Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 360 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 360 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 08/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso 34186-2019 proposto da:
COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO nello studio dell’avv. NOME COGNOME che lo rappresenta e difende
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1936/2019 della CORTE DI APPELLO di BARI, depositata il 16/09/2019;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 27.1.2009 COGNOME COGNOME evocava in giudizio COGNOME Giuseppe innanzi il Tribunale di Bari, sezione distaccata di Rutigliano, invocando la risoluzione di un contratto preliminare di compravendita per mancato saldo del prezzo da parte del promissario acquirente, con conseguente accertamento del suo diritto a trattenere la caparra confirmatoria ricevuta alla firma del contratto, nonché la condanna del convenuto al risarcimento del danno.
Nella resistenza del COGNOME il Tribunale, con sentenza n. 6263/2016, accoglieva la domanda di risoluzione e dichiarava il diritto dell’attore di ritenere la caparra, ma rigettava la pretesa risarcitoria.
Con la sentenza impugnata, n. 1936/2019, la Corte di Appello di Bari riformava la decisione di prime cure, rigettando totalmente la domanda del COGNOME, sul presupposto che le parti avessero pattuito che, mancando il saldo della compravendita, il preliminare sarebbe divenuto privo di effetti e dunque inefficace.
Propone ricorso per la cassazione di detta pronuncia COGNOME affidandosi a quattro motivi.
Resiste con controricorso Giaccio GiuseppeCOGNOME
In prossimità dell’adunanza camerale, la parte ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione degli att. 1322, 1418 e 1421 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe
erroneamente interpretato la volontà negoziale delle parti, configurando di fatto una nullità atipica, ponendo nel nulla gli effetti tipici legati alla costituzione della caparra confirmatoria.
La censura è inammissibile.
La Corte di Appello ha interpretato la volontà negoziale delle parti, dando rilievo al fatto che esse avevano pattuito espressamente che, in mancanza del saldo nei tempi previsti, il preliminare sarebbe divenuto inefficace. La Corte distrettuale ripercorre la distinzione tra nullità ed inefficacia, configurando, nella fattispecie, un accordo tra le parti per privare, convenzionalmente, di effetti l’accordo nell’ipotesi in cui si fosse verificato un determinato evento, rappresentato, appunto, dal mancato pagamento del corrispettivo pattuito per la progettata compravendita. Non è stata, dunque, configurata alcuna ipotesi di nullità atipica, da parte del giudice di merito, il quale ha semplicemente operato una ricostruzione, non implausibile, della volontà delle parti, dando rilievo sia alla formulazione letterale della clausola, sia all’economia complessiva dell’affare. A tale interpretazione la società ricorrente contrappone una differente ed alternativa lettura del dato negoziale, senza tuttavia considerare che ‘La parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono
possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 28319 del 28/11/2017, Rv. 646649; conf. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 16987 del 27/06/2018, Rv. 649677; Cass. Sez. L, Ordinanza n. 18214 del 03/07/2024, Rv. 671915in precedenza, nello stesso senso, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009, Rv. 610944 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 25728 del 15/11/2013, Rv. 628585).
Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 1218, 1355 e 1360 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe ammesso la validità di una condizione meramente potestativa, in quanto il mancato saldo del corrispettivo sarebbe dipeso esclusivamente dalla volontà della parte promissaria acquirente.
La censura è infondata.
A tacere del fatto che la questione non risulta affrontata dalla sentenza impugnata e la parte ricorrente non indica in quale momento del giudizio di merito, e con quale strumento processuale, essa sarebbe stata sollevata, deve osservarsi che nella fattispecie non si configura una condizione meramente potestativa, in quanto la Corte di Appello ha ravvisato l’interesse della parte promittente venditrice all’inserimento della condizione nell’ambito del contratto. Secondo la Corte distrettuale, infatti, il promittente venditore intendeva, con la clausola in esame, riservarsi la possibilità di porre immediatamente in vendita il bene oggetto del contratto per cui è causa, nell’ipotesi in cui il saldo del corrispettivo non fosse avvenuto nel termine all’uopo pattuito tra le parti. In presenza di tale interesse del promittente venditore, almeno concorrente rispetto a quello del promissario
acquirente, non può sostenersi che la pattuizione in esame integrasse una condizione meramente potestativa, rimessa alla semplice volontà di quest’ultimo.
Né può ravvisarsi alcuna criticità nel fatto che l’adempimento dell’obbligazione principale del contratto preliminare di cui è causa gravante sul promissario acquirente, rappresentata dal pagamento del prezzo pattuito per la compravendita, sia desunto quale evento condizionante la validità del negozio, dovendosi ribadire, al riguardo, che ‘Per quanto la condizione costituisca di regola un elemento accidentale del negozio giuridico, come tale distinto dagli elementi essenziali astrattamente previsti per ciascun contratto tipico dalle rispettive norme, tuttavia, in forza del principio generale della autonomia contrattuale previsto all’art. 1322 c.c., i contraenti possono prevedere validamente come evento condizionante, in senso sospensivo o risolutivo dell’efficacia, il concreto adempimento o inadempimento di una delle obbligazioni principali del contratto, con la conseguenza, ove in tal caso insorga controversia sull’esistenza ed effettiva portata di quella convenzione difforme dal modello legale, spetta alla parte che la deduca a sostegno della propria pretesa fornire la relativa prova ed al giudice del merito compiere un’approfondita indagine per accertare la volontà dei contraenti’ (Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 35524 del 19/11/2021, Rv. 663100; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8051 del 08/08/1990, Rv. 468708). Nel caso specifico, la Corte di merito ha condotto l’indagine suindicata, ravvisando, come già detto, un interesse concorrente di ambo le parti all’inserimento, nel testo del contratto preliminare da loro sottoscritto, della clausola condizionale di cui si discute.
Con il terzo motivo, il ricorrente si duole della violazione degli artt. 1362, 1363 e 1367 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3,
c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente ricostruito la volontà negoziale delle parti, preferendo, tra le possibili interpretazioni della clausola contrattuale che prevedeva l’inefficacia del preliminare oggetto di causa in ipotesi di mancato saldo del corrispettivo pattuito per la compravendita, quella che, di fatto, privava di efficacia tutte le clausole diverse, che evidenziavano la volontà delle parti di sottoporre il loro accordo ad un regime di inefficacia relativa, con effetto ex nunc , nel senso di attribuire alla parte promittente venditrice la facoltà di vendere a terzi il cespite compromesso con il Giaccio, facendo tuttavia salvi gli effetti delle altre clausole negoziali, ivi inclusa quella con cui era stata costituita la caparra confirmatoria dal promissario acquirente.
La censura è in parte inammissibile per le medesime considerazioni esposte in occasione dello scrutinio del primo motivo di ricorso, poiché essa propone, in sostanza, una ricostruzione alternativa della volontà negoziale rispetto a quella, non implausubile, prescelta dal giudice di merito. In parte, invece, la doglianza è infondata, in quanto l’interpretazione prescelta dalla Corte distrettuale non implica affatto la perdita di efficacia di tutte le clausole contenute nel contratto preliminare oggetto di causa, ivi inclusa quella relativa alla costituzione di una caparra confirmatoria, ma introduce una specifica condizione, finalizzata, come già detto, da una parte ad attribuire alla parte promissaria acquirente una sorta di diritto di ripensamento sull’acquisto programmato, esercitabile omettendo di versare il saldo nel termine all’uopo pattuito, e dall’altra parte a consentire alla parte promittente venditrice la facoltà di porre immediatamente in vendita il bene, nel caso di mancato perfezionamento della compravendita di cui al contratto preliminare sottoscritto tra le parti del presente giudizio.
Con il quarto motivo, infine, il ricorrente contesta la violazione dell’art. 1385 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato il diritto del promittente venditrice di alienare a terzi il cespite compromesso in vendita con il Giaccio senza attendere una pronuncia giudiziale di inefficacia del contratto preliminare oggetto di causa. Ad avviso del ricorrente, l’argomento, utilizzato dal giudice di merito per evidenziare la convenienza, per la parte promittente venditrice, dell’interpretazione della clausola contrattuale prescelta, non sarebbe corretto, in quanto occorrerebbe sempre una pronuncia giudiziale per privare di efficacia un contratto preliminare di compravendita.
La censura è infondata.
In disparte la considerazione che anche tale questione, come quella oggetto del secondo motivo del ricorso, non risulta affrontata dalla sentenza impugnata e la parte ricorrente non indica in quale momento del giudizio di merito, e con quale strumento processuale, essa sarebbe stata sollevata, va osservato che, in ogni caso, l’assunto del ricorrente non trova corrispondenza nella disciplina della compravendita. Non è infatti sempre necessaria una pronuncia giudiziaria per privare di efficacia un contratto preliminare di compravendita, ben potendo le parti decidere, di comune accordo, di cessarne gli effetti, ovvero prevedere che tale cessazione consegua automaticamente al verificarsi, o al non verificarsi, di determinati eventi, positivi o negativi, o al decorso di un termine espressamente pattuito come essenziale in ragione delle caratteristiche dell’affare e delle intenzioni delle parti stesse. Le parti infatti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, sono sempre libere, così come di costituire, anche di porre nel nulla, il vincolo giuridico tra di esse convenzionalmente costituito, fermo il rispetto dei divieti previsti dalla legge. Il che è esattamente quello che, secondo l’interpretazione prescelta dalla Corte territoriale, è accaduto nella fattispecie, poiché i contraenti hanno, preventivamente,
individuato una ipotesi in cui, per mutuo consenso, il loro accordo preliminare sarebbe divenuto privo di effetti giuridici, con conseguente reciproca liberazione da ogni obbligo da esso derivante.
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P.R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento in favore della parte controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 2.500 per compensi, oltre ad € 200 per esborsi, alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, inclusi iva e cassa avvocati.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda