adeguato all’importanza dell’opera e al decoro della professione. Nel caso di specie la Corte avrebbe dovuto motivare in modo specifico, cosa che non ha fatto, le ragioni per cui ha ritenuto giustificato, in adesione al primo giudice, un discostamento apprezzabile dal parametro medio. Il motivo è infondato.
Il vizio di violazione di legge denunciato è riscontrabile soltanto nei casi in cui il compenso venga determinato al di sotto dei minimi vincolanti per legge, laddove l’ordinanza impugnata ha applicato il minimo, dando conto in motivazione di tale scelta. La stessa previsione normativa tra un minimo ed un massimo implica la possibilità, e la conseguente legittimità, di una liquidazione ancorata al minimo, conferendo al giudice una discrezionalità che, risolvendosi in una valutazione di merito, non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità, restando condizionata solo ad una adeguata motivazione, che nella specie, come segnalato, è certamente sussistente.
Il quarto motivo di ricorso, che denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., censura l’ordinanza impugnata per avere fondato la sua decisione sulla premessa errata che l’amministratore giudiziario ha diritto al compenso nella misura minima, salvo che dimostri di avere svolto un’attività di eccezionale o d media importanza. In particolare, si lamenta che la Corte di appello non abbia preso in considerazione, al fine di valutare l’importanza dell’incarico svol to, le diverse e numerose prestazioni
poste in essere dalla ricorrente, che, non essendo state nemmeno contestate dall’Amministrazione, dovevano ritenersi pienamente provate.
Anche questo motivo non merita accoglimento.
Nell’impianto motivazionale dell’ordinanza impugnata l’affermazione della Corte di appello in ordine alla indifettibilità del rispetto degli onorari minimi non assume infatti valore assoluto, ma va contestualizzata tenendo conto della precedente valutazione condotta dal giudicante, che aveva ritenuto che l’attività prestata dalla ricorrente non aveva richiesto particolare impegno e gravosità, ma era stata, al contrario, di routine, essendosi risolta nella visita degli impianti una volta la settimana. In tale prospettiva, il rilievo secondo cui l’interessato non aveva dimostrato di avere svolto attività di particolare ed eccezionale rilievo, tali da giustificare l’applicazione dei massimi tariffari, non si risolve affatto in un ribaltamento dell’onere probatorio, ma solo nella considerazione, integrante valutazione di merito, che gli elementi dallo stesso adotti non convincevano del contrario.
Il quinto motivo di ricorso denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., assumendo che la Corte di appello è incorsa nel vizio di omessa pronuncia, per non avere esaminato il motivo di opposizione che lamentava la mancata liquidazione del compenso con riferimento ai ricavi lordi dell’impresa amministrata, espressamente previsti come voce autonoma dall’art. 3, comma 1, lett. d) d.p.r. n. 177 del 2015.
Il motivo è infondato.
Dalla lettura della ordinanza impugnata emerge che la Corte territoriale ha applicato la riduzione prevista dall’art. 4 d.p.r. n. 117 del 2015, tanto al compenso previsto dall’art. 3 lett. a), quanto agli utili netti e ricavi lordi conseguiti di cui alla successiva lett. d), riduzione che evidentemente presuppone che queste ultime voci siano state computate. Del resto la censura è generica, omettendo qualsiasi indicazione di tali importi e conseguentemente del compenso corrispondente maturato.
Il sesto motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 d.p.r. n. 177 del 2015, lamentando che l’ordinanza impugnata abbia
ritenuto giustificata l’applicazione del coefficiente di riduzione del compenso, ai sensi della norma citata, nella misura massima.
Il motivo è inammissibile, sia per genericità sia perché investe una valutazione discrezionale del giudice circa l’esercizio del suo potere di riduzione del compenso, non sindacabile in sede di giudizio di legittimità.
In conclusione, il ricorso è respinto.
Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 15 aprile 2025.
Il Presidente
NOME COGNOME