Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 1121 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 1121 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 16/01/2025
sul ricorso 1143/2021 proposto da:
COGNOME rappresentati e difesi da ll’avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO di BRESCIA n. 1062/2020 depositata il 13/10/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/12/2024 dal Cons. Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. NOME COGNOME e NOME COGNOME si dolgono delle statuizioni adottate in loro danno dalla Corte di appello di Brescia che, con la sentenza riportata in esergo, ne ha respinto il gravame avverso il rigetto in prima istanza della domanda risarcitoria da loro proposta nei confronti della A2A s.p.a., dal cui consiglio di sorveglianza avevano cessato anzitempo di far parte per effetto della revoca senza giusta causa di sei componenti dello stesso organo, evento che aveva comportato la cessazione di tutti i consiglieri di sorveglianza, e, quindi, anche degli odierni ricorrenti, in applicazione della clausola simul stabunt simul cadent presente nello statuto sociale.
La Corte di appello si è indotta a rinnovare la pronuncia di sfavore sul presupposto che gli appellanti non avevano dato prova dell’uso strumentale della clausola statutaria in loro danno e che, anzi, stando alle loro stesse allegazioni -secondo cui la revoca degli altri consiglieri era stata disposta per ragioni politiche estranee alle loro persone -era da escludersi che la loro estromissione rientrasse tra gli obiettivi perseguiti dall’assemblea della società da realizzare mediante l’uso non in buona fede della clausola in questione al fine di liberarsi da ogni pretesa risarcitoria.
Della predetta sentenza i COGNOME reclamano ora la cassazione sulla base di due motivi di ricorso, seguiti da memoria, e resistiti avversariamente da controricorso e memoria.
Il Procuratore Generale ha depositato le proprie requisitorie scritte all’esito delle quali ha chiesto che il ricorso sia rigettato.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va previamente sgombrato il campo dalla quaestio nullitatis che i ricorrenti hanno voluto sollevare in memoria riguardo alla clausola simul stabunt, simul cadent .
Sebbene la rilevabilità officiosa della questione non renda opponibile che con la memoria ex art. 380bis1 cod. proc. civ. non si possono introdurre nel giudizio questioni nuove e diverse da quelle che hanno ritualmente formato oggetto di esposizione nel ricorso, va in ogni caso osservato, in senso comunque ostativo alla sua trattabilità, che -come d’altronde già si è detto altrove, riprendendo, in relazione ad un caso in cui, come qui, non essendone stata fatta questione in appello, se ne era eccepita la rilevabilità ufficiosa in cassazione, un principio più volte già espresso da questa Corte (Cass., Sez. II, 9/08/2019, n. 21243; Cass., Sez. IV, 17/02/2003, n. 2354; Cass., Sez. III, 7/12/2000. n. 15530) -che tale nullità non può essere accertata sulla base di una “nuda” eccezione, sollevata per la prima volta con il ricorso per cassazione, basata su contestazioni in fatto mai in precedenza effettuate, poiché di una siffatta evenienza l’intimatosarebbe costretto a subire il vulnus delle maturate preclusioni processuali ( ex plurimis, in motivazione, Cass., Sez. I, 14/07/ 2023, n. 20387) , con intuibile pregiudizio al proprio diritto di difesa. Parimenti, anche per il giudizio di appello va detto, sul filo di un corrispondente insegnamento (ancora, così in motivazione, ex plurimis, Cass., Sez. I, 14/07/ 2023, n. 20387), che, onde censurare, come qui si chiede, la sentenza pronunciata all’esito dello stesso per non aver rilevato la nullità ora eccepita, la parte che se ne dolga è tenuta ad assolvere un onere di autosufficienza occorrendo, infatti, che essa indichi gli elementi in base ai quali possa ritenersi che la questione sia stata sottoposta al giudizio del decidente di merito, diversamente dovendosene rilevare, come qui si rileva,
l’inammissibilità atteso che il giudizio di cassazione può avere ad oggetto, come è noto, solo questioni che abbiano già costituito oggetto di vaglio nei precedenti gradi di merito.
Tanto premesso, il primo motivo di ricorso -con cui si lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2386, comma 3, e 2409duodecies , comma 5, cod. civ., nonché ancora dell’art. 1375 cod. civ. e dell’art. 3 Cost. perché la Corte di Appello, ponendo l’accento sul fatto che gli appellanti in dipendenza della clausola che ne aveva comportato l’anticipata cessazione dalla carica non erano stati revocati, avrebbe scambiato la causa per l’effetto, posto che non erano gli appellanti ad essere decaduti, ma l’organo nel suo complesso, ed avrebbe di conseguenza negato il fondato diritto risarcitorio dei medesimi, quantunque in applicazione della clausola fosse intervenuta anche la loro revoca implicita -; ed il secondo motivo di ricorso -con cui si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2409duodecies , comma 5, cod. civ. perché la Corte di appello, negando il diritto risarcitorio degli appellanti, sarebbe incorsa in un palese fraintendimento logico del vizio lamentato inteso segnatamente non ad indagare il motivo della revoca di sei componenti del consiglio, ma a rappresentare il diverso trattamento tra i consiglieri revocati, che sarebbero stati risarciti non sussistendo una giusta causa di revoca, e gli appellanti cessati parimenti dalla carica per effetto della clausola in questione -esaminabili congiuntamente per l’unitarietà della censura, sono entrambi infondati e vanno pertanto disattesi.
La tesi ricorrente non coglie, infatti, nel segno poiché laddove idealizza un’inesistente liason dangereuse tra clausola di decadenza e revoca dalla carica è frutto di un’indebita sovrapposizione di piani di giudizio diversamente non comunicanti.
In realtà, come bene ha spiegato la stessa sentenza in disamina, l’implicito effetto revocatorio -che si vorrebbe vedere nel fatto che, revocati alcuni amministratori in assenza di giusta causa, anche gli altri che, per effetto della clausola simul stabunt, simul cadent , vengono a cessare dalla carica, verrebbero ad essere oggetto di una revoca ingiustificata -non è elemento qualificante della fattispecie, dato che essa -lo ricorda anche il Procuratore Generale -trova la sua giustificazione nella necessità di garantire gli equilibri all’interno del consiglio di amministrazione della società e di evitare che l’equilibrio iniziale possa essere compromesso per effetto del meccanismo di cooptazione pure previsto dall’art. 2386 cod. civ. In questa cornice, scrive ancora condivisibilmente la Corte bresciana, identificando esattamente la fisionomia dell’istituto e ponendone in chiaro l’autonomia concettuale, «la clausola de qua , se applicata senza fini abusivi, non equivale ad una revoca dall’incarico e non fa sorgere alcun diritto a favore dell’amministratore decaduto il quale, accettando l’iniziale conferimento dell’incarico, aderisce implicitamente alle clausole dello statuto sociale che regolano le condizioni di indicazione e permanenza degli organi sociali e i relativi poteri, adesione che implica anche l’accettazione dell’eventualità di una cessazione anticipata dalla carica senza risarcimento del danno nel caso di applicazione della clausola statutaria». E solo, infatti, l’abuso che si faccia del relativo meccanismo a rendere illecita la disposizione di revoca, ma di ciò, come ancora ha sottolineato il decidente, occorre dare la prova, e nella specie non solo non era stata data alcuna prova in questo senso, ma era stata data la prova, addirittura, del contrario.
Non è dunque a parlarsi di revoca implicita in ragione della cui ingiustizia si possa poi reclamare un qualsivoglia ristoro.
Il ricorso va, dunque, respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ove dovuto sussistono i presupposti per il raddoppio a carico dei ricorrenti del contributo unificato ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in favore di parte resistente in euro 5700,00, di cui euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi del dell’art. 13, comma 1quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, ove dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della I sezione civile il