Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23726 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 23726 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 22/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 9405-2024 proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1725/2023 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 12/10/2023 R.G.N. 1689/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
10/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
Coltivatore
diretto – PDA
R.G.N.9405/2024
COGNOME
Rep.
Ud.10/04/2025
CC
RILEVATO CHE
1.La Corte d’a ppello di Bari ha accolto il gravame dell’INPS e, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto l’opposizione proposta da NOME COGNOME avverso il verbale di accertamento emesso nei confronti suoi e del coniuge, confermando l’iscrizione d’ufficio, la prima quale unità non attiva, il secondo come coadiuvante, alla Gestione coltivatori diretti a decorrere dal gennaio 2015.
La Corte territoriale ha ritenuto sussistenti i requisiti soggettivi e oggettivi, di cui alle leggi n.1047/1957 e n.9/1963, per l’iscrizione: dalle risultanze dell’accesso ispettivo, dalla documentazione prodotta e dalle dichiarazioni raccolte, era emerso che la titolare conducesse in affitto i fondi coltivati con la collaborazione del coniuge, il cui lavoro bracciantile era compatibile e non prevalente rispetto alla coltivazione svolta in modo abituale e diretto per la maggior parte dell’anno; tale attività costituiva maggior fonte di reddito, soddisfacendo un fabbisogno di manodopera, calcolato con stima tecnica in ragione della estensione dei terreni e del tipo di colture praticate, non inferiore a 104 giornate annue, per una produzione agricola non necessariamente imprenditoriale -ossia destinata al mercato-, ma destinata anche al sostentamento del coltivatore e della sua famiglia.
NOME propone ricorso per la cassazione della sentenza affidandosi a due motivi, a cui INPS resiste con controricorso.
3.- A seguito di formulazione da parte del consigliere delegato di una sintetica proposta di definizione accelerata del giudizio argomentata, la ricorrente presenta istanza di decisione ai sensi
del secondo comma dell’art. 380 -bis cod. proc. civ. riportandosi a quanto eccepito in sede di ricorso per cassazione.
La causa è stata trattata e decisa all’udienza camerale del 10 aprile 2025.
CONSIDERATO CHE
1.Con il primo motivo la ricorrent e deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2 L.1047/57 e degli artt. 2 e 3 L. 9/1963 per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto sussistenti i requisiti soggettivi e oggettivi per l’attribuzione della qualità di coltivatore diretto con conseguente iscrizione alla Gestione INPS, e per avere errato nel considerare il reddito ricavato dalla coltivazione dei fondi come maggiore fonte di reddito in ragione della circostanza di non aver svolto alcuna attività lavorativa alle dipendenze di terzi.
Con il secondo motivo deduce la violazione dell’art. 2697 c.c. per essere stato attribuito nella impugnata sentenza valore di piena prova al verbale ispettivo ed aver ritenuto erroneamente che non gravasse su INPS l’onere di dedurre e provare gli elementi di fatto e le ragioni di diritto sulla cui base ha disposto l’iscrizione d’ufficio del nominativo della ricorrente alla gestione coltivatori diretti.
Nel controricorso l’INPS eccepisce l’inammissibilità del ricorso i cui motivi si risolvono in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesi ad ottenere una nuova pronuncia sul fatto; contesta quindi che in sede di legittimità si possa proporre una lettura alternativa del compendio probatorio, e conclude anche per l’infondatezza delle
ragioni del ricorso poiché le circostanze soggettive sulla coltivazione personale con l’ausilio del coniuge e sulla saltuaria attività bracciantile in conformità con il fabbisogno indicato per anno emergevano dalle stesse dichiarazioni delle parti.
Nelle memorie depositate a seguito della proposta di definizione accelerata, la ricorrente ribadisce che non c’era prevalenza ed abitualità di lavoro autonomo, che il coniuge era iscritto nell’elenco dei braccianti agricoli per circa 110 -180 giornate annue, e che il reddito prodotto come lavoratore bracciantile era superiore all’imponibile ai fini IVA desunto dalla differenza tra volume di affari e acquisti.
4. Il ricorso è inammissibile.
Le censure, nel loro complesso, tendono ad una rivalutazione del materiale probatorio raccolto nelle fasi di merito, né si ravvisa, nella ricostruzione operata nella impugnata sentenza, alcuna violazione delle norme di legge citate.
Sul piano normativo, ai sensi dell’art. 2 della L. 1047/1957 sono considerati coltivatori diretti non solo i proprietari, enfiteuti ed usufruttuari dei fondi ma anche gli affittuari, i quali si dedichino direttamente e abitualmente alla manuale coltivazione dei fondi. È stato osservato in giurisprudenza di questa Corte che ‘ Ai fini dell’applicabilità dell’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, la qualità di coltivatore diretto -rispetto alla quale manca nell’ordinamento una nozione generale applicabile ad ogni fine di legge- deve essere desunta dal combinato disposto degli artt. 2 della L. n.1047 del 1957, 2 e 3 della L. n.9 del 1963, sicché per il suo riconoscimento è necessario e sufficiente il concorso dei seguenti requisiti: a) diretta, abituale e manuale coltivazione dei fondi, o diretto ed
abituale governo del bestiame, sussistenti allorché l’interessato si dedichi in modo esclusivo a tali attività, o anche in modo soltanto prevalente, cioè tale che le stesse lo impegnino per la maggior parte dell’anno e costituiscano per lui la maggior fonte di reddito; b) prestazione lavorativa del nucleo familiare non inferiore ad un terzo di quella occorrente per le normali necessità delle coltivazioni del fondo e per l’allevamento e il governo del bestiame, nonché fabbisogno di manodopera non inferiore a centoquattro giornate lavorative annue. Non è, pertanto, richiesto il carattere imprenditoriale dell’attività, con la destinazione, anche parziale, dei prodotti del fondo al mercato, essendo sufficiente che gli stessi siano destinati al sostentamento del coltivatore e della sua famiglia, né è prescritto che il coltivatore abbia personalmente prestato centoquattro giornate lavorative annue, riferendosi tale limite al fabbisogno del fondo e non all’attività del singolo’ (Cass. n. 15869/2017).
6.1 A tale principio si è attenuta l’impugnata sentenza laddove ha valorizzato le fonti di prova documentali, ispettive e dichiarative, dalle quali era risultato che la ricorrente aveva condotto i terreni agricoli in virtù di due contratti di affitto, aveva denunciato ad AGEA la conduzione dei terreni coltivati a vigneto e seminativo, non aveva denunciato manodopera dipendente, si occupava della gestione amministrativa dell’azienda, era titolare del libretto ex UMA con annotazione degli strumenti utilizza ti per la coltivazione, e che l’attività di coltivazione era affidata esclusivamente al coniuge. Si aggiunga che sulla attività della titolare non è emerso che abbia svolto altra attività lavorativa, per cui il volume di affari prodotto (citato in ricorso) integra il carattere di prevalenza della propria
fonte reddituale, mentre per il coniuge suo coadiutore l’iscrizione negli elenchi bracciantili non è incompatibile con la quantità di giornate lavorative desunte dal fabbisogno stimato non inferiore a 104 giornate (non inferiore ad un terzo delle giornate annue).
6.2 Sul punto, premesso che a mente dell’art. 2083 c.c. ‘s ono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, … che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia’ e che elemento caratterizzante del lavoro del coltivatore diretto si rinviene nella coltivazione del fondo da parte del titolare, con prevalenza del lavoro proprio e di persone della sua famiglia, va affermato che per l’appartenente al nucleo familiare del coltivatore diretto che coadiuvi nella attività del titolare, la prova del requisito della abitualità dell’attività manuale nella coltivazione dei terreni e della caratteristica di prevalenza dell’attività svolta va commisurata all’impegno del familiare per il maggior periodo di tempo nell’anno ed alla maggior fonte di reddito che costituisca per lui, di tal ché la forza lavoro dell’intero nucleo non sia inferiore ad un terzo di quella necessaria per la coltivazione del fondo (cfr. Cass. n. 3973/2024). Anche sul punto l’impugnata sentenza ha dato atto della prevalenza temporale e reddituale con argomentazioni non censurabili in sede di legittimità. Sulla necessità che per il titolare sia svolta una diretta, abituale e manuale coltivazione dei fondi (o un diretto ed abituale governo del bestiame), sussistenti allorché l’interessato si dedichi a tali incombenti in modo esclusivo, o anche solo prevalente, nel senso che l’attività deve impegnare il coltivatore per il maggior periodo di tempo
nell’anno e costituire per esso la maggior fonte di reddito, si veda anche Cass. n. 30261/2022.
