Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24896 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 24896 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 13602-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 997/2022 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 20/12/2022 R.G.N. 762/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/05/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Fatti di causa
Oggetto
Altre ipotesi rapporto privato
R.G.N.13602/2023
COGNOME
Rep.
Ud 21/05/2025
CC
RAGIONE_SOCIALE propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale NOME COGNOME aveva chiesto il pagamento di retribuzioni maturate dal luglio 2018 al dicembre 2020 con gli accessori di legge sul rilievo che con sentenza del Tribunale di Milano era stata accertata la nullità della cessione di ramo d’azienda a RAGIONE_SOCIALE e che la società non aveva disposto la riammissione in servizio del lavoratore nonostante a tal fine fosse stata sollecitata con PEC del 22.7.2019.
Il Tribunale di Milano rigettò l’opposizione avente ad oggetto l’inidoneità della messa in mora spiegata dal lavoratore rilevando che la prestazione lavorativa in fatto resa per un terzo non escludeva la validità dell’offerta di prestazione all’originario datore di lavoro, considerato che, in casso di accettazione della prestazione, il lavoratore ben avrebbe potuto scegliere di rendere detta prestazione non più soltanto giuridicamente ma anche effettivamente.
La Corte di appello di Milano, investita del gravame di IBM, con la sentenza n. 997/2022, in parziale riforma della gravata pronuncia revocò il decreto ingiuntivo e condannò la società al pagamento, in favore del Laera, della sola somma di euro 59.948,73 a titolo di retribuzioni maturate dal 22 luglio 2019 al 31.12.2020, oltre accessori, evidenziando che, per il periodo precedente la messa in mora (luglio 2019) il lavoratore non aveva alcun diritto retributivo e , pertanto, la somma di cui al monitorio dove va essere ridotta all’importo sopra indicato, pari alle retribuzioni dalla data di messa in mora al 31.12.2020.
Ha proposto ricorso per cassazione la società RAGIONE_SOCIALE che ha articolato sette motivi ai quali ha resistito con controricorso NOME COGNOME
La Consigliera delegata ha, con atto del 10 dicembre 2024 2024, ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c.
La ricorrente ha chiesto la decisione del ricorso.
Le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2909 cod. civ. e la violazione dell’art. 324 cpc, ai sensi dell’art. 360 co. 1 nn. 3 e 4 cpc, per non avere la Corte di appello erroneamente rilevato che, in ordine all’obblig o retributivo ex adverso invocato a carico di IBM, si era formato un giudicato negativo con la sentenza emessa all’esito del giudizio sulla fattispecie traslativa ex art. 2112 cod. civ., non appellata dal lavoratore neppure in via incidentale, ove, a fronte della richiesta di riconoscimento del diritto a tutte le retribuzioni che sarebbero maturate in RAGIONE_SOCIALE e relativa contribuzione, per il periodo dall’estromissione alla reintegrazione, il Tribunale, con sentenza integralmente confermata in appello, aveva statuito che le pretese retributive avanzate in ricorso non potevano, invece, essere accolte essendo pacifico che i lavoratori (tra cui il Laera) avevano continuato l’attività lavorativa presso la cessionaria RAGIONE_SOCIALE ed avevano percepito lo stesso trattamento economico in godimento presso la cedente, senza perdita di retribuzioni o parte di esse. Invero, la società deduce che, in relazione alla sollevata eccezione, la Corte territoriale, non correttamente, aveva ritenuto che le causae petendi delle richieste retributive, nel giudizio
riguardante la illegittimità della cessione del rapporto di lavoro e in quello presente, fossero diverse, e che inoltre vi erano state sopravvenienze fattuali, quali la messa in mora del lavoratore e la inottemperanza datoriale le quali non consentivano l’operatività del principio secondo cui l’autorità del giudicato copre il dedotto ed il deducibile: principio operante, secondo la ricorrente, nel caso in esame.
Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 3 e 36 Cost., la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 c.c. e la violazione degli artt. 1218, 1223, 1227, 2094, 2099 e 2105 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. Ad avviso della ricorrente le somme chieste devono essere riconosciute a titolo risarcitorio e non a titolo retributivo e chiede che, ove si ritenga esistente un diritto vivente nel senso della natura retributiva del credito, si sollevi la questione di legittimità costituzionale delle norme richiamate perché in contrasto con l’art. 36 e 3 della Costituzione.
Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione degli artt. 3 e 36 Cost., la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1208, 1217, 1256, 2094 e 2099 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c. e si dubita dell’idoneità della offerta della prestazione proveniente dal lavoratore -il quale tenga in piedi un distinto rapporto lavorativo con il terzo cessionario a costituire in mora il cedente. La ricorrente sostiene che si tratta di scelta che si pone in contrasto con il principio di effettività della messa in mora ex art. 1206 c.c. atteso che l’atto deve accompagnarsi alla concreta possibilità di adempiere che invece sarebbe insussistente in quanto la lavoratrice era in servizio alle dipendenze di altro datore di lavoro.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce la violazione degli artt. 1180, 2036 e 2126 c.c. in relazione all’art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 e degli artt. 1676 e 2112 comma 6 c.c., la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 c.c. e l’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 primo comma nn. 3 e 5 c.p.c. Ad avviso della società ricorrente, sebbene l’illegittimità della cessione determini la ricostituzione del rapporto con il cedente, tuttavia essa non refluisce sulle obbligazioni del cessionario che resta obbligato. Per tale ragione i rapporti di lavoro proseguono e le retribuzioni erogate incidono sull’ammontare di quelle da erogare da parte del cedente. Sostiene inoltre che la mancata considerazione di tali circostanze di fatto costituirebbe un omesso esame di fatto decisivo.
Con il quinto motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 1180 e 2036 c.c. e la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207 e 1217 c.c. in relazione all’art. 27 comma 2 d.lgs. n. 276 del 2003 ed al l’art. 38 comma 3 d.lgs. n. 81 del 2015. Con riguardo all’efficacia liberatoria del pagamento effettuato dallo pseudo appaltatore si ritiene che erroneamente la Corte di merito avrebbe ritenuto che il meccanismo liberatorio previsto per l’interposizione non trovi applicazione nell’ipotesi di cessione ai sensi dell’art. 2112 c.c. che non ne prevede uno analogo. Si sostiene che le Sezioni Unite di questa Corte nell’accertare la natura retributiva e non risarcitoria delle somme dovute dallo pseudo committente che non ripristini il rapporto hanno contestualmente affermato che dal quantum si detrae la somma medio tempore percepita dal lavoratore che sia rimasto alle dipendenze dello pseudo appaltatore ma non
hanno affatto limitato tale possibilità al solo caso in cui ciò avvenga dopo la sentenza che abbia accertato l’interposizione. Si deduce che tali principi dovrebbero applicarsi anche alle cessioni dichiarate illegittime e denuncia l’erroneità dell’affermaz ione, contenuta in alcune sentenze di questa Corte, che hanno sostenuto che ‘il nuovo datore di lavoro (già cessionario nel trasferimento dichiarato illegittimo) è l’utilizzatore effettivo (e non meramente apparente come nelle fattispecie, di certo differenti, di interposizione nelle prestazioni di lavoro) dell’attività del lavoratore cui in via corrispettiva corrisponde la retribuzione dovuta e così adempie ad un’obbligazione propria, non sicuramente estinguendo un debito altrui (come nel caso di interposizioni fittizie: Cass. 3 settembre 2015, n. 17516; Cass. 31 luglio 2017, n. 19030).’ Si sostiene che anche in caso di cessione il terzo (cessionario) interviene nel rapporto tra altri soggetti e il pagamento deve valere ad estinguere fino a concorrenza l’ob bligazione retributiva ritenuta sussistente in capo al cedente: diversamente si genererebbe una irragionevole disparità di trattamento con l’appalto non genuino. Si insiste nel chiedere che, ove si sia di diverso avviso, si sollevi la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2112 c.c. con riguardo all’art. 3 Cost.
Il sesto motivo di ricorso denuncia, in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., la falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217 c.c. e la violazione art. 2094 e 2099 c.c. e degli artt. 3, 36, 41 e 111 Cost. oltre che la falsa applicazione dell’a rt. 614 bis c.p.c. Ad avviso della ricorrente l’interpretazione data dalla giurisprudenza della Corte in fattispecie analoghe si risolverebbe nell’applicazione di un’ astrainte , quale quella prevista dall’art. 614 bis c.p.c., che
però non si applica alle controversie di lavoro. Ribadisce che tale interpretazione violerebbe le norme costituzionali richiamate in rubrica. Si determinerebbe una disparità tra lavoratori in relazione al fatto che abbiano conservato o meno la precedente occupazione con evidenti profili di incostituzionalità.
Con il settimo motivo di ricorso è denunciata infine la violazione e falsa applicazione degli art. 1206, 1207, 1208, 1217 e 1256 c.c. e degli artt. 115, 210 e 213 c.p.c. in relazione all’art.360 primo comma n. 3 c.p.c. Si sostiene che non spettano le retribuzioni nei periodi di sospensione ex 2110 c.c. quando percepiva prestazioni indennitarie sostitutive. Si deduce che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto che tali situazioni, in quanto relative al diverso rapporto con la società cessionaria (la RAGIONE_SOCIALE) non possano refluire sul rapporto con la cedente RAGIONE_SOCIALE. Si osserva al contrario che trattandosi di una impossibilità a rendere la prestazione non sarebbe stato comunque possibile un valido adempimento ex art. 1208 c.c. con la conseguenza che l’offerta della prestazione non sarebbe valida. Si sottolinea inoltre la richiesta di esibizione della relativa documentazione indirizzata alla lavoratrice ed all’Inail non avrebbe potuto essere considerata esplorativa ove si fosse considerato che la società non aveva avuto più rapporti con la lavoratrice dal 2016.
Il primo motivo è infondato e, sotto questo profilo, il Collegio non concorda con quanto indicato nella proposta di definizione anticipata che aveva ritenuto tale doglianza inammissibile per difetto di autosufficienza.
Invero, nella articolazione della censura, nel caso de quo , sono stati riportati tutti i passaggi determinanti, posti a
sostegno del motivo: gli atti e le sentenza su cui esso si fonda; i documenti richiamati e di cui è stata indicata la localizzazione; le parti rilevanti ai fini del decidere degli atti processuali, con il richiamo congiunto alla motivazione e al dispositivo; la trascrizione delle domande e delle motivazioni delle sentenze limitatamente alla questione della richiesta retributiva proposta dal lavoratore nel pregresso giudizio sulla fattispecie traslativa IBM -MODIS.
Non sono, quindi, ravvisabili aspetti di inammissibilità per difetto di specificità del motivo che, tuttavia, non merita accoglimento.
La sentenza impugnata, infatti, ha ritenuto, nel rigettare la sollevata eccezione di pregresso giudicato, la diversità delle causae petendi azionate nei due giudizi e la sopravvenienza di fatti nuovi.
La statuizione è condivisibile in quanto effettivamente la richiesta di retribuzioni, nel primo giudizio, trovava il suo fondamento dell’accertamento della illegittimità della cessione del rapporto da RAGIONE_SOCIALE a RAGIONE_SOCIALE, mentre, nella presente causa, l’inadempime nto degli obblighi retributivi, in capo al datore di lavoro, è stato collegato alla inattività dello stesso all’invito di ripristino del rapporto lavorativo connesso, appunto, alla offerta della prestazione lavorativa: circostanze verificatesi dopo la pronuncia del Tribunale di Milano n. 715/2018.
Vanno, al riguardo, ribaditi i principi secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e, pertanto, non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio, ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono
precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia, ma non può spiegare i suoi effetti in ordine alle questioni che non potevano essere proposte prima che sorgesse il fatto giuridico da cui scaturiscono (Cass. n. 6091/2020) e in virtù del quale i limiti oggettivi del giudicato, anche con riguardo al deducibile, non si estendono a domande diverse per petitum e causa petendi , rispetto alle quali può porsi soltanto il problema di una eventuale preclusione che, tuttavia, non può ritenersi sussistente in ragione del mero rapporto di connessione intercorrente con una domanda già proposta in un giudizio precedente, in quanto la connessione incide normalmente sulla competenza del giudice, ma non postula il necessario cumulo delle domande connesse (Cass. n. 1259/2024).
Il secondo ed il terzo motivo -da esaminare congiuntamente per la loro connessione -sono infondati alla luce della giurisprudenza di questa Corte sulla duplicità dei rapporti, l’uno de iure ricostituito dalla sentenza con cui la cessione di ramo d’azienda è stata dichiarata illegittima (o comunque inopponibile ai lavoratori ceduti), l’altro de facto proseguito alle dipendenze del cessionario, rilevante nei limiti di cui all’art. 2126 c.c. Al riguardo questa Corte ha già affermato che, nel caso di illegittima cessione di ramo d’azienda, le prestazioni lavorative offerte al datore di lavoro cedente e da questi non ricevute senza giustificato motivo, producendo gli effetti della mora credendi , sono equiparate a quelle eseguite e generano la sua obbligazione retributiva corrispettiva, senza che da questa possa detrarsi quanto percepito dal lavoratore ceduto nell’ambito del diverso ed autonomo rapporto instaurato con il cessionario in via di mero fatto ex art. 2126 c.c., sia perché l’aliunde perceptum
attiene al risarcimento del danno, sia perché si è in presenza di due rapporti lavorativi, per i quali il principio di corrispettività giustifica il diritto a due retribuzioni (Cass. ord. n. 14712/2024; Cass. ord. n. 35982/2021; Cass. ord. n. 21158/2019; Cass. ord. n. 21160/2019).
Il quarto motivo è inammissibile con riguardo al vizio ex art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. in quanto la questione, ritenuta omessa (e se di fatto storico può parlarsi) è stata valutata dalla Corte territoriale. Per il resto il motivo è infondato alla luce delle medesime ragioni esposte con riguardo al secondo e al terzo motivo. In ogni caso non può applicarsi l’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003, che attiene alla fattispecie del tutto d iversa della solidarietà del committente e dell’appaltatore per i crediti retributivi dei dipendenti di quest’ultimo maturati nell’ambito dell’unico rapporto di lavoro alle dipendenze dell’appaltatore. Il caso in esame, invece, attiene ai crediti retributivi vantati dai lavoratori nei confronti del cedente in relazione al rapporto di lavoro ripristinato de iure dalla declaratoria giudiziale di illegittimità ( rectius inopponibilità) della cessione del ramo d’azienda, che si affiancano ai diversi crediti vantati nei confronti del cessionario in virtù del distinto ed autonomo rapporto di lavoro rilevante ex art. 2126 c.c.
Il quinto motivo è infondato.
Nell’appalto illecito (o nella somministrazione irregolare) il datore di lavoro formale non utilizza la prestazione lavorativa, che viene resa unicamente per soddisfare l’interesse economico del committente (o dell’utilizzatore). Nella cessione di ramo d’a zienda dichiarata illegittima (o inopponibile al lavoratore), dopo la sentenza dichiarativa di quell’illegittimità il rapporto di lavoro viene ricostituito de iure
alle dipendenze del cedente, sicché il rapporto di lavoro che proseguisse di fatto alle dipendenze del cessionario è giuridicamente rilevante soltanto nei limiti dell’art. 2126 c.c. Dunque, i rapporti di lavoro in tal caso sono due, sicché il cessionario che paga la retribuzione non adempie un debito altrui (ossia del cedente), bensì un debito proprio. Ne consegue l’inapplicabilità dell’adempimento del terzo (art. 1180 c.c.) e del meccanismo satisfattivo delineato dall’art. 27, co. 2, d.lgs. n. 276/2003, applicato da questa Corte (Cass. sez. un. n. 2990/2018) limitatamente all’appalto illecito.
Il sesto motivo è parimenti infondato.
L’ astreinte di cui all’art. 614 bis c.p.c. è misura coercitiva indiretta che consiste nel pagamento di una somma di denaro in caso di inadempimento di un’obbligazione nascente da un titolo giudiziale. In tal caso la fonte dell’obbligazione pecuniaria accessoria è rappresentata dalla sentenza, che contiene la condanna ad un facere infungibile. Nel caso della cessione di ramo d’azienda dichiarata illegittima ( rectius inopponibile al lavoratore) il diritto alla retribuzione sorge come normale vicenda interna al rapporto di lavoro, sicché trova la sua fonte non nella sentenza del giudice, che si limita a ricostituire de iure quel rapporto di lavoro, bensì proprio in quest’ultimo. Ne consegue che tale somma di denaro trova titolo nel normale obbligo retributivo del datore di lavoro, sicché rappresenta la sua obbligazione principale interna al rapporto di lavoro subordinato. Diversamente, quella delineata dall’art. 614 bis c.p.c. è una somma di denaro ‘accessoria’ ad una condanna ad un facere infungibile. Ne deriva che, contrariamente all’assunto della ricorrente, la Corte territoriale non ha affatto applicato l’art. 614 bis c.p.c.
Il settimo motivo, infine, è anche esso infondato.
In relazione al primo profilo -irrilevanza delle vicende (malattia, infortunio, congedi etc.) relative al rapporto con il cessionario del ramo d’azienda rispetto al diverso rapporto di lavoro con il cedente -è sufficiente rammentare che, ai sensi dell’art. 1207, co. 1, primo periodo, c.c., ‘Quando il creditore è in mora, è a suo carico l’impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore’. Quindi dal momento in cui il datore di lavoro (cedente il ramo d’azienda) è costituito in mora, il rischio dell’eventuale impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al lavoratore, quale debitore della prestazione lavorativa, resta a carico del datore di lavoro medesimo. Ciò rende irrilevanti le eventuali situazioni di impossibilità sopravvenuta (temporanea) della prestazione lavorativa. Resta in tal modo assorbita l’ulteriore censura, relativa al criterio della c.d. vicinanza della prova, che, secondo la ricorrente, avrebbe giustificato l’ordine di esibizione all’INPS o all’INAIL. Infatti, tale atto istruttorio resta del tutto irrilevante, posto che il datore di lavoro, creditore della prestazione lavorativa, dalla costituzione in mora sopporta il rischio di eventuali cause di impossibilità sopravvenuta (e temporanea) della prestazione lavorativa.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste a carico della società soccombente e distratte in favore degli avvocati che se ne sono dichiarati antistatari.
Non essendo l’esito decisorio della presente ordinanza conforme, con riguardo al primo motivo, alla proposta di definizione accelerata, non vanno pronunziate le condanne di
cui all’art. 96, co. 3 e 4, c.p.c., visto l’espresso richiamo nell’art. 380 bis, ult. co., c.p.c.
Inoltre, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, ed accessori come per legge. Spese da distrarsi in favore dei Difensori del controricorrente dichiaratisi antistatari. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 21.5.2025.
La Presidente
Dott.ssa NOME