Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 20197 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 20197 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 18/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 583/2022 R.G. proposto da: COGNOME, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME e COGNOME ed elettivamente domiciliato agli indirizzi PEC dei difensori iscritti nel REGINDE; -ricorrente-
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, domiciliato per legge in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che lo rappresenta e difende ex lege; -controricorrente- avverso ORDINANZA di TRIBUNALE NAPOLI n. 6733/2019 depositata il 04/11/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/11/2024 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il giudizio trae origine dall’opposizione proposta da NOME COGNOME avverso il decreto di liquidazione del compenso, pari ad € 20.211,00, effettuata dal GIP di Napoli per l’attività svolta in qualità di amministratore giudiziario di beni ed aziende riconducibili direttamente o indirettamente a Granata Sabatino, sottoposti a sequestro penale nell’ambito di una misura di prevenzione personale e patrimoniale emessa nei confronti del medesimo.
L’amministrazione aveva ad oggetto beni immobili e società ed era stata svolta dall’opponente unitamente ad altro amministratore dal 2.3.2015 al 18.7.2016.
Nel contraddittorio con il Ministero della Giustizia, il Tribunale di Napoli, con ordinanza del 4.11.2021, rigettò l’opposizione.
Il Tribunale, nel determinare l’entità della liquidazione in favore di NOME COGNOME considerò che l’attività di gestione era stata svolta unitamente ad altro amministratore e a due coadiutori.
L’incarico aveva avuto breve durata , perché NOME COGNOME vi aveva rinunciato a causa della pendenza nei suoi confronti di un procedimento penale.
L’attività era consistita principalmente nella stipula di tre contratti di locazione, nell’apertura di due conti correnti, nella richiesta di pagamento di canoni ovvero in atti di ordinaria amministrazione, in relazione ai quali non era stata presentata alcuna rendicontazione ma unicamente richieste di chiarimenti ed istanze di autorizzazione.
L’attività più onerosa, ai sensi dell’art. 3, comma 6 del DPR 177/2015, aveva riguardato l’amministrazione della società RAGIONE_SOCIALE di Granata Maria, per la quale era stato coadiuvato da un esperto professionista, mentre nessuna specifica attività era stata svolta in relazione alle altre società.
Il Tribunale, con riguardo al metodo utilizzato per la liquidazione, considerò prevalente la gestione delle società e, in applicazione dell’art. 6 del DPR 177/2015, aumentò il compenso del 5% perché la gestione aveva ad oggetto quote societarie, mentre non applicò nessuna maggiorazione per i beni immobili, perché rientranti nella gestione della società RAGIONE_SOCIALE
L’importo così determinato venne ripartito tra gli amministratori ed aumentato del 20%, trattandosi di incarico collegiale, e poi ridotto del 50% per la rinuncia nel corso dell’espletamento dell’incarico.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Napoli sulla base di un unico motivo.
Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ.
In prossimità della camera di consiglio, il ricorrente ha depositato memorie illustrative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso, si deduce la violazione del DPR n.177/2015, ai sensi dell’art.360, comma 1, n.3 c.p.c., per avere il Tribunale errato nel calcolo del valore base dei beni sequestrati, sul quale era stato calcolato il compenso, perché non sarebbe stata effettuata una perizia estimativa tanto che, successivamente, nel liquidare il compenso all’altro amministratore cui era stato affidato lo stesso incarico, il Tribunale avrebbe rettificato il valore del patrimonio. Sarebbe, altresì, erronea la determinazione del compenso secondo i minimi tariffari e l’aumento del 5% limitatamente alla gestione delle quote societarie e non per la gestione dei beni immobili. L’ordinanza impugnata avrebbe illegittimamente ridotto il
compenso del ricorrente per aver rinunciato all’incarico, sebbene si trattasse di facoltà attribuita al professionista ai sensi dell’art. 2237 c.c. e la rinuncia sarebbe stata determinata dal procedimento a suo carico per turbativa d’asta e corruzione, reati da cui sarebbe stato assolto.
Infine, il Tribunale non avrebbe tenuto conto dei risultati raggiunti dalle società amministrate in termini di utili conseguiti, elemento che non giustificherebbe la riduzione del 50% del compenso richiesto. Del resto, la complessità della gestione sarebbe comprovata dalla nomina di due coadiutori.
In definitiva, il ricorrente si duole che il Tribunale non abbia applicato la percentuale del 5% per la tipologia dei beni immobili ai sensi dell’art. 3, comma 6, ed abbia operato la riduzione del 50% in presenza di tutti i criteri previsti dall’art. 4 per l’applicazione dell’aumento fino al massimale previsto dal primo comma ed abbia applicato gli scaglioni minimi.
Il motivo è infondato.
E ‘ inammissibile la doglianza con cui si contesta la determinazione del patrimonio in sequestro sul rilievo, del tutto apodittico, della diversa determinazione del valore attribuito ai beni in sequestro in occasione della liquidazione del compenso all’altro amministratore.
Va caso evidenziato che l’art. 2, comma 2, lett. b) del DPR n. 177/2015 prevede che per determinare il valore dei beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria si deve tener conto del valore stimato dal perito ovvero, in mancanza, dall’amministratore giudiziario, per i beni che non hanno costituito oggetto di liquidazione.
