Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 33180 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 33180 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/12/2024
Oggetto: Compensi difensore
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 07195/2020 R.G. proposto da
COGNOME rappresentato e difeso da sé medesimo e dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato nel proprio studio in Domegliara, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
COGNOME e NOME COGNOME rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME.
-controricorrenti –
Avverso l’ordinanza n. 5056/2018 resa dal Tribunale di Verona, in composizione collegiale, pubblicata il 17/12/2019 e non notificata; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12 dicembre 2024 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. Gli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME proposero ricorso ai sensi dell’art. 14 d.lgs. 150 del 2011, chiedendo la condanna di NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME al pagamento dei compensi per l’attività di assistenza legale, giudiziale e stragiudiziale, da essi prestata nell’ambito delle vicende giudiziarie variamente connesse alla successione ereditaria di NOME COGNOME e, segnatamente, del giudizio promosso dall’ ex moglie del defunto, NOME COGNOME, ex art. 481 cod. civ. per l’accettazione dell’eredità (R.G. n. 614/2013) e davanti alla Sezione Lavoro per la corresponsione, da parte della RAGIONE_SOCIALE s.g.r.p.a., delle somme risultanti dal fondo pensione sottoscritto dal de cuius (R.G. n. 1085/14), nonché di quello da essi promosso ex art. 700 cod. proc. civ. onde ottenere da istituti di credito la documentazione riferita al medesimo defunto (R.G. 3388/17) e del parere sull’opportunità di non costituirsi nel giudizio riassunto nei loro confronti dal Casinò di Venezia, già datore di lavoro del defunto, davanti alla Corte d’Appello di Venezia, per l’importo complessivo di € 33.825,55.
Costituitisi in giudizio, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME eccepirono l’incompetenza del giudice adito sia sotto il profilo territoriale quanto all’attività giudiziale, per essere competenti, rispettivamente, il Tribunale e la Corte d’Appello di Venezia, sia sotto il profilo funzionale quanto all’attività stragiudiziale, contestarono la fondatezza della pretesa sul parere di opportunità, rilevarono il difetto di legittimazione attiva di NOME COGNOME rispetto alla domanda di pagamento dei compensi per il giudizio ex art. 700 cod. proc. civ. e per l’attività stragiudiziale, eccepirono la prescrizione presuntiva e comunque l’avvenuto pagamento del corrispettivo relativo all’ actio interrogatoria , contestarono la quantificazione dei compensi per l’applicazione di maggiorazioni
non dovute e il riferimento a scaglioni di valore non corretti, oltre alla difformità dal parametro di proporzionalità, e proposero, in via di eccezione riconvenzionale, la compensazione tra quanto dovuto e i danni da essi patiti per la perdita di chance a causa del non corretto adempimento del mandato difensivo.
Il Tribunale di Verona, in composizione collegiale, raccolta la rinuncia all’eccezione di incompetenza territoriale, emise l’ordinanza n. 5056/2018 del 06/12/2019, con la quale rigettò le domande aventi ad oggetto i compensi per l’assistenza prestata nei giudizi, dichiarò il difetto di legittimazione attiva dell’avv. NOME COGNOME in relazione al parere stragiudiziale e condannò i resistenti al pagamento della somma di euro 2.859,88, già comprensiva di spese generali, Iva e c.p.a., per l’attività stragiudiziale prestata.
Contro la predetta ordinanza, COGNOME NOME propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. Lot NOME e NOME si sono difesi con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 del d.m. n. 55 del 2014, 1176, secondo comma, cod. civ., 2236, 1223, 209 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, con riferimento alla causa promossa da NOME COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE davanti alla Sezione Lavoro del Tribunale onde vedersi riconoscere le somme accantonate dal de cuius nel fondo pensione aperto da quest’ultimo per complessivi euro 75.830,45, che si era conclusa col riconoscimento, in favore dell’attrice, di 2/3 dell’importo e dei resistenti del restante 1/3, pari a euro 25.277,00, avevano ritenuto sproporzionato il compenso
chiesto nella misura di euro 14.363,30, in quanto superiore della metà rispetto alla somma riconosciuta in favore di COGNOME e Pasio, ed errato lo scaglione applicabile che avrebbe dovuto essere quello da 5.200,01 a 26.000,00 e non quello da 26.001,00 a 52.000,00, sull’errato presupposto che il valore della causa fosse, in quel giudizio, pari a euro 25.277,00 e non invece, come emergente dalle stesse conclusioni, pari a euro 56.250,00, posto che gli assistititi del ricorrente avevano sostenuto in giudizio la necessità di ripartire il fondo per quote uguali (madre, fratello e sorella del de cuius ) e non per quote successorie, trattandosi di diritto iure proprio e non iure successionis .
Inoltre, i giudici avevano errato nell’applicare il valore minimo in luogo di quello medio sul presupposto che la discussione conclusiva fosse stata orale e non scritta, non essendovi motivi per ritenere la prima meno efficace della seconda, stante soprattutto il forte contrasto esistente nella giurisprudenza di legittimità sull’argomento tanto da essere stato rimesso alle Sezioni unite. Infine, non era corretto neppure l’accoglimento dell’eccezione riconvenzionale di perdita di chance , sollevata dai resistenti, con la quale questi avevano evidenziato di non essere stati informati della possibilità di impugnare la parte della decisione che aveva compensato le spese di lite, posto che la domanda da questi proposta era stata accolta soltanto parzialmente e non integralmente, con conseguente correttezza della decisione di compensazione delle spese e probabilità di reiezione di un appello sul punto.
2.2 Il motivo è infondato.
Occorre, innanzitutto, evidenziare come i giudici di merito, dopo avere rappresentato che la causa di lavoro era stata definita con la sentenza n. 409 del 12/8/2015, che aveva accolto solo parzialmente la domanda dell’attrice, riconoscendo la fondatezza
della pretesa dei resistenti a vedersi attribuire la quota di 1/3 delle somme accantonate nel fondo pensione e disposto la compensazione delle spese di lite, abbiano rigettato la domanda degli avv.ti COGNOME e COGNOME sul presupposto che la richiesta di compenso violasse il canone della proporzionalità sancito dagli artt. 2 del d.m. n. 55/2014 (sull’importanza dell’opera) e 29 del codice deontologico forense (che a ncora la proporzionalità all’attività da svolgere o svolta), e che l’importo chiesto di euro 14.363,30 fosse superiore alla metà del valore riconosciuto alle parti, pari a euro 25.277,00, siccome corrispondente all’accoglimento integrale delle loro pretese, avendo essi chiesto e ottenuto l’accertamento del loro diritto alla corresponsione della quota di 1/3 delle somme accantonate nel fondo pensione, sicché andava applicato il diverso scaglione da euro 5.201,00 a euro 26.000,00, senza dover applicare il principio della differenza tra disputatum e decisum riguardante la diversa ipotesi della liquidazione ad opera del giudice e non dei rapporti diretti tra avvocato e clienti.
Orbene, l’art. 5 del D.M. 55/2014 stabilisce che, ai fini della determinazione del valore della controversia, occorre riferirsi alle norme del codice di procedura civile e quindi all’art. 10 e ss. cod. proc. civ., tra le quali vi è l’art. 14, a mente del quale il valore delle cause relative a somme di danaro si determina in base alla somma indicata dall’attore, che costituisce l’oggetto della domanda, mentre l’art. 1 del medesimo d.m. dispone che, nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore della causa è determinato a norma del codice di procedura civile, avendo riguardo, nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata.
Se è vero che l’art. 5 del d.m. n. 55/2014 distingue tra compenso ‘a carico del cliente’ e compenso ‘alla parte vincitrice’, stabilendo
nel primo caso, al comma 2, che la liquidazione deve avvenire sulla base del ‘valore corrispondente all’entità della domanda’ e, nel secondo, al comma 1, che occorre avere riguardo alla somma attribuita alla parte vincitrice, piuttosto che a quella domandata, è anche vero che, come già affermato da questa Corte, detta differenziazione non esclude che il giudice, anche nel rapporto difensore-cliente, debba comunque verificare se la somma domandata sia manifestamente diversa rispetto al “valore effettivo della controversia”, determinato anche in ragione dell’entità economica dell’interesse sostanziale, come desumibile dalla seconda parte del medesimo comma 2 dell’art. 5, oltreché dalla prima parte del successivo comma 3, in quanto gode di una generale facoltà discrezionale di adeguare la misura dell’onorario all’effettiva importanza della prestazione, in relazione alla concreta valenza economica della controversia, ove ravvisi una manifesta sproporzione tra il formale petitum e l’effettivo valore della controversia, quale è desumibile dai sostanziali interessi in contrasto (Cass., Sez. 2, 18/10/2023, n. 28885, cit.).
Si è detto, infatti, che tale interpretazione deve ritenersi preferibile perché più aderente all’esigenza di osservare quel “principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell’opera professionale effettivamente prestata”, che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 19014 del 2007, hanno ritenuto desumibile dall’interpretazione sistematica delle disposizioni in questione, con la conseguenza che occorre far riferimento al criterio del decisum che integra quello del disputatum, senza che tra loro ci sia antinomia (Cass., Sez. U, 11/09/2007, n.19014), in quanto il primo vale a proporzionare gli onorari all’effettiva consistenza della lite, non potendo essere avvantaggiato chi propone una domanda eccedente la giusta
pretesa rispetto a chi propone una domanda contenuta negli effettivi limiti di quest’ultima (Cass., Sez. 2, 9/1/2024, n. 688).
Ciò comporta che il giudice deve verificare, di volta in volta, l’attività difensiva che il legale ha svolto, tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l’importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato all’effettivo valore della controversia, perché, in tale ultima eventualità, il compenso preteso alla stregua della relativa tariffa non può essere ritenuto corrispettivo della prestazione espletata (Cass., Sez. 2, 9/1/2024, n. 688; Cass., Sez. 2, 18/10/2023, n. 28885, cit.; Cass., Sez. 2, 3/7/2020, n. 18942; Cass., Sez. 2, 12/07/2018, n. 18507; Cass. ; Sez. 3, 2/7/2015, n. 19250; Cass., Sez. 2, 8/2/2012, n. 1805; Cass., Sez. 2, 5/1/2011, n. 226; Cass., Sez. 2, 31/5/2010, n.13229; Cass., Sez. U, 11/09/2007, n.19014; Cass., Sez. 2, 11/7/2006, n. 15685).
Alla stregua di tali principi, non può allora che considerarsi infondata la pretesa del ricorrente, che ritiene cogente il criterio della domanda, e, correlativamente, corretta la decisione dei giudici di merito, i quali hanno, per converso, privilegiato il criterio del decisum proprio in ragione della sproporzione esistente tra questo (pari a euro 25.277,00) e la richiesta di compenso nella misura di euro 14.000,00, in quanto superiore alla metà.
2.3 Non può dirsi fondata neppure l’ulteriore doglianza con la quale si contesta l’avvenuta applicazione, da parte dei giudici di merito, del minimo tariffario.
Infatti, in tema di compenso del professionista, le tariffe obbligatorie che, ai sensi degli artt. 2233 cod. civ. e 636, comma 1, ultima parte cod. proc. civ., escludono la discrezionalità del giudice sulla determinazione del concreto ammontare dei compensi sono solo quelle fisse e non quelle con determinazione del massimo e del
minimo, le quali hanno la funzione di stabilire i limiti dell’autonomia privata nella determinazione del compenso, dettando anche i criteri di liquidazione che, in mancanza di accordo, il giudice deve rispettare, e non anche di attribuire al professionista l’unilaterale potestà di indicare il compenso dovuto e fissare, così, l’oggetto principale dell’obbligazione del proprio cliente (Cass., Sez. 3, 4/3/2021, n. 6110).
Con specifico riferimento agli onorari di avvocato e agli onorari e diritti di procuratore, questa Corte ha più volte ribadito che, nella vigenza delle previsioni di cui al DM n. 55/2014, la scelta degli importi da liquidare tra i minimi e i massimi fissati dai parametri è discrezionale e non deve essere sostenuta da alcuna motivazione, perché i parametri sono indicati tabellarmente, mentre la motivazione è doverosa soltanto se il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, perché in tal caso è necessario che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di esso (Cass. n. 14198 del 05/05/2022; Cass. n. 19989 del 13/07/2021; Cass. n. 89 del 07/01/2021, Cass. n. 2386 del 31/01/2017; Cass. n. 11601 del 14/05/2018).
Ciò comporta che la relativa determinazione non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità, se non quando l’interessato specifichi le singole voci della tariffa che assume essere state violate, indicando anche i conteggi che rivelino l’inadeguatezza delle somme liquidate (Cass., Sez. 1, 24/2/2020, n. 4782; Cass., Sez. 2, 3/4/1999, n. 3267; Cass., Sez. 2, 23/5/2002, n. 7527; Cass., Sez. 1, 26/10/1968, n. 3589; Cass., Sez. 1, 25/10/1968, n. 3532), precisazione che, nella specie, è del tutto mancata, sicché i ricorrenti non possono lamentarsi in questa sede dell’avvenuta applicazione, da parte dei giudici di merito, dei minimi tariffari, in quanto le difese della fase conclusiva erano state
svolte in forma orale e non scritta, senza oltretutto precisare quali voci della tariffa fossero state violate, trattandosi di questioni rimesse alla discrezionalità del giudice di merito.
1.3 Quanto, infine, all’ulteriore questione riguardante l’eccezione di perdita di chance , che i resistenti avevano sollevato, lamentando di non essere stati avvertiti dall’avvocato della possibilità di impugnare la sentenza in ordine alla decisa compensazione delle spese di lite, nonostante la soccombenza della controparte nei reciproci rapporti, e che i giudici di merito hanno accolto, va innanzitutto osservato come l’avvocato, nell’adempimento della propria prestazione professionale, sia tenuto ad informare il cliente sulle conseguenze del compimento o del mancato compimento degli atti del processo, e, se del caso, a sollecitarlo nel compimento di essi ovvero, sussistendo le condizioni, a dissuaderlo dalla loro esecuzione, sicché la circostanza che il cliente abbia omesso di fornire indicazioni al proprio avvocato circa la propria intenzione di proporre o meno impugnazione avverso una sentenza sfavorevole non esclude la responsabilità del professionista per mancata tempestiva proposizione dell’appello, se questi non aveva provveduto ad informare il cliente sulle conseguenze dell’omessa impugnazione (Cass., Sez. 3, 20/11/2009, n. 24544).
L’obbligazione del legale, che è non di risultato, ma di mezzi o di comportamento, ha ad oggetto, infatti, soltanto la prestazione dell’attività professionale (Cass., Sez. 1, 13/12/1969, n. 3958), la quale si sostanzia, tra le altre cose, nel dovere di informare tempestivamente il cliente del suo parere di inopportunità a promuovere un giudizio, onde mettere nelle condizioni quest’ultimo di evitare decadenze o prescrizioni ove intenda dissentire dal parere suddetto (Cass., Sez. 1, 13/12/1969, n. 3958).
Ciò detto, si osserva come la responsabilità dell’avvocato – nella specie per omessa proposizione di impugnazione – non possa
affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone (Cass., Sez. 3, 05/02/2013, n. 2638; Cass., Sez. 2, 07/08/2002, n. 11901), atteso che la perdita di una “chance” favorevole non costituisce un danno di per sé, ma soltanto – al pari del danno da lucro cessante – se la “chance” perduta aveva la certezza o l’elevata probabilità di avveramento, da desumersi in base ad elementi certi ed obiettivi (Cass., Sez. 3, 10/12/2012, n. 22376; Cass., Sez. 1, 13/12/1969, n. 3958).
Come questa Corte ha avuto modo di affermare, nel giudizio di responsabilità dell’avvocato per negligente svolgimento dell’attività professionale verso il cliente, la valutazione prognostica circa il probabile esito dell’azione giudiziale, avendo ad oggetto il nesso di causalità tra l’attività omessa e il possibile esito favorevole che sarebbe potuto derivare al cliente, attiene al merito di quel giudizio e, come tale, non è sindacabile in sede di legittimità, a meno che tale valutazione si fondi su un presupposto manifestamente e totalmente errato di modo che la questione posta al giudice del merito sia di puro diritto, poiché l’errore di sussunzione è deducibile con il ricorso per cassazione (Cass., Sez. 3, 11/11/2024, n. 28903; Cass., Sez. 3, 13/2/2014, n. 3355).
Nella specie, i giudici di merito hanno ritenuto che il professionista non avesse dimostrato di avere fornito ai propri clienti un’adeguata informazione sulle possibilità e prospettive di un’eventuale
impugnazione onde consentire loro di adottare delle decisioni consapevoli, che non fosse all’uopo sufficiente l’allegazione dell’avvenuta rinuncia, da parte loro, all’appello, non avendogli essi conferito il relativo mandato, che l’impugnazione avesse serie possibilità di essere accolta, giacché la compensazione era stata decisa sulla base dell’asserita reciproca soccombenza delle parti, benché questa non fosse rilevabile dalla sentenza e benché i resistenti avessero avuto ragione, in quanto avevano ottenuto l’accoglimento della propria pretesa a scapito della controparte, che aveva, invece, chiesto l’assegnazione integrale dei fondi, e che pertanto potesse dirsi accertato positivamente l’inadempimento del difensore, che, con la sua omissione, aveva impedito ai clienti di ottenere il ristoro delle spese processuali.
Né può attribuirsi rilevanza al fatto omesso della reciproca soccombenza derivante dal fatto che la quota chiesta non fosse quella liquidata nella misura di 1/3, bensì quella, diversa, di 1/3 per ciascuno degli eredi, di cui non vi è alcuna traccia nell’ordinanza impugnata, non avendo il ricorrente indicato, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il “dato”, testuale o extratestuale, da cui risulti esistente il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso e il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”(Cass., Sez. 2, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. U, 7/4/2014, n. 8053).
Pertanto, una volta accertato l’inadempimento del difensore e il nesso causale tra esso e il danno patito dai clienti, correttamente i giudici di merito hanno ritenuto di non condannare i controricorrenti al pagamento delle spese del giudizio davanti alla Sezione Lavoro del Tribunale, atteso che, come già affermato da questa Corte, l’errore professionale addebitabile all’avvocato, quando accertato, come in caso di omessa informazione del cliente
circa le conseguenze della mancata impugnazione di una sentenza, rende del tutto inutile l’attività difensiva precedentemente svolta dal professionista, dovendosi ritenere la sua prestazione totalmente inadempiuta ed improduttiva di effetti in favore del proprio assistito, con la conseguenza che in tal caso non è dovuto alcun compenso al professionista (Cass., Sez. 3, 26/02/2013, n. 4781).
2.1 Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 18, 19 e 20 del d.m. n. 55 del 2014, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, con riferimento alla disamina del ricorso in riassunzione notificato ai resistenti nel giudizio n. 99/2017 davanti alla Corte d’Appello di Verona, in relazione al quale aveva sconsigliato agli assistititi la costituzione in giudizio, avevano ritenuto erroneo il calcolo del compenso nella misura di euro 6.312,20 siccome fondato sulle tariffe giudiziali e non su quelle stragiudiziali, senza considerare che, ai fini della liquidazione della fase di ‘studio della controversia’, non rileva che vi sia stata o meno la costituzione in giudizio.
I giudici avevano, inoltre, errato sia in quanto avevano applicato la misura minima della tariffa e non la media, valorizzando il fatto che il parere fosse stato rilasciato in forma orale e non scritta, benché anche questo richiedesse l’esame degli atti, sia in quanto non avevano applicato gli aumenti percentuali della pluralità delle parti assistite.
2.2 Il secondo motivo è infondato.
Occorre innanzitutto respingere l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza, sollevata dai controricorrenti, sul presupposto che non sia indicato nel motivo né il punto dell’ordinanza attinto dalla doglianza, né la descrizione della sentenza n. 409/15 del Tribunale di Venezia.
Secondo il più recente orientamento nomofilattico, infatti, il requisito dell’autosufficienza, corollario del requisito di specificità dei motivi, deve essere interpretato in maniera elastica (Cass. 11325/2023), in conformità all’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte -oggi recepita dal nuovo testo dell’art. 366, comma 1, n. 6 c.p.c., come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022 -e alla luce dei principi stabiliti nella sentenza CEDU del 28 ottobre 2021 ( Succi RAGIONE_SOCIALE ), che lo ha ritenuto compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, a condizione che, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa (Cass. 12481/2022); tra l’altro, esso non può tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, ove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito (Cass. Sez. U, 8950/2022); Cass., Sez. 1, 7/11/2023, n. 30917).
Nella specie, la censura è articolata in modo tale da far comprendere le questioni sollevate e le parti dell’ordinanza censurate, con conseguente infondatezza dell’eccezione.
Venendo al merito, si osserva come i giudici di merito, ritenendo non contestato lo svolgimento di attività stragiudiziale da parte dell’avvocato, abbiano accolto la domanda, rilevando che l’importo richiesto nella misura di euro 6.312,20 fosse stato determinato sulla base dell’errato presupposto che si applicassero le tariffe previste dal d.m. n. 55 del 2014 per l’attività giudiziale e non quelle per l’attività stragiudiziale, con scaglione di valore indeterminato compreso tra euro 26.000,00 ed euro 52.000,00, basso e non medio in quanto il parere era stato reso in forma orale e non scritta.
Orbene, va innanzitutto chiarito come alla presente controversia si applichi il d.m. n. 55/2014 così come modificato dal d.m. 8 marzo 2018 n. 37, atteso che, in forza di quanto stabilito dall’art. 6, comma 1, le modifiche da ultimo apportate si applicano alle liquidazioni delle spese di lite effettuate in data successiva all’entrata in vigore del medesimo decreto (27.04.2018) e che la liquidazione delle spese di lite dell’odierna controversia è stata effettuata successivamente, in data 6/12/2019, senza che si ponga la questione dell’applicazione dei nuovi parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, introdotti dal decreto n. 147/2022, in quanto detta novella è entrata in vigore il 23 ottobre 2022 (Cass., Sez. 6-L. 10/11/2022, n. 33156).
Orbene, il d.m. n. 55 del 2014 dedica il capo IV ai compensi spettanti per l’attività stragiudiziale, stabilendo, all’art. 18, rubricato ‘ Compensi per attività stragiudiziale ‘, che ‘ 1. I compensi liquidati per prestazioni stragiudiziali sono onnicomprensivi in relazione ad ogni attività inerente l’affare ‘ e, all’art. 19, rubricato ‘ Parametri generali per la determinazione dei compensi ‘, che ‘ 1. Ai fini della liquidazione del compenso si tiene conto delle caratteristiche, dell’urgenza, del pregio dell’attività prestata, dell’importanza dell’opera, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, della quantità e qualità delle attività compiute, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e in fatto trattate. In ordine alla difficoltà dell’affare si tiene particolare conto di contrasti giurisprudenziali rilevanti, della quantità e del contenuto della corrispondenza che risulta essere stato necessario intrattenere con il cliente e con altri soggetti. Il giudice tiene conto dei valori medi di cui alla tabella allegata, che, in applicazione dei parametri generali, possono, di regola, essere aumentati fino all’80 per cento, o diminuiti fino al 50 per cento ‘.
Quanto al valore dell’affare, l’art. 21, comma 1, stabilisce che ‘ Nella liquidazione dei compensi il valore dell’affare è determinato salvo quanto diversamente disposto dal presente comma – a norma del codice di procedura civile. In ogni caso si ha riguardo al valore effettivo dell’affare, anche in relazione agli interessi perseguiti dalla parte, quando risulta manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o della legislazione speciale ‘, precisando al comma 7 che ‘ Gli affari di valore indeterminabile si considerano di regola e a questi fini di valore non inferiore a euro 26.000,00 e non superiore a euro 260.000,00, tenuto conto dell’oggetto e della complessità dell’affare stesso ‘.
Al riguardo, deve considerarsi che già l’originario unico comma dell’art. 18, applicabile ratione temporis , al quale il comma 1 dell’art. 4 del d.m. n. 147/22 ha aggiunto un secondo comma, prevedendo la possibilità di una liquidazione « per ciascuna fase o parte » quando però l’affare si componga « di fasi o di parti autonome in ragione della materia trattata », consentiva di ritenere, per sua formulazione, la spettanza di più compensi per differenti segmenti temporali anche in caso di attività stragiudiziale resa per uno stesso affare, allorché l’avvocato dimostrasse che l’affare fosse distinguibile in più fasi, nel senso che si fosse concluso e poi fosse stato riaperto, così come separato compenso spettava se, nell’ambito di quello stesso affare, l’attività da retribuire si connotasse come autonoma per sua specifica funzione, essendo detta interpretazione necessitata dal principio di correlazione tra il compenso e l’effettività della prestazione professionale resa, confermata, come si è detto, nell’aggiunta, all’art. 18, come riportata, del secondo comma, con funzione interpretativa (Cass., Sez. 2, 10/10/2023, n. 28327).
Ciò non significa, però, che, come preteso dal ricorrente, debbano trovare applicazione i criteri dettati per l’attività giudiziale, essendo
quella stragiudiziale regolata da apposita disciplina che individua un parametro di riferimento precostituito ex lege dalla tabella allegata alla tariffa, il cui valore medio può essere ridotto fino al 50% o aumentato fino all’80% , alla stregua dell’importanza dell’affare e dell’attività prestata (in tal senso Cass., Sez. 2, 18/4/2005, n. 8084).
Né può il ricorrente dolersi del fatto che i giudici di merito abbiano ritenuto di liquidare l’importo dovuto nella misura minima, atteso che, come riferito da questa Corte, la quantificazione del compenso dovuto per l’attività stragiudiziale, se determinata in misura compresa tra i minimi e i massimi tariffari, costituisce oggetto di apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità (cfr. Cass., Sez. 3, 2/7/2019, n. 17685; Cass. Sez. 6-3, 02/02/2018, n. 2644).
In ragione di quanto detto, la censura va rigettata.
3.1 Con il terzo motivo, si lamenta, infine, la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 del d.m. n. 55 del 2014, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, sia nella causa davanti al giudice del lavoro, sia per il parere stragiudiziale, avevano escluso la maggiorazione del 40%, sostenendo nel primo caso che il ricorrente non avesse allegato alcuna peculiarità della controversia e omettendo di motivare per il secondo caso. Il ricorrente ha, sul punto, evidenziato come la maggiorazione di cui all’art. 4, secondo comma, del d.m. n. 55 del 2014 sia prevista ogniqualvolta l’avvocato assista più soggetti aventi la medesima posizione processuale, senza necessità di specifiche peculiarità, e come una siffatta valutazione rilevi nella sola liquidazione delle spese di lite ad opera del giudice e non in caso di rapporti diretti tra avvocato e clienti, onde evitarne applicazioni arbitrarie, tant’è che in caso di processi promossi
separatamente e poi riuniti spetta al legale il compenso pieno per ogni parte rappresentata.
3.2 Il motivo è infondato.
L’art. 4, comma 2, d.m. n. 55/14 riguarda in modo onnicomprensivo l’ipotesi in cui il medesimo difensore assista parti che hanno la medesima posizione processuale formale – attore, convenuto, interveniente, terzo chiamato -, sicché essa si applica a tutte queste ipotesi, con la sola eccezione prevista dal comma 4, il quale detta l’ipotesi in cui il medesimo avvocato assiste più parti che hanno sì la medesima veste formale (tutti attori, tutti convenuti, ecc.), ma la cui difesa richiede l’esame di distinte questioni di fatto o di diritto (Cass., Sez. 3, 17/04/2024, n. 10367). Come osservato recentemente da questa Corte, l’obbligatorietà o facoltatività dell’applicazione dell’aumento, che è stata risolta dal legislatore con il d.m. 13.8.2022, n. 147, allorché ha previsto l’obbligatorietà dell’aumento ai sensi del comma 2 dell’art. 4, d.m. 55/14 nel caso di assistenza di più parti, per tutte le prestazioni professionali completate dopo il 23.10.2023, in virtù del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, lettera (b), 6 e 7 d.m. 13.8.2022, n. 147, non vale invece per quelle completate prima dell’entrata in vigore di quest’ultimo decreto (avvenuta per l’appunto il 23.10.2023), come nella specie, nelle quali l’aumento poteva applicarsi ‘ di regola’ , e dunque in base alle circostanze del caso (Cass., Sez. 3, 17/04/2024, n. 10367, cit.).
Ciò comporta che la disposizione di cui all’art. 4, comma 2, della tariffa professionale approvata con d.m. n. 55 del 2014, nella formulazione ratione temporis applicabile, prevedeva la liquidazione di un compenso unico aumentato sino al doppio nell’ipotesi di assistenza e difesa di una parte nei confronti di più controparti come una mera facoltà, ancorché non arbitraria o a sensazione del giudice, ma soggetta a motivazione sulla decisione
di non applicare l’aumento (Cass., Sez. 3, 17/04/2024, n. 10367, cit.), sicché, una volta assolto tale onere, nessuna violazione poteva dirsi realizzata dal mancato esercizio del relativo potere discrezionale sul punto, né questo poteva essere denunciato in sede di legittimità (Cass., Sez. 3, 19/5/2021, n. 13595; Cass., Sez. 1, 10/1/2017, n. 269).
Pertanto, avendo i giudici di merito affermato, con riguardo alla causa di lavoro, di non ritenere applicabile la maggiorazione del 40% per la pluralità di parti, prevista dall’art. 4, comma 2, d.m. n. 55 del 2014, non avendo i ricorrenti fornito alcuna giustificazione per la sua applicazione, peraltro meramente facoltativa, sulla base di specifiche peculiarità della controversia, deve ritenersi che non sussista la lamentata violazione, avendo essi motivato sul punto.
Nulla invece deve ritenersi dovuto a tale titolo con riguardo all’attività stragiudiziale, atteso che il citato art. 4 è espressamente contemplato soltanto per le attività giudiziali.
In conclusione, dichiarata l’infondatezza dei tre motivi, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie
nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 dicembre