Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14048 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 14048 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 1681-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 714/2022 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 08/11/2022 R.G.N. 13/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/03/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Fatti di causa
Oggetto
R.G.N. 1681/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 26/03/2025
CC
La Corte d’appello di Firenze, con la sentenza in atti, ha respinto l’appello proposto da NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza del tribunale di Firenze che aveva respinto la domanda con la quale la società aveva chiesto la condanna di NOME COGNOME al pagamento della somma di € 3 .000,00 a titolo di penale dovuta per l’inadempimento del contratto di collaborazione lavorativa a tempo indeterminato stipulato dalle parti in data 3/3/2020, condannando la società a rimborsare a NOME le spese processuali.
La Corte ha confermato che il rapporto di lavoro in oggetto si qualificava come di agenzia, in conformità a quanto ritenuto dal primo giudice, con decisione non impugnata, e comunque anche da entrambe le parti. Il recesso di NOME COGNOME dopo due giorni dalla stipula del contratto in data 5/3/2020 senza prestare alcuna attività lavorativa non poteva dar luogo ad alcuna penale, dovendosi applicare l’articolo 1750 c.c. in materia di recesso dal contratto di agenzia. Pertanto, la penale in questione prevista nel contratto individuale solo a carico dell’agente e non della proponente, per l’entità e la durata (euro 100 al giorno per 30 giorni), si configurava in termini di eccessiva onerosità perché rendeva gravoso l’esercizio del diritto di recesso dell’agente e violava la regola della parità delle parti in materia di recesso, con la conseguenza che si trattava di una clausola nulla per frode alla legge, ai sensi dell’art. 1344 c.c., posto che comportava l’elusione della regola di parità insita nell’art. 1750 c.c. In ogni caso i motivi di gravame andavano respinti perché il tribunale non aveva affatto ritenuto che l’esercizio del diritto di recesso fosse subordinato al pagamento della penale, ma aveva ritenuto che la previsione contrattuale fosse nulla, perché in frode alla legge; argomentazioni che l’appellante non aveva minimamente contrastato nell’atto d’appello.
In secondo luogo, secondo la Corte, una volta dichiarata la nullità della clausola penale sarebbe stato onere della società proponente, dedurre e dimostrare l’esistenza dei danni derivanti dall’inadempimento del collaboratore per non aver prestato attività lavorativa nei 30 giorni del periodo di preavviso. Ciò che comportava anche il rigetto della domanda proposta in via di denegata ipotesi dalla parte appellante.
Avverso la sentenza ha proposto per cassazione NOME RAGIONE_SOCIALE con due motivi di ricorso e quali ha resistito NOME COGNOME con controricorso. Il collegio ha autorizzato il deposito della motivazione nel termine di 60 giorni stabilito dalla legge.
Ragioni della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso si deduce ex art. 360 n. 3 c.p.c. la violazione o falsa applicazione dell’art. 1750 c.c. per avere la Corte di appello ritenuto nulla ai sensi dell’art. 1344 c.c. la clausola ex art. 10 comma C3 del contratto di agenzia intervenuto fra le parti, posto che il contratto prevedeva un eguale termine di preavviso a carico delle parti in caso di scioglimento unilaterale del contratto e non prevedeva a carico di nessuna di esse una penale legata al solo esercizio del diritto di recesso anticipato, anche in presenza di una giusta causa (alla cui ricorrenza, anzi l’applicabilità della penale era espressamente esclusa). Sicché entrambe avevano l’obbligo di rispettarne il sinallgma: la penale prevista dal comma C3 del medesimo articolo non si aggiungeva all’indennità di mancato preavviso ma andava a sostituirla predeterminando ex art.1382 c.c., e senza riserva della risarcibilità del danno ulteriore, l’importo del ristoro dovuto dall’agente a causa del mancato adempimento della prestazione lavorativa durante tale periodo in euro 100 giornaliere.
1.2.- Il motivo è infondato e deve essere disatteso.
Se, come si ammette nel contenuto del motivo stesso, la previsione contrattuale in oggetto predeterminava solo a vantaggio del preponente il danno legato al recesso, è evidente che, come riscontrato dai giudici di merito, ai fini del recesso non può dirsi esistente la parità tra le parti; e a nulla rileva che all’agente fossero dovute le provvigioni fisse nel periodo di preavviso, come, con argomentazione del tutto nuova, si cerca di dire in ricorso allo scopo di controbilanciare la penale che è in effetti prevista nel contratto solo a carico dell’agente.
Tutto ciò non è legittimo secondo la regola di parità desumibile dall’art. 1750 c.c. il quale prevede al comma 2 che ‘se il contratto di agenzia è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto stesso dandone preavviso all’altra entro un termine stabilito’ dalla legge; e al comma 4 stabilisce che ‘le parti possono concordare termini di preavviso di maggiore durata, ma il preponente non può osservare un termine inferiore a quello posto a carico dell’agente’.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (Cass. 24274 del 14/11/2006) ‘in tema di contratto di agenzia, l’art. 1750, comma quarto, cod. civ., nel porre la regola inderogabile secondo cui i termini di preavviso devono essere gli stessi per le due parti del rapporto, esprime un precetto materiale che vieta pattuizioni che alterino la parità delle parti in materia di recesso, con la conseguenza che è nullo per frode a detto precetto (art. 1344 cod. civ.) il patto che contempli, in aggiunta all’obbligo di pagare l’indennità di mancato preavviso, una clausola penale a carico del solo agente che si renda inadempiente all’obbligo di dare preavviso (conf. Cass. n. 24478 del 10/09/2021 ‘In tema di contratto di agenzia, l’art. 1750, comma 4, c.c., nel porre la regola inderogabile secondo cui i termini di preavviso devono essere gli stessi per le due
parti del rapporto, esprime un precetto materiale che vieta pattuizioni che alterino la parità delle parti in materia di recesso, con la conseguenza che è nullo per frode alla legge (art. 1344 c.c.) il patto che contempli, in aggiunta all’obbligo di pagare l’indennità di mancato preavviso, una clausola penale che, in quanto eccessivamente onerosa, incida in maniera significativa sulla normale facoltà di recedere di una delle parti, limitandola fortemente.
2. Con il secondo motivo ex art 360 n. 3 si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 2 comma e 1363 c.c., nell’interpretazione della clausola prevista dall’art. 10 comma C3 del contratto di agenzia intervenuto fra le parti, perché la Corte d’appello di Firenze, nell’affermare la nullità della clausola contrattuale, aveva commesso un’evidente violazione delle regole interpretative del contratto, essendosi fermata alla lettera dell’articolo in questione senza svolgere come dovuto un’indagine sull’intero testo negoziale e senza andare a ricercare l’effettiva volontà del contraenti, anche in base al comportamento assunto successivamente alla stipula dello stesso; in particolare in nessun articolo del contratto è previsto un diritto della preponente ad un pagamento di una indennità di preavviso aggiuntiva alla penale prevista dall’articolo 10 comma C3; la penale stessa era equiparabile alla retribuzione media dell’agente e quindi l’eventuale risarcimento del danno dovuto nell’ipotesi fosse stata la proponente a violare i termini di preavviso, andava confrontato con le provvigioni garantite dall’articolo 5; inoltre se la Corte d’appello avesse valutato il comportamento delle parti, anche successivo alla stipula del contratto, avrebbe potuto rilevare che la penale andava a sostituire l’indennità di recesso; tant’è che il ricorrente conclude il suo atto di appello chiedendo in alternativa il pagamento della prima o in mero subordine della
seconda.
La corretta interpretazione della norma negoziale avrebbe dovuto portare il giudice di secondo grado a riconoscere che la penale in questione non andava a costituire un onere ulteriore rispetto all’indennità di preavviso. Comunque spettava ad entrambe le parti e, conseguentemente, non creava per l’agente alcuna disparità di trattamento rispetto alla preponente.
2.1. Il motivo è inammissibile perché mira a ribaltare la ricostruzione della volontà delle parti operata attraverso una motivata e plausibile interpretazione dai giudici di merito con una doppia conforme pronuncia.
E’ opportuno ricordare che l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per inadeguatezza della motivazione, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. n. 14355/2016; Cass. n. 10745/2022): tali specifiche doglianze, nei termini di cui sopra delineati, non sono state, però articolate nel caso in esame.
Non risulta inoltre che siano violati criteri di ermeneutica contrattuale: anzi sul punto il ricorso è meramente assertivo. Sia perché la Corte si è attenuta ai criteri legali previsti dalla legge, sia perché nel caso in esame la ricorrente non censura realmente una errata applicazione dei criteri interpretativi negoziali previsti dalla legge, quanto piuttosto il risultato dell’attività ermeneutica in quanto tale, siccome non rispondente a quello desiderato dalla parte.
Come noto, anche l’accertamento della volontà negoziale si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014), riservato all’esclusiva
competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006); tali valutazioni del giudice di merito soggiacciono sì, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato circa la verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, ma la denuncia della violazione delle regole che presiedono all’interpretazione dei contratti non può certo risolversi nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000).
Nella specie, al cospetto dell’approdo esegetico cui è pervenuta la Corte distrettuale, la parte ricorrente, nella sostanza, si limita a rivendicare un’alternativa interpretazione più favorevole; ma per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo negoziale non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di un testo negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito -alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 e 18735 del 2006).
4.Pertanto sulla scorta delle premesse il ricorso va complessivamente rigettato. Le spese processuali seguono il regime della soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo in favore della parte controricorrente. Segue altresì il raddoppio del contributo unificato ove spettante nella ricorrenza dei relativi presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M .
La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla
rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 2000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge,. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 26.3.2025