Nel caso di specie, i valori del patrimonio sono stati determinati secondo i dati indicati dal medesimo amministratore, che, pertanto, è
conforme ai criteri determinati dal’art.2, comma 2, lett. b) del DPR n. 177/2015.
L’ordinanza del Tribunale ha correttamente applicato la normativa prevista dal DPR n. 177/2015 anche nella determinazione del compenso in favore del ricorrente.
E’ opportuno richiamare l’art. 3 del DPR n. 177 del 2015, che così recita:
‘Salvo quanto previsto dal comma 3, i compensi degli amministratori giudiziari sono liquidati sulla base dei seguenti criteri:
per i beni costituiti in azienda, quando sono oggetto di diretta gestione da parte dell’amministratore giudiziario, i compensi devono consistere in una percentuale, calcolata sul valore del complesso aziendale, non superiore alle seguenti misure:
per i beni costituiti in azienda, quando sono concessi in godimento a terzi, i compensi devono consistere in una percentuale, calcolata sul valore del complesso aziendale, non superiore alle seguenti misure:
per i beni immobili, i compensi devono consistere in una percentuale, calcolata sul valore dei beni, non superiore alle seguenti misure……’ .
L’art. 2, comma 6 prevede che, nell’ipotesi in cui siano oggetto di sequestro patrimoni che comprendono beni rientranti in almeno due delle categorie indicate alle lettere a), b), c) e d) del comma 1, si applica il criterio della prevalenza della gestione più onerosa.
Si tratta dell’ipotesi prevista nel caso di specie, in cui il patrimonio comprendeva beni costituiti in azienda e beni immobili.
La norma, in tali casi, prevede che il compenso per tale gestione, debba essere maggiorato di una percentuale non superiore al 25 per cento per ogni altra tipologia di gestione ed in relazione alla complessità della stessa.
Il Tribunale, con apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha ritenuto prevalente la gestione delle società e, in applicazione dell’art. 6 del DPR n. 177/2015, ha aumentato il compenso del 5% perché la gestione aveva ad oggetto quote societarie, mentre nessuna maggiorazione ha previsto per la gestione dei beni immobili, perché rientranti nella gestione della società RAGIONE_SOCIALE
L’aumento per la categoria dei beni immobili, amministrati attraverso la gestione della società, comporterebbe una illegittima duplicazione del compenso all’amministratore per lo svolgimento della medesima attività, atteso che la gestione della società implica la custodia dei beni rientranti nel patrimonio della medesima.
E ‘ sottratto al sindacato di legittimità l’applicazione della percentuale applicabile sul valore del patrimonio purché non vi sia violazione dei minimi tariffari.
Nel caso di specie, l’ordinanza impugnata, nel valutare l’impegno profuso dal ricorrente, ha considerato che l’attività di amministrazione era stata svolta unitamente ad altro amministratore e a due coadiutori e, soprattutto ha tenuto conto del breve arco temporale in cui si è svolto l’incarico, durato poco più di un anno, a seguito di rinuncia da parte del ricorrente a causa della pendenza, nei confronti, di un procedimento penale.
Il Tribunale ha accertato che l’attività era consistita principalmente nella stipula di tre contratti di locazione, nell’apertura di due conti corrente, nella richiesta di pagamento di canoni ovvero in atti di ordinaria amministrazione, in relazione ai quali non era stata presentata alcuna rendicontazione ma unicamente richieste di chiarimenti ed istanze di autorizzazione.
La rinuncia all’incarico, pur costituendo legittima facoltà del professionista, integra un motivo di riduzione del compenso rispetto all’altro amministratore, nella misura che il Tribunale ha discrezionalmente determinato nella misura del 50%.
L’art.4 del DPR n. 177 del 2015 attribuisce, infatti, al giudice la facoltà di aumentare o ridurre l’ammontare del compenso liquidato a norma dell’articolo 3 in misura non superiore al 50 per cento, sulla base dei seguenti criteri:
complessità della gestione;
ricorso all’opera di coadiutori;
necessità e frequenza dei controlli esercitati;
qualità dell’opera prestata e dei risultati ottenuti;
sollecitudine con cui sono state condotte le attività di amministrazione, ivi compreso l’adempimento degli obblighi di segnalazione gravanti sugli amministratori;
numero dei beni compresi nel compendio sequestrato.
Il Tribunale, nel ridurre il compenso ha considerato che l’amministratore non aveva portato a termine la gestione, rinunciando alla stessa mentre era in corso e tale scelta aveva inciso sulla qualità dell’opera prestata nonché del minor numero di controlli svolti rispetto all’amministratore che era rimasto in carica.
L’ordinanza ha, pertanto, rispettato i criteri previsti dagli artt. 3 e 4 del DPR n. 177 del 2015 ed il ricorso, sotto lo schermo della violazione di legge sollecita una nuova valutazione del materiale probatorio sul quale è si è basata la liquidazione nell’ambito del range stabilito per legge.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR 115/2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione