Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32619 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 32619 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18212/2019 R.G. proposto da : COGNOME, COGNOME elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentati e difesi dagli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrenti- contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BOLOGNA n. 1738/2019 depositata il 28/05/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La controversia s’incentra su una pretesa servitù di «svuoto» (cioè passaggio) su fondo altrui. I proprietari del fondo preteso dominante, i coniugi NOME COGNOME e NOME COGNOME convennero in confessoria servitutis dinanzi al Tribunale di Reggio Emilia NOME COGNOME proprietario del fondo preteso servente. Esposero che la servitù era stata costituita nell’atto di acquisto del 1956 tra il loro dante causa e il precedente proprietario ed era stata riportata nel secondo dei due atti di acquisto (nel 1987) dai quali risulta la loro proprietà attuale (il primo era del 1986). Precisarono che la servitù era stata esercitata attraverso un cancello rimasto aperto per decenni, prima che l’esercizio ne fosse impedito nel 2011, in concomitanza con lavori di ristrutturazione sul fondo servente.
La domanda di confessoria servitutis venne rigettata dal Tribunale, sul rilievo che non era sufficiente una clausola di stile come quella contenuta nei contratti traslativi in questione, poiché è indispensabile la manifestazione specifica della volontà del proprietario del fondo servente di costituire la servitù e la determinazione specifica nel titolo di tutti gli elementi atti a individuarla. In ogni caso, la servitù si sarebbe comunque estinta per prescrizione, a causa del mancato esercizio ventennale dal 1987 sino al 2007.
L’appello della parte attrice è stato rigettato dalla Corte territoriale di Bologna con la sentenza n. 1738/2019, rilevandosi che dai titoli non emergeva la costituzione della servitù, non potendosi ritenere sufficiente l’esistenza di una mera clausola di stile.
Ricorrono in Cassazione gli originari attori con tre motivi. Resiste il convenuto con controricorso.
Il consigliere delegato ha proposto di definire il ricorso per inammissibilità o manifesta infondatezza. Il ricorrente ne chiede la decisione. Sono pervenute memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Del collegio fa parte il Consigliere NOME COGNOME che ha redatto la proposta di definizione. Infatti, secondo Cass. SU 9611/2024: «Nel procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati ex art. 380bis c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022), il presidente della sezione o il consigliere delegato che ha formulato la proposta di definizione può far parte – ed eventualmente essere nominato relatore – del collegio investito della definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., non versando in situazione di incompatibilità agli effetti degli artt. 51, comma 1, n. 4, e 52 c.p.c., atteso che tale proposta non rivela una funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente si configura quale fase distinta, che si sussegue nel medesimo giudizio di cassazione con carattere di autonomia e con contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta stessa».
2. – Il primo motivo di ricorso (p. 23) verte essenzialmente sull’interpretazione della clausola contrattuale relativa al diritto di servitù e allega che l’assunto della Corte di appello, secondo cui la domanda degli attori non era fondata su titoli idonei, trova smentita nelle risultanze della c.t.u., nonostante che la Corte le utilizzi a supporto dell’opinione contraria. Si contesta ex art. 1362 c.c. l’interpretazione della clausola contrattuale. Una corretta applicazione dei criteri ermeneutici avrebbe consentito di attribuire all’espressione «svuoto» il significato corretto, che la Corte territoriale ha erroneamente negato. La stessa situazione oggettiva dello stato dei luoghi conferma la volontà delle parti. Si deduce violazione degli artt. 1058, 1064, co. 1 e 1065 c.c., nonché dell’art. 1362 c.c.
Il motivo è infondato.
Il ricorrente contrappone alla valutazione del giudice di merito una differente ed alternativa lettura del dato negoziale, senza tuttavia considerare il principio di diritto secondo cui la parte che, con il
ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (così, tra le altre, Cass. 28319/2017).
Nel caso di specie, la clausola contrattuale controversa (così come inserita nell’atto del 1956) dispone: « il compratore ha diritto come s’è detto allo svuoto sulla INDIRIZZO attraverso un passaggio costituito da un cancello carraio ed uno pedonale ed il venditore si obbliga ad arretrare l’attuale cancello sulla INDIRIZZO dei predetti ml 6,50 necessari allo svuoto precisato che, in tal modo, si svilupperà attraverso un passaggio comune della profondità dianzi prevista ». La Corte di appello ha ritenuto che: tale clausola non può essere interpretata come costitutiva di un diritto di passaggio, poiché la parola «svuoto» non è sinonimo di passaggio; nella clausola non è indicato precisamente né il fondo servente, né quello dominante, dunque il diritto era stato costituto in favore della persona dell’acquirente, e non del fondo in quanto tale; ad abundantiam , non è stata conseguita la prova dell’esercizio del diritto di passaggio per un tempo utile ai fini della sua usucapione.
Indubbiamente (a prescindere dall’obiter dictum di carattere terminologico), il tenore della clausola appare congruente con la tesi, accolta dalla Corte di appello, che si tratti di una disposizione in
favore dell’acquirente e non di una servitù, senza che si possa rimproverare alla Corte, come fa invece la parte ricorrente, di aver così accolto un’eccezione di merito sollevata tardivamente dalla controparte: si tratta, infatti, di una mera difesa come tale non soggetta a preclusioni istruttorie.
2. – Il secondo motivo, p. 29, denuncia omesso esame di fatti decisivi ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c. nonché travisamento, contraddittorietà motivazionale, falso supposto, con particolare riferimento alle interpretazione delle risultanze della c.t.u. Nella parte censurata della sentenza, la Corte di appello ha affermato che la perizia, svolta nel rispetto del contraddittorio e con verifica attenta dei titoli, ha chiarito che le premesse della domanda erano infondate. Si censura che la Corte di appello non ha tenuto in considerazione le osservazioni critiche della parte ricorrente, che aveva eccepito come il Tribunale avesse ignorato le conclusioni del c.t.u. Sono state attribuite a quest’ultimo affermazioni contrarie a quelle realmente espresse nella perizia, travisando le sue conclusioni. La Corte, inoltre, ha erroneamente affermato che non sussistono elementi descrittivi del contenuto del diritto di servitù, ignorando quanto emerge dai rogiti di compravendita.
Il secondo motivo è inammissibile.
Ci troviamo infatti dinanzi ad una doppia pronuncia conforme in primo e secondo grado. In tale ipotesi, ai sensi dell’art. 348-ter, co. 5 c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, co. 2 d.l. 83/2012, conv. in l. 134/2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), la parte ricorrente in cassazione, per evitare che il motivo ex art. 360, n. 5 c.p.c. sia dichiarato inammissibile (cfr. art. 348-ter, co. 5 c.p.c., nel suo richiamo al comma precedente), deve indicare nel ricorso le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse, nonostante che il
dispositivo della sentenza di secondo grado sia di rigetto dell’appello e di conferma della sentenza di primo grado sul capo investito dal motivo di ricorso (cfr. Cass. 7724/2022). Nel caso di specie si è tentato tardivamente di adempiere a tale onere in memoria (sulla funzione della memoria e sulla sua inidoneità a rimediare a profili di inammissibilità del ricorso, cfr. Cass. 8949/2023).
Si aggiunga che il vizio di contraddittorietà della motivazione è ormai estraneo al paradigma del vizio denunciabile in sede di legittimità, per effetto della novella del 2012. Nel caso di specie, inoltre, la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, non è manifestamente illogica, è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale, dando atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. SU 8053/2014).
3. – Il terzo motivo, p. 32, denuncia che la Corte ha erroneamente imputato agli attori in confessoria l’onere di provare l’utilizzo della servitù, invertendo così l’onere della prova. Infatti, ex art. 1073 c.c., il mancato esercizio ventennale è fatto estintivo e costituisce un’eccezione in senso proprio, per cui l’onere della prova ricade sul convenuto. Tale prova non è stata fornita, e anzi è emerso il contrario. Si deduce violazione degli artt. 1073 c.c., nonché «falso supposto, illogicità, contraddittorietà».
Nella parte censurata della sentenza, la Corte di appello ha sostenuto che, anche ammesso che la servitù fosse stata contrattualmente prevista, non è stata esercitata negli anni e che gli appellanti non hanno fornito prove contrarie fino al 2010. Tuttavia, il Tribunale ha accertato che il cancello su INDIRIZZO è rimasto aperto per cinquanta anni e che le chiavi del lucchetto, apposte solo successivamente, sono state consegnate al ricorrente.
Questo motivo è inammissibile.
Esso attinge un capo della sentenza scritto ad abundantiam. Pertanto, l’infondatezza della censura sulla prima ratio decidendi
(mancata previsione della servitù di passaggio) rende inammissibile per difetto di interesse la censura sulla seconda ratio (cfr. Cass. n. 5102/2024 e 11493/2018). (In ogni caso, la Corte non ha invertito l’onere della prova del mancato esercizio, bensì ha solamente affermato che non ci sono prove contrarie rispetto alla raggiunta prova del mancato esercizio).
4. -In conclusione, il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo, anche ai sensi dell’art. 96 co. 3 e 4 c.p.c (essendo la decisione conforme alla proposta: cfr. art. 380 bis cpc).
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo uni ficato a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in € 4.000,00 oltre a € 200 ,00 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge. Inoltre, condanna la parte ricorrente al pagamento ex art. 96 co. 3 c.p.c. di € 4.000,00 in favore della parte controricorrente, nonché al pagamento ex art. 96 co. 4 c.p.c. di € 3.000 ,00 in favore della cassa delle ammende.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 23/10/2024.