Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 22380 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 22380 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28383/2021 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore e domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
AZIENDA RAGIONE_SOCIALE COGNOMENOME–COGNOME , in persona del legale rappresentante pro tempore ed elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME
Oggetto: Pubblica Amministrazione – Prestazioni specialistiche ambulatoriali -Strutture accreditate SSN -Clausole contrattuali -Previsione sconto 20% – Richiamo al l’art. 1, comma 796, lett. o), Legge n. 296/2006 -Efficacia -Autonomia-
R.G.N. 28383/2021
Ud. 27/03/2025 CC
-controricorrente –
avverso la sentenza della SENTENZA di CORTE D’APPELLO BARI n. 675/2021 depositata il 01/04/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 27/03/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza n. 675/2021, pubblicata in data 1° aprile 2021, la Corte d’appello di Bari, nella regolare costituzione dell’appellata RAGIONE_SOCIALEBARLETTA-NOME-TRANI), ha respinto l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza del Tribunale di Trani, n. 1962/2018, pubblicata in data 5 ottobre 2018.
Quest’ultima, a propria volta, in accoglimento dell’opposizione proposta dall’RAGIONE_SOCIALE, aveva revocato il decreto ingiuntivo n. 246/15, col quale il Tribunale di Trani aveva ingiunto alla medesima RAGIONE_SOCIALE di pagare a RAGIONE_SOCIALE la somma di € 371.406,20.
Detta somma era stata azionata in via monitoria dallo RAGIONE_SOCIALE quale ulteriore remunerazione per prestazioni specialistiche ambulatoriali di analisi cliniche erogate da gennaio 2010 a giugno 2013, avendo la società contestato l’app licazione dello sconto del 20% sulla tariffa, applicato dalla ASL in base ad una previsione -e cioè l’art. 1, comma 796, lett. o), Legge n. 296/2006 non più in vigore.
La Corte d’appello ha disatteso il gravame della società, in primo luogo ribadendo la natura pattizia dei contratti conclusi tra le parti in causa e concludendo, conseguentemente, che gli stessi erano frutto
dell’autonomia negoziale delle parti e non frutto di una predeterminazione unilaterale della AZIENDA RAGIONE_SOCIALE LOCALE BAT.
Sulla scorta di tale premessa, la Corte territoriale ha concluso che il richiamo al criterio di determinazione delle tariffe di cui all’art. 1, comma 796, lett. o), Legge n. 296/2006 contenuto nei vari contratti conclusi dalle parti in relazione agli anni dal 2010 al 2013 costituiva non un rinvio alla previsione medesima -considerato anche il fatto che la stessa , all’epoca di conclusione delle pattuizioni, non era già più in vigore -bensì adozione, nell’ambito dell’autonomia negoziale delle parti, del criterio contemplato in origine dalla previsione di legge.
La Corte territoriale ha quindi concluso che il criterio in questione operava al di là della vigenza della norma che l’aveva enunciato , in quanto la fonte del vincolo tra le parti non era costituita dalla norma medesima bensì dalla pattuizione che ne recepiva il contenuto.
La Corte d’appello ha invece escluso che assumesse rilevanza la riserva formulata dalla società in sede di sottoscrizione degli accordi, rilevando che la stessa atteneva al diverso profilo dell’impugnazione degli atti amministrativi presupposti ai contratti e che quindi, con essa, la struttura privata aveva solo voluto chiarire che la sottoscrizione del contratto, con l’accettazione delle relative clausole, non equivaleva ad acquiescenza agli atti amministrativi, riservandosene l’impugnazione, peraltro non proposta.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Bari ricorre RAGIONE_SOCIALE
Resiste con controricorso AZIENDA RAGIONE_SOCIALE INDIRIZZO
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, secondo comma, e 380bis .1, c.p.c. La controricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Con l’unico motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli 1322, 1362, 1370 e 1419 c.c.; 1, comma 796, lett. o), Legge. n. 296/2006; 8 D. Lgs. n. 502/1992.
La ricorrente censura l’interpretazione che la Corte territoriale ha dato delle clausole dei contratti conclusi tra le parti ( ‘Il valore da addebitare alla Asl per le prestazioni erogate dovrà essere quantificato in applicazione di quanto disposto dall’articolo 1 co. 796, lett. o, della legge 27/12/2006 n. 296 ed al netto del ticket riscosso dai cittadini’ per i contratti relativi agli anni 2010 e 2011; ‘L’erogatore, in conformità alla lettera o) del comma 796 dell’art. 1 della legge n. 296/2013, così come modificato dalla parte relativa al tariffario dalla L.R. 16 aprile 2007 n. 10, s’impegna ad applicare le tariffe regionali del 1998 con lo sconto del 20%’ per i contratti relativi agli anni 2012 e 2013), argomentando che tali clausole, nel loro riferimento alla ‘applicazione’ della previsione di legge, non poteva essere interpretata in un senso difforme dal tenore letterale della stessa, come invece avrebbe fatto la decisione impugnata.
La ricorrente sottolinea la rilevanza della riserva formulata in sede di conclusione degli accordi e ribadisce il profilo della unilateralità della predisposizione delle clausole contrattuali da parte dell’Azienda Sanitaria, con conseguente necessità di applicare l’art. 1370 c.c.
La ricorrente evidenzia ulteriormente che la clausola contenuta nei vari contratti, venendo a determinare una sostanziale applicazione ultrattiva della norma di cui all’art. 1, comma 796, lett. o), Legge n. 296/2006, si verrebbe a porre in diretto contrasto con la natura transitoria della legge stessa, già affermata dalla Corte Costituzionale, e si tradurrebbe, di conseguenza nella nullità della clausola medesima.
2. Il ricorso è inammissibile e comunque infondato.
Questa Corte ha costantemente affermato il principio per cui l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (cfr. Cass. Sez. L, Sentenza n. 10745 del 04/04/2022; Cass. Sez. L, Sentenza n. 4851 del 27/02/2009).
Questa Corte ha tuttavia chiarito che il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 9461 del 09/04/2021; Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 27136 del 15/11/2017).
Infatti, l’interpretazione accolta nella decisione impugnata non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (cfr. Cass. Sez. 3, – sentenza n. 28319 del 28/11/2017).
Operata tale premessa, si deve rilevare che la ricorrente, ben lungi dall’evidenziare adeguatamente, nel percorso interpretativo seguito
dalla Corte di merito, una irrimediabile fallacia, tale da rendere palesemente ed incontestabilmente implausibile l’approdo del percorso medesimo, si limita a contrapporre all’interpretazione adottata dalla Corte d’appello, una diversa interpretazione – a sé favorevole – senza tuttavia riuscire a demolire il ragionamento seguito nella decisione impugnata.
Le argomentazioni della ricorrente, del resto, si riducono ad invocare una rigorosa applicazione del criterio di interpretazione letterale, dimenticando, tuttavia, che -come da questa Corte reiteratamente chiarito – in tema di interpretazione del contratto, l’elemento letterale, pur assumendo funzione fondamentale nella ricerca della effettiva volontà delle parti, deve invero essere riguardato alla stregua degli ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, di quelli dell’interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell’interpretazione secondo buona fede ex art. 1366 c.c., avuto riguardo allo “scopo pratico” perseguito dalle parti con la stipulazione del contatto, e quindi della relativa “causa concreta” (cfr. Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 34795 del 17/11/2021; Cass. Sez. L, Sentenza n. 24699 del 14/09/2021).
La ricorrente, in realtà, con il motivo di ricorso viene a sostenere una concezione rigidamente gerarchica dei criteri di interpretazione, e cioè una concezione che non è invece seguita da questa Corte, la quale invece ha ribadito che il dato testuale del contratto, pur importante, non può essere ritenuto decisivo ai fini della ricostruzione della volontà delle parti, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito solo al termine del processo interpretativo, che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé chiare, atteso che un’espressione prima facie chiara può non risultare più tale se collegata ad
altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti, da ciò risultando che l’interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all’interprete, dopo aver compiuto l’esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l’intenzione delle parti e quindi di verificare se quest’ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime (cfr. Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 32786 del 08/11/2022).
È bensì vero che i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 segg. c.c. sono governati da un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativiintegrativi, tanto da escluderne la concreta operatività quando l’applicazione dei primi risulti da sola sufficiente a rendere palese la “comune intenzione delle parti stipulanti” , ma è parimenti vero che la necessità di ricostruire tale “comune intenzione’ senza “limitarsi al senso letterale delle parole” , ma avendo riguardo al “comportamento complessivo” dei contraenti comporta che il dato testuale del contratto, pur rivestendo un rilievo centrale, non risulta necessariamente decisivo ai fini della ricostruzione dell’accordo, giacché il significato delle dichiarazioni negoziali non è un prius , ma l’esito di un processo interpretativo che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14432 del 15/07/2016).
Che, del resto, l’interpretazione adottata dalla Corte territoriale, ben lungi dall’essere ‘implausibile’, sia almeno ‘non implausibile’ anzi adeguatamente robusta e del tutto percorribile sul piano ermeneutico -emerge dalle argomentazioni della stessa decisione impugnata -dalla ricorrente assai fragilmente criticate -e soprattutto dalla considerazione per cui, non essendo l’art. 1, comma 796, lett. o),
Legge n. 296/2006 più vigente al momento della conclusione dei singoli contratti , l’interpretazione sostenuta dall’odierna ricorrente avrebbe sostanzialmente privato la previsione contrattuale di qualsiasi valenza, risultando la clausola svuotata di contenuto per effetto della cessazione della vigenza della previsione richiamata.
Del tutto logico, non adeguatamente censurato e coerente con il canone di cui all’art. 1367 c.c. risulta essere, quindi, il diverso approdo interpretativo della Corte; approdo, che, anzi, non incontra un ostacolo nel ripetutamente dichiarato carattere transitorio ed eccezionale del meccanismo dettato dal l’art. 1, comma 796, lett. o), Legge n. 296/ 2006 (cfr. Corte Cost. Ordinanze nn. 94/2009 e 243/2010).
Tale carattere, infatti, è da intendere riferito alla previsione di legge ed in particolare alla ragionevolezza d ell’esercizio della potestà legislativa in sede di sua adozione, venendo in rilievo -sul piano del vaglio di costituzionalità -il profilo specifico de ll’adozione – in via generalizzata e con l’imperatività di una norma di legge – di un criterio che è, in tal modo, imposto ope legis agli operatori, sottraendolo alla libera contrattazione delle parti.
I medesimi limiti non possono essere invece estesi all’esercizio dell’autonomia contrattuale in sede di conclusione dei contratti successivi all’accreditamento presso il SSN , stante la loro natura comunque convenzionale -tale da averli fatti ricondurre alle transazioni commerciali ex art. 2, D. Lgs. 231/2002 (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 35092 del 14/12/2023) -e quindi tale da rendere comunque possibile la previsione in tali contratti del l’applicazione di tariffe ‘ di favore ‘ per il SSN -in tal modo realizzando un traguardo di risparmio di spesa pubblica corrispondente al principio di cui all’art. 81 Cost. anche tramite il richiamo a parametri specifici come quello adottato dalla previsione di legge temporaneamente vigente ma ormai non più applicabile.
In questo caso, infatti , non si assiste all’imposizione normativa generalizzata di una tariffa, ma alla conclusione di un accordo contrattuale che la parte è libera di accettare o meno, del tutto inconsistenti risultando i riferimenti -contenuti nel ricorso -al carattere unilaterale ed ‘imposto’ delle clausole .
Né può parlarsi -come invece argomenta il ricorso -di surrettizia ‘ultrattività’ della norma, in quanto ad essere applicato è semplicemente un criterio di computo già adottato dalla legge ma a questo punto concordato in via convenzionale, senza quindi determinare alcuna persistente applicazione della legge medesima, quale fonte del diritto vincolante per le parti e sottratta alla loro disponibilità.
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo.
Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto” , spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020).
P. Q. M.
La Corte, dichiara il ricorso inammissibile;
condanna la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in € 5.200,00 , di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1- quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima