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Cessione ramo d’azienda: il doppio stipendio è lecito

La Corte di Cassazione ha confermato che, in caso di cessione di ramo d’azienda dichiarata illegittima, il lavoratore ha diritto a percepire sia la retribuzione dal datore di lavoro originario (cedente) sia quella dall’azienda che lo ha acquisito (cessionaria). La sentenza stabilisce che si vengono a creare due rapporti di lavoro paralleli e distinti: uno ‘de iure’ con il cedente, ripristinato giudizialmente, e uno ‘de facto’ con il cessionario, per il quale il lavoratore ha effettivamente prestato servizio. Di conseguenza, la retribuzione versata dal cessionario non può essere detratta da quella dovuta dal cedente, poiché non si tratta di un risarcimento del danno ma del corrispettivo per due obbligazioni distinte.

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Cessione ramo d’azienda illegittima: la Cassazione conferma il diritto al doppio stipendio

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta un tema cruciale nel diritto del lavoro: le conseguenze economiche di una cessione ramo d’azienda dichiarata illegittima. La questione centrale è se il lavoratore, il cui rapporto di lavoro viene ripristinato con il datore originale, abbia diritto alla piena retribuzione anche se nel frattempo ha continuato a lavorare e a essere pagato dalla società acquirente. La risposta della Corte è affermativa e si fonda sulla teoria del doppio rapporto di lavoro.

I Fatti: la vicenda giudiziaria

Il caso ha origine dalla cessione di un ramo d’azienda da parte di una grande società tecnologica a un’altra impresa. Una lavoratrice coinvolta nell’operazione ha impugnato il trasferimento, ottenendo dal Tribunale una sentenza che ne dichiarava l’illegittimità e ordinava la sua riammissione in servizio presso la società cedente. Tale decisione è stata confermata in appello.

Nonostante la sentenza, la società originaria non ha riammesso la dipendente, la quale ha quindi continuato a lavorare per l’azienda cessionaria. La lavoratrice ha successivamente ottenuto un decreto ingiuntivo per le retribuzioni non corrisposte dalla società cedente a partire dalla data della prima sentenza. L’azienda si è opposta, ma sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno dato ragione alla lavoratrice. La questione è così giunta dinanzi alla Corte di Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione sulla cessione ramo d’azienda

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, confermando le decisioni dei gradi precedenti. I giudici hanno ribadito un principio consolidato nella loro giurisprudenza: quando una cessione di ramo d’azienda è giudicata inefficace nei confronti del lavoratore, si vengono a creare due distinti e autonomi rapporti di lavoro:

1. Un rapporto de iure: quello che viene legalmente ripristinato con il datore di lavoro originario (il cedente). Quest’ultimo è obbligato a pagare la retribuzione perché, rifiutando la prestazione lavorativa offerta dal dipendente, si pone in una situazione di mora credendi.
2. Un rapporto de facto: quello che di fatto prosegue con l’azienda acquirente (il cessionario), la quale è tenuta a retribuire il lavoratore per l’attività effettivamente svolta alle sue dipendenze.

Di conseguenza, il lavoratore ha pieno diritto a percepire entrambe le retribuzioni, senza che una possa escludere o ridurre l’altra.

Le Motivazioni della Sentenza: La teoria del doppio rapporto

La Corte ha smontato le argomentazioni dell’azienda ricorrente punto per punto, fornendo chiarimenti fondamentali.

La coesistenza di un rapporto ‘de iure’ e uno ‘de facto’

Il cuore della motivazione risiede nella netta distinzione tra i due rapporti. La retribuzione dovuta dal cedente non è un risarcimento per un danno subito dal lavoratore, ma il corrispettivo contrattuale dovuto per la prestazione lavorativa che il dipendente ha messo a disposizione e che il datore ha illegittimamente rifiutato. Il pagamento effettuato dal cessionario, invece, è il corrispettivo per il lavoro effettivamente prestato in un rapporto diverso e autonomo, rilevante ai sensi dell’art. 2126 c.c. (prestazione di fatto).

L’inapplicabilità della ‘compensatio lucri cum damno’

Proprio perché la retribuzione del cedente non ha natura risarcitoria, la Corte ha escluso l’applicazione dei principi di aliunde perceptum e di compensatio lucri cum damno. Questi istituti si applicano solo quando si deve quantificare un danno, per evitare che il danneggiato riceva un risarcimento superiore al pregiudizio subito. In questo caso, non essendoci un danno da risarcire ma due obbligazioni retributive distinte derivanti da due contratti diversi, non vi è alcuno spazio per operare detrazioni.

Inoltre, la Corte ha chiarito che il datore di lavoro in mora si assume il rischio di un’eventuale impossibilità sopravvenuta della prestazione del lavoratore (ad esempio per malattia o infortunio), rendendo irrilevanti le vicende relative al rapporto de facto con il cessionario.

Conclusioni: Implicazioni pratiche per lavoratori e aziende

L’ordinanza consolida un orientamento giurisprudenziale di grande importanza, offrendo una tutela rafforzata ai lavoratori coinvolti in operazioni di cessione ramo d’azienda illegittime. Per i datori di lavoro, la decisione rappresenta un monito chiaro: ignorare un ordine giudiziale di reintegrazione ha conseguenze economiche significative. La sentenza sottolinea che l’obbligo retributivo persiste finché il datore di lavoro non adempie all’ordine di riammissione in servizio, e tale obbligo non viene meno per il solo fatto che il lavoratore abbia trovato un’altra occupazione, seppur con il cessionario. Questa pronuncia ribadisce la centralità del sinallagma contrattuale nel rapporto di lavoro e le gravi conseguenze che derivano dalla sua violazione da parte del datore di lavoro.

Se una cessione di ramo d’azienda è dichiarata illegittima, il lavoratore che continua a lavorare per l’acquirente ha diritto anche alla retribuzione dal datore di lavoro originale?
Sì. La Corte di Cassazione ha stabilito che si creano due rapporti di lavoro distinti: uno de iure (legale) con il datore originale, che è tenuto a pagare lo stipendio perché in mora, e uno de facto (di fatto) con l’acquirente, che paga per la prestazione lavorativa effettivamente ricevuta.

Lo stipendio percepito dal nuovo datore di lavoro può essere detratto da quanto dovuto dal datore originale?
No. Secondo la Corte, non si può detrarre quanto percepito dall’altro datore di lavoro (aliunde perceptum). Questo perché la retribuzione dovuta dal datore originale non è un risarcimento del danno, ma il corrispettivo contrattuale per la prestazione offerta dal lavoratore e illegittimamente rifiutata.

I pagamenti effettuati dal datore di lavoro acquirente (cessionario) liberano il datore originale (cedente) dal suo obbligo di pagare lo stipendio?
No. Il pagamento effettuato dal cessionario serve a retribuire il lavoro svolto nel rapporto de facto con lui e costituisce adempimento di un debito proprio, non di un debito altrui. Pertanto, non libera il cedente dall’obbligo di pagare le retribuzioni relative al rapporto de iure ripristinato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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