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Compensazione impropria: detrazione acconti e licenziamento

Un lavoratore, dopo un primo licenziamento dichiarato nullo, ne subisce un secondo per un’altra causa. La Corte di Cassazione, applicando il principio della compensazione impropria, stabilisce che l’importo che l’azienda aveva già versato in esecuzione della sentenza di primo grado deve essere detratto dalla somma finale dovuta al lavoratore a titolo di indennità risarcitoria. La Corte ha chiarito che tale operazione contabile può essere eseguita d’ufficio dal giudice.

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Compensazione impropria e licenziamenti: la Cassazione fa chiarezza

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, è intervenuta su un caso complesso riguardante due licenziamenti successivi e la corretta quantificazione dell’indennità risarcitoria. La pronuncia è fondamentale per comprendere il meccanismo della compensazione impropria e come questa influisca sulla detrazione degli acconti versati dal datore di lavoro in corso di causa.

I fatti di causa

La vicenda ha origine da un licenziamento collettivo, comunicato a un lavoratore in data 12 gennaio 2017, che viene successivamente dichiarato nullo dal Tribunale. A seguito di questa declaratoria, il lavoratore ottiene un decreto ingiuntivo per il pagamento di 12 mensilità di retribuzione a titolo di indennità.

L’azienda si oppone al decreto e il Tribunale, in primo grado, riduce l’indennità a 5 mensilità. Nel frattempo, in data 2 agosto 2017, la società comunica al lavoratore un secondo e distinto licenziamento, questa volta per superamento del periodo di comporto (massimo periodo di assenza per malattia).

La Corte d’Appello, riformando parzialmente la sentenza di primo grado, condanna l’azienda a pagare un’indennità risarcitoria calcolata su 7 mensilità, corrispondenti al periodo tra il primo licenziamento (12.1.2017, dies a quo) e il secondo (2.8.2017, dies ad quem), che non era stato impugnato e aveva quindi definitivamente interrotto il rapporto di lavoro.

La questione della Compensazione impropria nel ricorso principale

L’azienda presenta ricorso in Cassazione lamentando che la Corte d’Appello non abbia considerato un fatto decisivo: l’avvenuto pagamento delle 5 mensilità stabilite dalla sentenza di primo grado, provvisoriamente esecutiva. La società chiedeva che tale importo fosse detratto dalla somma maggiore (7 mensilità) riconosciuta in appello.

La Cassazione accoglie questo motivo, richiamando il principio consolidato sulla compensazione impropria (o atecnica). Questo istituto si applica quando crediti e debiti reciproci sorgono dal medesimo rapporto giuridico. In tali casi, non si tratta di una compensazione in senso tecnico (che richiede un’eccezione di parte), ma di un semplice accertamento contabile delle reciproche poste di dare e avere.

Il giudice, pertanto, può e deve procedere d’ufficio a questo calcolo, anche in grado di appello, per determinare l’esatto saldo del rapporto, senza che sia necessaria una specifica domanda o eccezione delle parti.

Il rigetto del ricorso incidentale del lavoratore

Il lavoratore, a sua volta, aveva presentato un ricorso incidentale sostenendo che il secondo licenziamento non potesse limitare il suo diritto al risarcimento, in quanto la questione era ormai coperta da giudicato. Secondo la sua tesi, il diritto all’indennità per 12 mensilità era già stato cristallizzato dall’ordinanza che aveva dichiarato nullo il primo licenziamento.

La Cassazione respinge integralmente le argomentazioni del lavoratore. Gli Ermellini chiariscono che il secondo licenziamento, basato su una causa autonoma e distinta (il superamento del comporto), era un evento nuovo e non coperto dal giudicato formatosi sul primo recesso. Poiché il lavoratore non lo aveva impugnato nelle sedi competenti, esso era diventato efficace e aveva prodotto l’effetto di interrompere definitivamente il rapporto di lavoro. Di conseguenza, la Corte d’Appello ha correttamente individuato nel secondo licenziamento il dies ad quem per il calcolo dell’indennità risarcitoria.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione fonda la sua decisione su due pilastri. Da un lato, accoglie il ricorso principale basandosi sulla natura della compensazione impropria. Questa opera come un semplice ricalcolo contabile che il giudice deve effettuare per definire correttamente il dare e l’avere tra le parti all’interno dello stesso rapporto. L’aver omesso di detrarre la somma già versata in esecuzione della prima sentenza costituiva un errore procedurale. Dall’altro lato, la Corte rigetta il ricorso incidentale perché il giudicato sul primo licenziamento non poteva estendersi a un successivo atto di recesso, fondato su presupposti fattuali e giuridici completamente diversi e autonomi. La mancata impugnazione del secondo licenziamento lo ha reso definitivo, ponendo un limite temporale invalicabile al periodo risarcibile.

Le conclusioni

In conclusione, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, conferma la condanna della società al pagamento dell’indennità calcolata dalla Corte d’Appello, ma ordina che da tale somma venga detratto quanto già versato in esecuzione della sentenza di primo grado. La decisione offre un importante chiarimento pratico: i pagamenti eseguiti in forza di una sentenza provvisoriamente esecutiva devono sempre essere considerati nel calcolo finale del dovuto, attraverso il meccanismo d’ufficio della compensazione impropria, garantendo così che nessuna parte paghi più del dovuto o riceva somme non spettanti.

Cos’è la compensazione impropria e quando si applica?
È un’operazione di mero calcolo contabile che il giudice può eseguire d’ufficio per definire i crediti e i debiti che nascono dallo stesso rapporto (nel caso di specie, il rapporto di lavoro). Si applica per accertare il saldo finale tra le parti senza che sia necessaria una specifica richiesta.

Un pagamento effettuato in base a una sentenza di primo grado può essere detratto dalla condanna finale in appello?
Sì. Secondo la Corte, la somma versata in esecuzione di una sentenza di primo grado, provvisoriamente esecutiva, deve essere detratta dall’importo finale stabilito dalla sentenza d’appello. Questa operazione rientra nel concetto di compensazione impropria.

Un secondo licenziamento può limitare il risarcimento dovuto per un primo licenziamento dichiarato nullo?
Sì, se il secondo licenziamento è basato su una causa autonoma e distinta (come il superamento del periodo di comporto) e non viene impugnato dal lavoratore. In tal caso, esso produce l’effetto di interrompere definitivamente il rapporto di lavoro e costituisce il termine finale per il calcolo dell’indennità risarcitoria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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