6.3 – Orbene, in ricorso non si allegano circostanze specifiche e contrarie a quelle dedotte in sentenza dalle quali poter evincere che nella ricostruzione in fatto e diritto compiuta dalla corte territoriale siano stati violati i criteri legali da cui dedurre la prevalenza, secondo il disposto dell’art.2 comma 3 della legge n.9 del 1963: “Per attività prevalente, ai sensi di cui al precedente comma, deve intendersi quella che impegni il coltivatore diretto ed il mezzadro o colono per il maggior periodo di tempo nell’anno e che costituisce per essi la maggior fonte di reddito”.
Avuto riguardo al secondo motivo di ricorso, non si ravvisa alcuna violazione della disposizione dell’art. 2697 c.c. nella parte in cui viene regolamentato il riparto dell’onere probatorio; questa Corte ha precisato che ‘In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune
piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.’ ( Cass. n.26739/2024 e n.26769/2018).
7.1 Si rammenta poi, che, ai sensi dell’art. 2700 c.c., il verbale di accertamento INPS fa piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale che lo ha formato come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento o da lui compiuti, nonché alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti, mentre la fede privilegiata non si estende agli apprezzamenti ed alle valutazioni del verbalizzante né ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno avuto notizia da altre persone, ovvero ai fatti della cui verità si siano convinti in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche (Cass. n. 23800/2014); e d’altronde, come è stato di recente precisato, nel giudizio sul rapporto previdenziale, il verbale ispettivo viene in rilievo non nella sua natura di atto amministrativo, di cui si possa sindacare la legittimità, bensì come fonte di prova liberamente valutabile dal giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c. (Cass. n.5851/2024).
7.2 Nel caso di specie l’impugnata sentenza ha esaminato e singolarmente valutato gli elementi probatori raccolti nel verbale ispettivo, nel rispetto del dato normativo, procedendo alla corretta sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta; e trattandosi di domanda di accertamento negativo del credito contributivo nei confronti della ricorrente, a fronte degli elementi documentali e dichiarativi riportati nel verbale ispettivo e puntualmente esaminati dal giudice di merito, volti a completare un accertamento in fatto sulla fondatezza della pretesa dell’INPS, la parte privata non ha segnalato elementi concreti di contrario avviso, non ha argomentato sulla non
precisione o non concordanza degli elementi presuntivi valorizzati dall’INPS, non ha segnalato elementi di inattendibilità delle dichiarazioni rese agli ispettori o di non veridicità del contenuto dei dati documentali; ha invece sviluppato mere argomentazioni rivalutative delle prove acquisite.
Il ricorso è complessivamente inammissibile, in linea con la proposta di definizione accelerata. Segue per soccombenza la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo in ragione del valore determinato della lite, non rilevando la dichiarazione di esenzione ex art. 152 disp. att. c.p.c. stante l’oggetto della domanda, non volta ad ottenere una prestazione previdenziale.
8.1 – La definizione del giudizio in conformità alla proposta non accettata, determina l’applicazione degli ultimi due commi del l’art.96 c.p.c. , contenendo l’art.380 bis, ult. co. c.p.c. una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata in favore della controparte e di un ‘ ulteriore somma di denaro in favore della Cassa delle Ammende, secondo quanto statuito da questa Corte (S.U. n. 27195, 27433, 36069 del 2023, e Cass. 27947 /23), l’una come ulteriore aggravamento della condanna alle spese, l’altra con funzione prettamente sanzionatoria a favore della collettività, entrambe espressive di maggior rilievo dato dalla novella codicistica alla finalità deterrente rispetto al compimento di atti processuali meramente defatigatori, valorizzando la funzione deflattiva della proposta definitoria per disincentivare, in presenza di orientamenti consolidati ed in mancanza di innovative argomentazioni, inutili lungaggini processuali. La ricorrente va dunque condannata a pagare , ai sensi dell’art. 96, terzo e
quarto comma c.p.c., una somma equitativamente determinata in € 1.500,00 in favore della resistente (pari alla metà della principale condanna alle spese), ed un’eguale somma in favore della Cassa delle Ammende.
8.2 Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del DPR n.115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 -bis del citato D.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite che si liquidano in Euro 3.000,00 oltre accessori di rito.
Condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di euro 1.500,00 in favore della controparte, ed al pagamento della ulteriore somma di Euro 1.500,00, in favore della cassa delle ammende.
Dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, a norma del comma 1bis dell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione