Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 13490 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 13490 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso 22292-2019 proposto da:
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , PRESIDENZA DEL RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente del RAGIONE_SOCIALE pro tempore , rappresentati e difesi ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, alla INDIRIZZO;
– ricorrenti principali –
contro
HECKER KRISTINE NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliate in ROMA, INDIRIZZO, presso lo RAGIONE_SOCIALEo dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentate e difese dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
– controricorrenti – ricorrenti incidentali nonchè contro
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato
Oggetto
Collaboratori esperti linguistici Qualificazione del rapporto Trattamento retributivo e di fine rapporto
R.G.N. 22292/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 07/03/2024
CC
e difeso dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME e NOME COGNOME;
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 7/2019 della CORTE D’APPELLO di RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, depositata il 07/03/2019 R.G.N. 387/2015; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/03/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
la Corte d’Appello di RAGIONE_SOCIALE ha riformato la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato tutte le domande proposte da NOME COGNOME e NOME COGNOME, le quali avevano convenuto in giudizio l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE chiedendo, in via principale e per quel che qui rileva, che fosse accertato il loro diritto a percepire il trattamento retributivo minimo garantito agli ex lettori di lingua straniera dall’art. 1 della legge n. 63/2004 e ad ottenere la completa ricostruzione della carriera, con riconoscimento RAGIONE_SOCIALE scatti di anzianità, delle progressioni stipendiali e di ogni altro emolumento in godimento ai ricercatori confermati a tempo definito, ivi compreso il trattamento di fine rapporto, e con conseguente condanna dell’RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle differenze retributive ed alla regolarizzazione della posizione previdenziale;
la Corte distrettuale ha premesso in punto di fatto che le appellanti, inizialmente assunte con contratti a termine ex art. 28 del d.P.R. n. 382/1980, avevano avviato una prima iniziativa giudiziaria e con sentenza del 2 giugno 1998, passata in giudicato a seguito della pronuncia di questa Corte
n. 14433/2000, il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE aveva accertato la natura a tempo indeterminato dei rapporti, dei quali aveva dichiarato la prosecuzione «alle condizioni tutte del contratto applicato precedentemente al termine di scadenza» del 31 ottobre 1993;
con la medesima pronuncia erano state, invece, respinte le rivendicazioni di carattere retributivo fondate sulla invocata applicazione dell’art. 36 Cost.;
3. il giudice d’appello, ripercorsa l’evoluzione normativa ed esclusa l’eccepita estinzione del giudizio ex lege n. 24/2010, non ha condiviso la pronuncia del Tribunale nella parte in cui aveva ritenuto che il precedente giudicato precludesse ogni iniziativa giudiziaria anche per il periodo successivo rispetto a quello in relazione al quale l’adeguatezza della retri buzione era già stata accertata (ossia sino al novembre 1993);
ha precisato al riguardo che nei rapporti di durata l’ultrattività di giudicato trova un limite nella sopravvenienza di fatto o di diritto che muti il contenuto materiale del rapporto o ne modifichi il regolamento, come avvenuto nella fattispecie perché il legislatore, al fine di adeguare l’ordinamento interno a quello eurounitario, aveva dettato una specifica disciplina del trattamento retributivo spettante agli ex lettori e ciò aveva fatto in epoca successiva alla formazione del giudicato; 4. ha, pertanto, ritenuto applicabile l’art. 1 della legge n. 63/2004, come autenticamente interpretato dall’art. 26 della legge n. 240/2010, ed ha riconosciuto le differenze retributive calcolate dal CTU sulla base dei parametri indicati dal richiamato art. 1 e dalla legge di interpretazione autentica, per la COGNOME dal 17 febbraio 1994 al 16 ottobre 2000, data delle dimissioni volontarie, e per la COGNOME limitatamente al periodo 17 febbraio 1994/15 ottobre 1999, giacché l’RAGIONE_SOCIALE l’aveva dichiarata decaduta dall’incarico , con effetto retroattivo, per la violazione dell’obbligo di
esclusività e, pertanto, la prestazione di fatto, protrattasi sino al 18 novembre 2004, non poteva essere apprezzata ai fini «delle domande di miglioramento economico svolte»;
ha escluso che rilevasse nella fattispecie il regime di impegno orario previsto per i ricercatori a tempo definito dall’art. 6 della legge n. 240/2010 ed ha anche evidenziato che non era maturata la prescrizione delle pretese retributive, tenuto conto delle richieste di pagamento inoltrate tempo per tempo dalle ricorrenti;
infine ha ritenuto che l’RAGIONE_SOCIALE dovesse essere condannata anche al pagamento del trattamento di fine rapporto, nei termini quantificati dal CTU, ed alla regolarizzazione previdenziale mediante costituzione di rendita vitalizia ai sensi dell’art. 13 del la legge n. 1338/1962;
5. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE sulla base di tre motivi, ai quali hanno opposto difese NOME COGNOME e NOME COGNOME, le quali hanno notificato controricorso e proposto ricorso incidentale affidato a due motivi;
6. le ricorrenti incidentali hanno depositato memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ.
CONSIDERATO CHE
1. con il primo motivo del ricorso principale è dedotta, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione RAGIONE_SOCIALE artt. 2120 cod. civ. e RAGIONE_SOCIALE artt. 3 e 38 d.P.R. n. 1032/1973 ed è censurato il capo della sentenza impugnata inerente alla quantificazione del trattamento di fine rapporto;
sostengono le ricorrenti principali che il consulente tecnico d’ufficio avrebbe dovuto utilizzare , in relazione alla posizione della COGNOME, due diverse metodologie di calcolo, una per il
periodo febbraio 1994/19 novembre 1997 e l’altra in relazione all’arco temporale compreso fra il 20 novembre 1997 e la cessazione del rapporto in discussione;
ciò perché nella prima fase l’Ateneo aveva applicato il TFR privatistico mentre successivamente il regime era stato quello del trattamento di fine servizio disciplinato dal d.P.R. 1032/1973;
l’ausiliare, invece, aveva quantificato le differenze applicando per l’intero periodo solo le regole stabilite ai fini del calcolo del TFS;
si aggiunge, con riferimento alla sola COGNOME, che nulla poteva essere riconosciuta a quest’ultima , quanto all’arco temporale compreso fra il 15 ottobre 1999 e il 18 novembre 2004, perché il rapporto era stato risolto con efficacia retroattiva in ragione del cumulo di impieghi che aveva determinato la decadenza dal rapporto;
1.2. la seconda censura del ricorso principale, ricondotta ai vizi di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., addebita alla sentenza impugnata «difetto di legittimazione sostanziale passiva della RAGIONE_SOCIALE ricorrente – violazione e falsa applicazione artt. 99 e 100 c.p.c. -art. 26 d.P.R. n. 1032/1973» sul rilievo che nell’impiego pubblico contrattualizzato il trattamento di fine servizio grava sull’istituto previdenziale, ossia sull’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE quale successore ex lege dell’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, e non sul datore di la voro pubblico che, ai sensi dell’art. 26 del d.P.R. n. 1032/1973 , è tenuto soltanto a fornire all’ente i dati relativi al servizio di ruolo, al preruolo ed alla base previdenziale;
l’Ateneo, pertanto, poteva rispondere unicamente delle differenze rivendicate in relazione al TFR privatistico, ossia al trattamento di fine rapporto maturato nel periodo in cui il rapporto di lavoro era stato assoggettato alla disciplina del codice civile;
1.3. infine, con il terzo motivo le ricorrenti principali censurano il capo della sentenza impugnata con il quale l’Ateneo è stato condannato alla costituzione della rendita vitalizia ex art. 13 della legge n. 1338/1962 e denunciano la violazione della disposizione citata nonché dell’art. 3 della legge n. 335/1995, dell’art. 2935 cod. civ., dell’art. 19 del d.l. n. 4/2019, convertito dalla legge n. 26/2019;
le ricorrenti principali sviluppano plurimi argomenti a sostegno della domanda di cassazione in parte qua della pronuncia e rilevano che:
il diritto alla costituzione della rendita vitalizia presuppone l’omissione contributiva, non ravvisabile nella fattispecie in quanto, sia pure limitatamente alla retribuzione erogata, l’obbligo nei confronti dell’istituto previdenziale era stato sempre adempiuto;
non può maturare la prescrizione allorquando il maggiore imponibile deriva dall’accertamento giudiziale;
contraddittoriamente la Corte d’appello da un lato ha escluso la maturazione della prescrizione e dall’altro ha ritenuto che sussistessero i presupposti necessari ai fini della costituzione della rendita che, invece, è ammissibile solo qualora il datore di lavoro non possa provvedere al versamento dei contributi;
in ogni caso occorre tener conto dello ius superveniens, nella specie rappresentato dall’art. 19 del d.l. n. 4/2019 che ha inserito il comma 10 bis nel testo dell’art. 3 della legge n. 335/1995 stabilendo che per i lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche i termini di prescrizione inerenti alle contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria non si applicano fino al 31 dicembre 2021, fatti salvi gli effetti di provvedimenti giurisdizionali passati in giudicato nonché il diri tto all’integrale trattamento pensionistico del lavoratore;
con il primo motivo del ricorso incidentale, formulato nell’interesse di entrambe le originarie ricorrenti, è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 63/2004, interpretato anche in base al principio di non discriminazione di cui a ll’art. 45 TFUE e delle sentenze della Corte di Giustizia UE del 26 giugno 2001, del 18 luglio 2006 e del 15 maggio 2008;
le ricorrenti incidentali sostengono, in sintesi, che illegittima è la «artificiosa divisione in due del rapporto» attuata dalla Corte territoriale la quale ha applicato il parametro previsto dalla richiamata legge n. 63/2004 solo limitatamente al periodo antecedente alla sottoscrizione del contratto disciplinato dalla legge n. 236/1995 e dalla contrattazione collettiva e, per il periodo successivo, ha affermato la prevalenza di quest’ultima, salvo il riconoscimento dell’assegno personale riassorbibile;
deducono che così operando il giudice d’appello ha violato i principi richiamati in rubrica e non ha riconosciuto la ricostruzione della carriera nei termini indicati dalla Corte di Lussemburgo;
2.1. la seconda censura del ricorso incidentale è formulata nell’interesse della sola NOME COGNOME e con la stessa si denuncia la violazione dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 nonché dell’art. 2126 cod. civ.;
la ricorrente incidentale sostiene, in sintesi, che ha errato la Corte territoriale nell’escludere dal calcolo delle differenze retributive anche il periodo 15 ottobre 1999/18 novembre 2004 perché, da un lato non poteva la decadenza operare retroattivamente in relazione ad un rapporto di diritto privato, come tale non disciplinato dal d.lgs. n. 165/2001, dall’altro occorreva applicare alla prestazione di fatto l’art. 2126 cod. civ. e riconoscere alla dipendente la retribuzione proporzionata alla qualità e dalla quantità del lavoro svolto;
3. preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dalla RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, per difetto del necessario interesse; da tempo questa Corte ha affermato che l’interesse all’impugnazione, manifestazione del più generale principio dell’interesse ad agire, va desunto dall’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e viene, pertanto, a collegarsi alla soccombenza, anche parziale, nel precedente giudizio (cfr. fra le tante Cass. n. 13395/2018, Cass. n. 594/2016, Cass. S.U. n. 24470/2013), soccombenza che deve essere esclusa nella fattispecie, in relazione alla posizione propria della RAGIONE_SOCIALE del RAGIONE_SOCIALE dei RAGIONE_SOCIALE, in quanto la Corte territoriale ha rigettato le domande proposte nei confronti di quest’ultima dalle originarie ricorrenti e, come è reso evidente dal tenore del dispositivo, nonché dall’intero sviluppo argomentativo della motivazione, ha condannato la sola RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE di RAGIONE_SOCIALE al pagamento delle differenze retributive;
il primo motivo del ricorso principale, che contesta i criteri seguiti dal consulente tecnico d’ufficio ai fini della quantificazione delle competenze di fine rapporto liquidate in favore delle appellanti, è inammissibile perché formulato senza il necessario rispetto RAGIONE_SOCIALE oneri di specificazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.;
premesso che la sentenza impugnata è motivata mediante il rinvio per relationem all’elaborato peritale, e non contiene alcuna ulteriore affermazione in merito ai criteri sulla base dei quali doveva essere sviluppato il calcolo delle indicate competenze, va detto che la ricorrente principale, nell’assumere l’erroneità della quantifica zione, non riporta, neppure per sintesi, nel testo del ricorso il passaggio
censurato della consulenza tecnica d’ufficio, né fornisce indicazioni sulla localizzazione dell’atto nel fascicolo processuale, come, invece, imposto dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis;
allorquando, come nella fattispecie, venga dedotto nel giudizio di legittimità un error in iudicando nel quale la sentenza impugnata sarebbe incorsa, il rispetto RAGIONE_SOCIALE oneri formali imposti dal citato art. 366 n. 6 cod. proc. civ., da apprezzare unitamente a quello richiesto dal n. 3 della stessa disposizione, è finalizzato a consentire alla Corte di cassazione la valutazione ex actis della rilevanza della censura proposta, perché, come è noto, nel giudizio di legittimità occorre che la dedotta violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, abbia avuto diretta incidenza sulle statuizioni adottate dalla pronuncia gravata; gli oneri richiamati, dunque, non sono espressione di mero formalismo, in quanto rispondono all’esigenza di permettere il pronto reperimento RAGIONE_SOCIALE atti e dei documenti il cui esame risulti indispensabile ai fini della decisione sicché, se da un lato può essere sufficiente per escludere la sanzione della improcedibilità il deposito della richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio nonché dei fascicoli di parte di entrambi i gradi del giudizio di merito, dall’altro non si può mai prescindere dalla spec ificazione dell’esatta sede in cui il documento o l’atto sia rinvenibile (Cass. S.U. n. 25038/2013);
la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 28 ottobre 2021, COGNOME ed altri contro Italia , ha escluso che l’orientamento sopra richiamato sia in sé lesivo del diritto di accesso alla giurisdizione superiore ed ha rilevato che la cosiddetta autosufficienza del ricorso, se applicata senza cadere in eccessivo formalismo, serve a semplificare l’attività dell’organo giurisdizionale nazionale e ad assicurare nello
stesso tempo la certezza del diritto nonché la corretta amministrazione della giustizia (punto 75) in quanto, consentendo alla Corte di Cassazione di comprendere il contenuto delle doglianze sulla base della sola lettura del ricorso, garantisce un utilizzo appropriato e più efficace delle risorse disponibili (punti 78, 104 e 105);
le Sezioni Unite di questa Corte, nel recepire detta sollecitazione, con la sentenza n. 8950 del 18 marzo 2022 hanno affermato che l’onere di «specifica indicazione» imposto dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. non si può «tradurre in un ineluttabile onere di integrale trascrizione RAGIONE_SOCIALE atti e documenti posti a fondamento del ricorso», ma hanno anche ritenuto necessaria l’individuazione chiara del contenuto dell’atto e la sua localizzazione che, invece, difettano nella fattispecie, sicché la censura non supera il preliminare vaglio di ammissibilità;
5. il secondo motivo deve essere rigettato perché, nell’invocare l’applicazione del d.P.R. n. 1032/1973, infondatamente muove dal presupposto che il rapporto che si instaura fra le RAGIONE_SOCIALE ed i collaboratori esperti linguistici debba essere qualificato di impiego pubblico contrattualizzato e debba, di conseguenza, essere assoggettato alla disciplina dettata dal d.lgs. n. 165/2001 nonché dalle disposizioni speciali con le quali, anche all’esito del processo iniziato dal d.lgs. n. 29/1993, singoli aspetti del rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono stati normati in deroga alla disciplina generale dettata per l’impiego privato;
in realtà la natura privatistica del rapporto che intercorre fra le RAGIONE_SOCIALE ed i collaboratori esperti linguistici è stata con chiarezza affermata dall’art. 4 del d.l. n. 120/1995, nella parte in cui consente alle RAGIONE_SOCIALE medesime di «assumere, compatibilmente con le risorse disponibili nei propri bilanci, collaboratori ed esperti linguistici di lingua madre, in
possesso di laurea o titolo universitario straniero adeguato alle funzioni da svolgere, e di idonea qualificazione e competenza, con contratto di lavoro subordinato di diritto privato a tempo indeterminato ovvero, per esigenze temporanee, a tempo determinato»;
la disposizione, che ricalca la qualificazione data al soppresso rapporto di lettorato dall’art. 28 del d.P.R. n. 382/1980 (secondo cui …. i rettori possono assumere per contratto di diritto privato, su motivata proposta della facoltà interessata, in relazione ad effettive esigenze di esercitazione RAGIONE_SOCIALE studenti che frequentano i corsi di lingue, e anche al di fuori di specifici accordi internazionali, lettori di madre lingua straniera di qualificata e riconosciuta competenza … ), è stata valorizzata dalle Sezioni Unite di questa Corte per affermare che « l’avvenuta generale contrattualizzazione dei rapporti di lavoro non comporta che, ove un determinato rapporto con la PRAGIONE_RAGIONE_SOCIALE. sia qualificato come di diritto privato da speciali disposizioni, anche quest’ultimo debba ritenersi sottoposto alla medesima disciplina, ponendosi tale soluzione – tenuto anche conto della non integrale parificazione della disciplina generale del pubblico impiego a quella dei rapporti di diritto privato – in contrasto con il principio secondo cui la legge posteriore di portata generale non deroga alla legge speciale anteriore.» (Cass. S.U. n. 8985/2010);
si tratta di un orientamento che si armonizza con quello, più generale e risalente nel tempo, alla stregua del quale il principio secondo cui va ravvisato un rapporto di impiego pubblico ogniqualvolta il rapporto medesimo, non occasionale, si instauri con un ente pubblico non economico e comporti lo stabile inserimento del dipendente nell’organizzazione del primo, per il perseguimento di finalità attribuite al medesimo dalla legge, è derogato qualora sia il legislatore a qualificare espressamente quel rapporto di
diritto privato ( cfr. fra le tante Cass. S.U. n. 18622/2008; Cass. S.U. n. 10939/2007; Cass. S.U. n. 14847/2006 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione);
a questo orientamento si è costantemente attenuta la giurisprudenza della Sezione Lavoro che, nel risolvere le numerose questioni interpretative inerenti alla disciplina del rapporto che intercorre fra le RAGIONE_SOCIALE e i collaboratori esperti linguistici, h a escluso l’applicabilità a questi ultimi delle disposizioni dettate dal d.lgs. n. 165/2001 (il divieto di conversione, ad esempio, non è stato affermato in applicazione dell ‘art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, bensì desumendolo dalla normativa speciale dettata ai fini della valida instaurazione del rapporto -cfr. fra le tante Cass. n. 30909/2021 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione) e, allorquando ha rimarcato la diversità su singoli aspetti rispetto alla disciplina generale del lavoro alle dipendenze di privati, lo ha fatto sempre valorizzando la normativa speciale che, pur qualificando il rapporto di diritto privato, inserisce elementi di diversificazione rispetto a quest’ultimo e fra questi, ad esempio, l’estensione, operata attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva di diritto pubblico del comparto università, dei medesimi principi che nell’impiego pubblico contrattualizzato regolano la determinazione e la quantificazione del trattamento retributivo;
il rapporto disciplinato dal d.l. n. 120/1995 e dalle disposizioni di legge successive delle quali si dirà in prosieguo, è dunque un rapporto di natura privatistica, con la conseguenza che, in difetto di una specifica disposizione derogatoria, è alle norme che disciplinano il rapporto di diritto privato che occorre fare riferimento, non a quelle dettate dal d.lgs. n. 165/2001 e, in genere, dalle disposizioni che
presuppongono l’instaurazione di un rapporto di impiego pubblico;
ne discende che non è applicabile nella fattispecie il d.P.R. n. 1032/1973, del quale è denunciata la violazione, giacché, in ragione della natura privatistica del rapporto, i collaboratori esperti linguistici non possono essere ricompresi nelle categorie indicate dall’art. 1 del d.P.R. citato;
è infondato anche il terzo motivo del ricorso principale; non sussiste l’asserita contraddittorietà della motivazione perché la prescrizione del credito contributivo attiene al rapporto che si instaura fra il datore di lavoro e l’ente previdenziale e non va confusa con la prescrizione dei crediti di natura retributiva che il prestatore vanta nei confronti del datore;
6.1. l’omissione rilevante ex art. 13 della legge n. 1338/1962 non è solo quella che si sostanzia nell’omesso versamento integrale della contribuzione, perché la norma, il cui tenore letterale non si presta alla lettura restrittiva sollecitata dalla ricorrente principale, ha la finalità di apprestare una speciale tutela a favore del lavoratore (che in conseguenza del mancato o insufficiente versamento contributivo si troverebbe a percepire un trattamento pensionistico inferiore a quello al quale avrebbe avuto diritto) per ogni caso di inadempimento contributivo da parte del datore, attraverso la realizzazione del «medesimo effetto dell’ormai non più possibile adempimento dell’obbligo contributivo» ( cfr. Cass. S.u. n. 3678/2009 alla cui motivazione si rinvia);
6.2. il motivo è parimenti infondato anche lì dove sostiene che il dies a quo per la prescrizione dei maggiori contributi dovuti, andrebbe individuato, in caso di accertamento giudiziale del diritto del lavoratore a percepire una retribuzione superiore a quella corrisposta (incidente sulla
base di calcolo dell’obbligo contributivo), nella data della pronuncia giudiziale che quel diritto ha riconosciuto;
si tratta di un’affermazione che contrasta con l’orientamento consolidato espresso da questa Corte secondo cui la prescrizione dei contributi previdenziali inizia a decorrere dallo spirare del termine fissato dall’ordinamento per il pagamento della contribuzione, a sua volta collegato a quello della maturazione del diritto alla retribuzione, e non dalla data, successiva, della sentenza che accerta la sussistenza del rapporto di lavoro (in tal senso fra le più recenti Cass. n.8921/2023) o dell’obbligo retrib utivo del datore (cfr. Cass. n. 23071/2021 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione);
ciò perché l ‘inadempimento sorge al momento del mancato pagamento RAGIONE_SOCIALE importi dovuti e l’intervento del giudice che lo accerta, condannando il datore ad effettuare la prestazione non correttamente adempiuta, non è idoneo a differire il termine a partire dal quale l’ obbligazione contributiva, connessa a quella retributiva, deve essere adempiuta;
infine dalle considerazioni espresse nel punto che precede discende anche che nella fattispecie l’RAGIONE_SOCIALE non può invocare lo ius superveniens rappresentato dall’art. 10 bis dell’art. 3 della legge n. 335/1995, introdotto dall’art. 19 del d.l. n. 4/2019 e, poi, più volte modificato, perché la norma (del seguente tenore testuale: Per le gestioni previdenziali esclusive e per i fondi per i trattamenti di previdenza, i trattamenti di fine rapporto e i trattamenti di fine servizio amministrati dall’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE cui sono iscritti i lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, i termini di prescrizione di cui ai commi 9 e 10, riferiti agli obblighi relativi alle contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria afferenti ai periodi di competenza fino al 31 dicembre 2019, non si
applicano fino al 31 dicembre 2024, fatti salvi gli effetti di provvedimenti giurisdizionali passati in giudicato nonché il diritto all’integrale trattamento pensionistico del lavoratore) non si riferisce a qualsivoglia obbligo contributivo gravante sulle pubbliche amministrazioni indicate nell’art. 1 del d.lgs. n. 165/2001 ma solo a quello « per le gestioni previdenziali esclusive e per i fondi per i trattamenti di previdenza, i trattamenti di fine rapporto e i trattamenti di fine servizio amministrati dall ‘RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE » e, quindi, richiede che la contribuzione non versata si riferisca a rapporti di impiego pubblico, fra i quali non rientra quello, di natura privatistica, che si instaura con i collaboratori esperti linguistici;
il ricorso principale proposto dall’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE va, di conseguenza rigettato;
parimenti infondato è il primo motivo del ricorso incidentale, perché correttamente la Corte territoriale ha applicato il d.l. n. 2/2004 con le modalità indicate dalla legge di interpretazione autentica contenuta nell’art. 26, comma 3, della legge n. 230/2010 e nel rispetto dell’orientamento consolidato espresso da questa Corte secondo cui l’applicazione del parametro fissato dal citato d.l. non comporta il definitivo ‘aggancio’ alla retribuzione piena prevista per i ricercatori confermati a tempo definitivo, in relazione agli sviluppi contrattuali successivi alla stipula del contratto di collaborazione linguistica (cfr. Cass. n. 20483/2023; Cass. n. 13886/2023; Cass. n. 16462/2022; Cass. n. 20765/2018)
7.1. il legislatore, infatti, ha chiarito la questione, obiettivamente incerta, del rapporto fra la previsione contenuta nel d.l. n. 2/2004 e la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, a ciò autorizzata dal d.l. n. 120/1995, precisando che a far tempo dalla sottoscrizione del contratto di collaborazione linguistica l’eventuale trattamento
più favorevole viene conservato a titolo individuale nella misura corrispondente alla differenza fra quanto percepito a detta data come lettore di madrelingua straniera, ai sensi del richiamato d.l. n. 2/2004, e la retribuzione dovuta al collaboratore linguistico sulla base della contrattazione collettiva nazionale e decentrata;
7.2. in tal modo il legislatore, da un lato, ha impedito che il passaggio dal lettorato alla collaborazione linguistica potesse risolversi in una reformatio in peius del livello retributivo raggiunto, dall’altro ha ribadito la specificità propria del collaboratore linguistico, non equiparabile al docente, specificità che giustifica la differenziazione retributiva rispetto a quest’ultimo ed il conferimento del potere a lle parti collettive di individuare la retribuzione proporzionata alla qualità e quantità della prestazione, a prescindere dal raffronto con il trattamento economico riservato al personale docente;
7.3. si tratta, sostanzialmente, di un assegno ad personam, non dissimile da quello garantito nell’impiego pubblico contrattualizzato in caso di mobilità o di modificazioni del rapporto di impiego e da quello che le parti collettive avevano previsto con l’art. 51 del CCNL 21.5.1996 per consentire ai collaboratori esperti linguistici assunti prima della stipula dello stesso contratto di conservare il trattamento più favorevole concordato a livello di Ateneo;
7.4. d’altro canto non si ravvisa alcuna violazione dei principi fissati dalla Corte di Giustizia perché, come hanno chiarito le Sezioni Unite con la sentenza n. 21972/2017, la garanzia della conservazione dei diritti maturati nella precedente fase del rapporto va limitata « a tutti quegli istituti contrattuali che valorizzano l’anzianità di servizio e quindi, in sostanza, la classe di stipendio di riferimento, gli scatti biennali contrattualmente previsti, i parametri di calcolo del
trattamento di fine rapporto (T.F.R.) e con riferimento ai profili concernenti la contribuzione previdenziale.»;
7.5. la nozione di diritto quesito accolta dalle Sezioni Unite coincide con quella indicata dalla Corte di Lussemburgo, che con la sentenza 26.7.2001, in causa C -212/99, ha precisato che «se i lavoratori beneficiano in forza della legge n. 230 della ricostruzione della loro carriera per quanto riguarda aumenti salariali, anzianità e versamento da parte del datore di lavoro dei contributi previdenziali fin dalla data della loro prima assunzione, gli ex lettori di lingua straniera, divenuti collaboratori linguistici, devono altresì beneficiare di una ricostruzione analoga con effetti a decorrere dalla data della loro prima assunzione» ( punto 30);
7.6. d’altro canto garantendo la ricostruzione della carriera nei termini che risultano dal combinato disposto del d.l. n. 2/2004 e della legge n. 240/2010 non è stato in alcun modo violato il principio di non discriminazione ed anzi, al contrario, il rispetto del divieto di reformatio in peius è stato garantito con le stesse modalità attraverso le quali è assicurato, tanto nell’impiego pubblico quanto in quello privato, in ogni ipotesi in cui si discuta di modificazioni oggettive e soggettive del rapporto che implichino la conservazione del trattamento economico acquisito;
7.7. ne discende che non si può dare seguito alla sollecitazione contenuta a pag. 26 del ricorso incidentale atteso che «il giudice nazionale di ultima istanza non è soggetto all’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia la questione di interpretazione di una norma comunitaria quando non la ritenga rilevante ai fini della decisione o quando ritenga di essere in presenza di un acte claire che, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile (o non obbligato) il rinvio pregiudiziale» ( Cass. n. 14828/2018;
negli stessi termini fra le più recenti Cass. n. 9174/2024 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione);
7.8. nel caso di specie la Corte di Giustizia nelle decisioni richiamate in premessa ha sempre precisato che in virtù del principio di non discriminazione ai lettori di lingua straniera, divenuti collaboratori linguistici, deve essere assicurato il medesimo trattamento riservato, in situazioni analoghe, ai lavoratori di cittadinanza italiana ed ha anche aggiunto che la Repubblica italiana non era stata obbligata «a identificare una categoria di lavoratori analoga agli ex lettori e ad equiparare completamente il trattamento riservato a questi ultimi a quello di cui beneficia la detta categoria» ( punto 37 della sentenza 18.6.2006);
7.9. né questo orientamento può essere rimeditato valorizzando l’art. 11 della legge n. 167 del 2017 (più volte modificato) con il quale il legislatore non ha abrogato né il d.l. n. 2/2004 né la legge di interpretazione autentica, ma ha solo previsto uno stanziamento straordinario di fondi messo a disposizione delle RAGIONE_SOCIALE per risolvere il contenzioso sorto con gli ex lettori;
sull’incidenza della normativa sopravvenuta questa Corte ha già pronunciato escludendo che la contrattazione integrativa ancora in fieri possa essere apprezzata ai fini della definizione del contenzioso già pendente, in relazione al quale la pronuncia non può che tener conto delle disposizioni normative e contrattuali vigenti che riconoscono il diritto soggettivo alla ricostruzione della carriera nei limiti sopra indicati (cfr. Cass. 20483/2023);
il motivo, pertanto, deve essere rigettato;
8. merita, invece, accoglimento il secondo motivo del ricorso incidentale, proposto nell’interesse della sola NOME COGNOME, con il quale è censurato il capo della decisione che ha escluso il diritto alle differenze retributive per il periodo
successivo al 15 ottobre 1999, valorizzando, a tal fine, la decadenza da ll’incarico «con effetto retroattivo legittimamente comminata dall’RAGIONE_SOCIALE per il cumulo di impieghi da questa posto in essere» (così la motivazione della sentenza gravata);
si è già detto che il rapporto di lavoro che si instaura fra l’RAGIONE_SOCIALE ed il collaboratore linguistico è un rapporto di diritto privato e, in quanto tale, seppure intercorrente con un’amministrazione pubblica, è sottratto all’applicazione del d.lgs. n. 165/2001, sicché non può operare la disciplina dettata dall’art. 53 del richiamato decreto che, mediante il rinvio, contenuto nel comma 1, agli artt. 60 e seguenti del d.P.R. n. 3 del 1957, consente di dichiarare la decadenza dal rapporto di impiego pubblico in caso di violazione dell’obbligo di esclusività (sul presupposto che quell’obbligo attenga ad un requisito essenziale che il dipendente pubblico deve possedere al momento dell’instaurazione del rapporto e conservare anche successivamente);
in tal senso questa Corte si è già pronunciata (cfr. Cass. n. 4921/2016) escludendo che la disciplina delle incompatibilità dettata per l’impiego pubblico contrattualizzato possa essere estesa ai collaboratori esperti linguistici (in quel caso veniva specificamente in rilievo la normativa, anch’essa richiamata dall’ art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, di cui alla legge n. 662/1996), e detta conclusione trova conferma nell’art. 51 del CCNL 21.5.1996, nella parte in cui non richiama l’obbligo di esclusività nei termini imposti al dipendente pubblico bensì consente, sia pure previa comunicazione all’amministrazione (è significativo che le parti collettive abbiano richiesto la mera comunicazione, non l’autorizzazione necessaria ex art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 ), «l’esercizio di altre prestazioni di lavoro che non arrechino pregiudizio alle esigenze di servizio e non
siano incompatibili con le attività istituzionali dell’amministrazione stessa»;
la disciplina contrattuale, pertanto, non impone l’obbligo di esclusività e, quanto ai limiti posti all’esercizio di altra attività lavorativa alle dipendenze di terzi (vietata in assoluto dall’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 che, attraverso il richiamo al d.P.R. n. 3/1957, distingue fra attività vietate ed attività consentite previa autorizzazione), nella sostanza applica quelli che nell’ambito del rapporto di diritto privato , seppure non soggetto al principio di esclusività, discendono comunque dal rispetto RAGIONE_SOCIALE obblighi imposti al prestatore dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ. (nessuno dubita, infatti, che al lavoratore privato, sebbene non tenuto all’esclusività, siano inibite attività che incidano sul corretto adempimento della prestazione o ledano gli interessi del datore);
8.1. alle considerazioni che precedono, inoltre, si deve aggiungere che, in ogni caso, alla prestazione di fatto resa in favore del datore di lavoro si applica, quanto alla tutela retributiva, l’art. 2126 cod. civ. , norma, questa, che impone di riconoscere al prestatore la retribuzione, proporzionata alla qualità e quantità della prestazione resa, per il periodo in cui il contratto ha avuto esecuzione, salve le ipotesi, non ricorrenti nella fattispecie, di illiceità dell’oggetto o della causa;
ne discende che non poteva essere negata l’applicazione del d.l. n. 2/2004, come interpretato dall’art. 26 comma 3 della legge n. 240/2010, poiché la norma, finalizzata a garantire il rispetto RAGIONE_SOCIALE obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell’Unione, è quella che indica quale sia la ‘giusta retribuzione’ spettante all’ex lettore divenuto collaboratore esperto linguistico, retribuzione che il citato art. 2126 cod. civ. riconosce anche nelle ipotesi di nullità contrattuali;
9. in via conclusiva deve essere accolto il solo secondo motivo del ricorso incidentale e, pertanto, la sentenza impugnata deve essere cassata, limitatamente alla posizione di NOME COGNOME, con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che provvederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato nel punto che precede ( 8 e 8.1.) e provvedendo anche al regolamento, quanto alla posizione in questione, delle spese del giudizio di cassazione; 9.1. vanno, invece, rigettati il ricorso principale dell’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE ed il motivo di ricorso incidentale formulato dalla COGNOME, con compensazione integrale fra le parti delle spese del presente giudizio, in ragione della soccombenza reciproca;
non occorre provvedere al regolamento delle spese, quanto al rapporto processuale con l’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE, perché l’istituto non ha svolto attività difensiva;
9.2. in relazione al ricorso incidentale, accolto sia pure parzialmente, non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 ai fini del raddoppio del contributo unificato;
dette condizioni ricorrono, invece, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, quanto al ricorso principale, perché l’esenzione prevista in via generale dal richiamato d.P.R. opera per le Amministrazioni dello Stato e non per gli enti pubblici autonomi, seppure autorizzati ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato .
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale della RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE e rigetta il ricorso principale dell’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE.
Accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale e rigetta il primo motivo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso ed al motivo accolto e rinvia, limitatamente alla posizione di NOME COGNOME, alla Corte d’Appello di RAGIONE_SOCIALE, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche al regolamento delle spese del giudizio di cassazione. Compensa integralmente fra le parti le spese del giudizio di cassazione quanto alla posizione di NOME COGNOME.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dell’RAGIONE_RAGIONE_SOCIALE , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 7 marzo 2024