Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 7205 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 7205 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 18/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 31088/2019 R.G. proposto da: COGNOME NOMECOGNOME difesi dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrenti- contro
COGNOME difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
nonché contro
COGNOME NOME
-intimato- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO FIRENZE n. 1707/2019 depositata il 12/07/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME e NOME COGNOME si obbligavano a pagare a NOME COGNOME e NOME COGNOME la somma di € 110.000 in base a una scrittura privata del 21/05/2007, come corrispettivo della cessione della gestione di un complesso sportivo. Dopo il versamento di € 70.000 , i cessionari non saldavano il corrispettivo. Nel 2009 i cedenti ottenevano dal Tribunale di Livorno un decreto ingiuntivo di pagamento del saldo di € 40.000. In sede di opposizione, i cessionari lamentavano di essere subentrati nella mera gestione di un’associazione no-profit (l’A ssociazione RAGIONE_SOCIALE) e non di essere cessionari di un’azienda (economicamente utile), come era previsto nella scrittura privata. Su questa base domandavano in via riconvenzionale la risoluzione del contrato per aliud pro alio o in subordine l’annulla mento per errore essenziale e la condanna dei cedenti alla restituzione degli € 70.000 già versati.
Il Tribunale accertava che la scrittura privata menzionava espressamente il subentro nella gestione dell’impianto sportivo e non conteneva alcun riferimento alla cessione di un’azienda . Rilevante si rivelava in particolare la seguente clausola: « I signori COGNOME e COGNOME NOME cessano l’attività di gestione dell’impianto sportivo in favore dei signori COGNOME e COGNOME NOMECOGNOME i quali si impegnano a corrispondere l’importo di € 110.000,00 per il subentro. Il trasferimento comprende tutto quanto presente nell’impianto, comprese le attrezzature e le migliorie apportate ». Inoltre, si accertava che l’attività era regolata da una convenzione con il Comune. Il Tribunale escludeva pertanto che il contratto potesse trasferire diritti di proprietà sugli impianti e affermava che il passaggio di gestione non equivaleva a una cessione d’azienda. Quanto alla domanda di risoluzione per inadempimento, il Tribunale la rigettava, ritenendo che il contratto era stato correttamente eseguito dalle parti e che gli opponenti avevano percepito proventi dalla gestione, sebbene questa fosse effettuata tramite un’associazione sportiva (tra gli oggetti della cessione vi era anche la gestione di un bar
all’interno del complesso sportivo) . Quanto alla domanda di annullamento per errore, il Tribunale la rigettava, ritenendo che il contenuto del contratto era chiaro e che eventuali malintesi sulla redditività della gestione non costituivano errore essenziale riconoscibile dalla controparte. Aggiungeva infine che i cessionari avevano continuato a versare il corrispettivo per quasi due anni prima di sollevare contestazioni, elemento che deponeva per una presa di coscienza della reale natura dell’accordo e per l’in esistenza di un errore invalidante. In conclusione, il Tribunale confermava il decreto ingiuntivo rigettando le domande degli opponenti.
L’appello è stato rigettato, pur dopo un’integrazione di elementi istruttori sollecitati dal rilievo d’ufficio della questione di nullità del contratto per vizi attinenti alla causa.
Ricorrono in cassazione i cessionari con nove motivi, illustrati da memoria. Resiste uno dei due cedenti, NOME COGNOME con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112, 342 e 346 c.p.c. in relazione all’arbitraria esclusione della natura di attività economicamente utile della gestione dei campi da calcetto, nonostante che il giudice di primo grado avesse statuito che tale gestione aveva potenziale utilità economica, riferendosi alle caratteristiche strutturali e funzionali dell’impianto. I ricorrenti lamentano che la Corte di appello abbia errato nel ritenere che la gestione potesse essere esclusivamente finalizzata all’utilità sociale. Tale affermazione contrasterebbe con le risultanze istruttorie e le dichiarazioni rese dalle parti in primo grado. Viene enfatizzato come il giudice di primo grado avesse esplicitamente affermato che « il divieto di ripartizione di utili contenuto nello sta tuto dell’associazione non attiene ai ricavi della gestione degli impianti » e che « gli opponenti percepito utili dall’attività economica esercitata secondo contratto ».
Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 2909 c.c., sostenendo che la statuizione del giudice di primo grado, relativa alla natura economica del contratto, sia passata in giudicato, poiché non impugnata, e che la corte di appello abbia errato riqualificando tale natura. In particolare, la Corte di appello avrebbe violato il giudicato accertando, in contrasto con la sentenza di primo grado, che il contratto non implicava una gestione economicamente utile, ritenendo inoltre che non vi fosse una cess ione d’azienda, ma solo un subentro in una gestione associativa.
I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente per connessione.
Essi sono infondati.
A fondamento della loro tesi i ricorrenti estrapolano alcuni passaggi della motivazione della sentenza di primo grado avulsi dal suo più ampio contesto argomentativo, che muove dal riconoscimento di un accordo « avente ad oggetto la cessione a titolo oneroso del diritto di gestire impianti sportivi di proprietà del Comune che a ciò ha abilitato soggetti privati attraverso la stipulazione di un’apposita convenzione, ammissibile in quanto teso a perseguire un interesse da ritenersi meritevole secondo l’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 1322 c.c., ossia, per l’appunto, la gestione attiva per finalità di utilità sociale (attività sportive) di impianti di proprietà pubblica (consentendo quindi una utilizzazione più dinamica, intensa e proficua grazie all’intervento di soggetti privati) a titolo oneroso » (così, sentenza di primo grado, p. 7). L’argomentazione culmina poi nel rigetto delle domande dei cessionari.
Restituito così una aspetto fondamentale della motivazione del giudice di primo grado, il giudizio di primo grado è confermato in secondo grado non solo nel dispositivo di rigetto delle domande dei cessionari, ma anche nella motivazione (a parte l’arricchimento istruttorio sollecitato dal rilievo d’ufficio della questione di nullità del contratto). In primo luogo, la parte dei motivi della decisione di
secondo grado esordisce con l’affermazione : « l’appello è infondato non essendo le sue argomentazioni idonee a censurare le condivise statuizioni del giudice di primo grado ». Prosegue poi nei passi maggiormente rilevanti: « Passando dunque allo scrutinio del contratto definitivo stipulato inter partes è possibile ravvisare nello stesso gli elementi previsti come essenziali dall’art. 1325 nell’esercizio dell’autonomia contrattuale riconosciuta alle dall’ordinamento giuridico per cui il contratto de quo non può ritenersi nullo: la funzione economico sociale, in concreto, perseguita con la stipula dell’accordo – la cui mancata formalizzazione dinanzi al Notaio dà ulteriore prova della consapevolezza di quale fosse l’oggetto del contratto – era quella di consentire il subentro nella gestione degli impianti sportivi, attività documentalmente provata dai cedenti. Non costituisce pertanto utile supporto probatorio, al fine che interessa, né l’espletata prova testimoniale, né la documentazione acquisita dal collegio in via istruttoria. Nulla appare, infatti, sottaciuto agli appellanti, come può chiaramente evincersi dal testo dell’accordo ove viene dato espressamente atto del subentro in una attività di gestione dell’impianto, per il tramite dell’Associazione RAGIONE_SOCIALE, nonché della proprietà dell’impianto in capo al Comune di San Vincenzo: tali precise indicazioni fugano ogni dubbio circa l’oggetto del contratto ma anche sulla liceità dell’operazione e l’assenza di vizi del consenso. Non viene infatti in specie indicato, quale controprestazione del richiesto corrispettivo in denaro, alcun trasferimento di proprietà dell’impianto né cessione di azienda, produttiva di reddito, come prospettato dalla controparte al fine di supportare la domanda di risoluzione del contratto. Il contratto menziona esclusivamente il subentro nell’attività di gestione (senza riferimento ad utilità economiche) » .
Soprattutto, al fine di sostanziare il giudizio di infondatezza dei primi due motivi di ricorso, è da sottolineare che la potenziale utilità economica della gestione non è esclusa logicamente dalla sentenza
di appello, ove infatti si afferma: « Era onere degli appellanti assumere le prudenziali informative di rito circa la eventuale redditività dell’attività di gestione in cui andavano a subentrare anche mediante l’acquisizione della documentazione fiscale oggi sottoposta all’attenzione della Corte, che neppure può rilevare rientrando la convenienza di un accordo contrattuale, con l’assunzione delle relative obbligazioni, nella discrezionale attività decisoria delle parti ».
A quest a argomentazione segue poi l’aggiunta che è il bersaglio principale dell ‘argomentazione dei ricorrenti a sostegno di una violazione del giudicato interno e dell’arbitraria esclusione della natura di attività economicamente utile da parte della Corte di appello: «Ben possibile è infatti determinarsi a subentrare in una attività con solo scopo di utilità sociale». Tuttavia, alla luce della parte della motivazione precedentemente riportata, se ne deve concludere che si tratta di un’osservazione incidentale (peraltro, in sé corretta), d’intonazione astratta, che poteva anche essere omessa senza far cadere l’impianto della motivazione.
In altri termini, se differenza tra le due pronunce di primo e di secondo grado vi è, essa concerne l’esame e il rigetto del profilo della nullità del contratto (sollevato d’ufficio) . Per il resto si tratta di una diversità di accentuazioni, che sono evocate da una modulazione diversa del profilo fattuale attinente alla redditività economica dell’attività oggetto della cessione. In altre parole, la sentenza di primo grado riconosce che la gestione degli impianti di calcetto, pur avvenendo attraverso un’associazione no -profit, non escludeva la possibilità per i cessionari di trarne vantaggio economico. La sentenza di secondo grado precisa che il contratto non garantisse necessariamente tale redditività.
Infine, poiché si tratta di profili fattuali, vale richiamare che « Il giudicato interno non si determina sul fatto, ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza rappresentata da fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma
efficacia decisoria nell’ambito della controversia (così, Cass. 32563/2024). Nel caso di specie, in ordine alla sequenza fatto, norma ed effetto, le due pronunce sono del tutto allineate.
I primi due motivi sono rigettati.
2. -Il terzo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza d’appello per violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’omessa valutazione delle prove offerte riguardanti l’oggetto e la causa del contratto. I ricorrenti sostengono che la Corte di appello ha escluso, senza fondamento, la redditività della gestione degli impianti sportivi, trascurando sia le risultanze probatorie sia le ammissioni della controparte. Si evidenzia che, dagli atti e dalle testimonianze acquisite, emergeva chiaramente che la gestione ceduta avrebbe dovuto essere suscettibile di produrre utili, mentre in concreto ciò non era possibile per effetto di precise previsioni statutarie e normative. In particolare, il d.lgs. n. 460/1997, che disciplina le organizzazioni non profit, vieta la distribuzione, anche indiretta, di utili e avanzi di gestione, rendendo impossibile per i cessionari ottenere benefici economici leciti dall’attività. I ricorrenti affermano che tale aspetto era emerso in modo pacifico dalle risultanze processuali e dalle dichiarazioni della stessa controparte, la quale aveva più volte ammesso che la gestione dell’impianto era stata esercitata in passato con profitto. Il ricorso rileva che la Corte di appello ha ignorato questi elementi e ha deciso in contrasto con le stesse posizioni processuali delle parti.
Il terzo motivo è infondato.
A fondamento del giudizio di infondatezza, si possono innanzitutto richiamare integralmente le considerazioni già svolte nel rigettare i primi due motivi di ricorso, con i quali il terzo motivo condivide la forzatura logica di estrapolare l’affermazione che ci si può determinare a subentrare in un’attività in vista di uno scopo di utilità sociale .
È da aggiungere poi che il d.lgs. n. 460/1997 era stato correttamente richiamato e interpretato dalla sentenza di primo grado e rientra quindi fra le «statuizioni condivise» da parte della Corte di
appello. Il Tribunale richiama questa normativa in relazione allo statuto dell’Associazione RAGIONE_SOCIALE, gestore dell’impianto sportivo, osservando che il divieto di distribuzione di utili previsto dalla normativa di settore non impedisce di percepire ricavi dalla gestione dell’attività. Il giudice di primo grado sottolinea così che, sebbene l’associazione non possa distribuire profitti ai membri, ciò non esclude che l’attività gestionale generi entrate economiche.
Quanto alla censura di violazione dell’art. 115 c.p.c. val e ricordare che, a tal fine, occorre « allegare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli; mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 » (cfr. Cass. SU 20867/2020).
Il terzo motivo è rigettato.
3. – Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione di legge in relazione all’art. 115 c.p.c. e all’art. 1362 c.c., sostenendo che la Corte di a ppello ha errato nell’interpretazione del contratto. I ricorrenti affermano che, sia nelle argomentazioni processuali delle parti sia nelle risultanze probatorie, era pacifico che l’oggetto del contratto fosse il subentro in una gestione economicamente utile e non in un’attività priva di valore economico. Tale impostazione, secondo il ricorso, era stata accolta dal Tribunale di primo grado, che aveva ritenuto che il divieto statutario di distribuire utili non escludesse la possibilità di ottenere ricavi dalla gestione dell’impianto. I ricorrenti lamentano che la Corte di appello, pur avendo a disposizione elementi chiari sulla volontà contrattuale delle parti, abbia interpretato il contratto in modo distorto, ritenendo che il subentro potesse avvenire anche per solo scopo di utilità sociale. Essi evidenziano che tale interpretazione contraddiceva non solo la logica economica
dell’operazione, ma anche il contenuto stesso del contratto, che prevedeva un corrispettivo di € 110.000, incompatibile con un’attività priva di finalità economica. Si contesta, inoltre, che la Corte di appello abbia trascurato le prove testimoniali e documentali che confermavano la natura economica della gestione, in violazione del principio secondo cui l’interpretazione contrattuale deve tener conto del comportamento complessivo delle parti. Viene citata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nell’interpretare un contratto, si deve considerare il comportamento successivo delle parti e la comune intenzione manifestata, anche oltre il dato letterale dell’atto. I ricorrenti ritengono che la Corte d’ appello abbia quindi errato sia nel metodo interpretativo adottato, sia nella valutazione delle prove, con un’impostazione arbitraria e contrastante con il principio di corretto uso dell’autonomia contrattuale.
Il quarto motivo è infondato.
A fondamento del giudizio di infondatezza del quarto motivo, si possono richiamare integralmente le considerazioni già svolte nel rigettare i primi due motivi di ricorso, con i quali anche il quarto motivo condivide la forzatura logica di estrapolare l’affermazione che ci si può determinare a subentrare in un’attività in vista di uno scopo di utilità sociale . I ricorrenti esasperano differenze di accenti tra le pronunce di primo e di secondo grado con l’obiettivo, che nell’esposizione del quarto motivo risulta particolarmente evidente, di ottenere un ‘ ulteriore valutazione di merito dopo due pronunce conformi di rigetto.
4. -Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. in relazione al mancato utilizzo, a fini interpretativi, del contratto preliminare e delle dichiarazioni testimoniali. I ricorrenti sostengono che la Corte di appello ha errato nel ritenere ininfluente il contratto preliminare del 26/04/2007 e le prove testimoniali ammesse nel corso del giudizio d’appello, affermando che tali elementi non potessero essere utilizzati per qualificare il
contratto definitivo. Secondo i ricorrenti, la sentenza impugnata ha omesso di applicare correttamente il principio secondo cui l’interpretazione del contratto deve avvenire alla luce della volontà delle parti, considerando tutti gli elementi a disposizione, inclusi gli atti e il comportamento complessivo dei contraenti. Nel ricorso si evidenzia che il contratto preliminare faceva esplicito riferimento alla cessione di una struttura di calcetto con relative pertinenze e conteneva clausole tipiche di una ces sione d’azienda, tra cui un patto di non concorrenza. Tali elementi, a loro avviso, avrebbero dovuto essere presi in considerazione per stabilire la reale volontà contrattuale. Viene citata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la volontà delle parti è ricostruibile con ogni mezzo di prova e non può essere limitata al solo dato letterale del contratto definitivo. Inoltre, si richiama il principio secondo cui, nell’interpretazione di un contratto, è possibile utilizzare anche il contenuto del contratto preliminare, soprattutto quando quest’ultimo contenga elementi essenziali per comprendere il significato del successivo contratto definitivo. I ricorrenti contestano la decisione della Corte di appello di non attribuire alcuna rilevanza alle prove testimoniali, nonostante queste fossero state ritenute ammissibili nella fase istruttoria d’appello. A loro avviso, le testimonianze avrebbero confermato che le trattative vertevano sulla cessione di un’attività econo micamente utile e non sul semplice subentro in una gestione associativa priva di redditività. La Corte, ignorando tali risultanze, avrebbe travisato l’effettivo contenuto dell’accordo tra le parti e avrebbe fornito un’interpretazione arbitraria, priva di supporto nelle prove acquisite.
Il quinto motivo è rigettato.
In particolare, è da ribadire il principio di fondo che « Ove le parti, dopo aver stipulato un contratto preliminare, concludano il definitivo, questo non costituisce una mera ripetizione del primo, bensì l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al negozio, in quanto il preliminare resta superato dal definitivo, la cui disciplina può anche
non conformarsi alla disciplina del preliminare, salvo che i contraenti non abbiano espressamente previsto che quest’ultima sopravviva, sicché la presunzione di conformità del nuovo accordo rispetto alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta solo dalla prova di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo, dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenute nel preliminare, sopravvivano, dovendo tale prova essere data da chi chiede l’adempimento di questo distinto accordo (Cass. 9063/2012).
Per il resto, anche a sostegno del rigetto del quinto motivo, si richiamano le osservazioni già articolate nel rigettare i primi due motivi, insieme alla considerazione (già svolta nel rigettare il quarto motivo) che dietro alla censura di violazione di norme di diritto (in questo caso di quelle relative all’ermeneutica contrattuale) si scorge il tentativo di ottenere un terzo grado di merito.
5. -Il sesto motivo di ricorso denuncia la violazione di legge in relazione agli artt. 1325 e 1418 c.c., sostenendo che la Corte di appello ha errato nell’individuare la causa del contratto, confondendola con il suo oggetto. I ricorrenti affermano che la funzione economicosociale dell’accordo era quella di uno scambio tra utilità economiche, con il pagamento di un corrispettivo in cambio della gestione di un’attività produttiva di reddito. La Corte d i appello, invece, avrebbe erroneamente ricondotto la causa alla mera possibilità di subentrare nella gestione degli impianti sportivi, senza considerare la finalità economica dell’accordo. Secondo i ricorrenti, questa interpretazione è errata perché la causa di un contratto non può essere individuata nell’atto stesso del subentro, ma deve essere riferita alla ragione economica e giuridica che giustifica l’accordo. Sostengono che, se la gestione degli impianti non poteva generare utili a causa delle limitazioni imposte dalla normativa sulle associazioni no-profit, allora il contratto era privo di causa o comunque caratterizzato da una illiceità della causa stessa, i n quanto finalizzato a un’attività
incompatibile con il quadro normativo di riferimento. I ricorrenti richiamano la giurisprudenza secondo cui un contratto è nullo per mancanza di causa se l’operazione economica non è idonea a giustificare l’obbligazione assunta da una delle parti. Osservano che la stessa Corte di a ppello, nella fase istruttoria, aveva sollevato d’ufficio la questione della nullità per assenza o illiceità della causa, salvo poi ritenere che il subentro nella gestione fosse un fine giuridicamente valido, senza approfondire il problema della sostenibilità economica dell’accordo.
Il sesto motivo è rigettato.
Fa parte delle « condivise statuizioni del giudice di primo grado » (cfr. sentenza di appello, p. 6) -lo si ripete per maggior chiarezza l’accertamento (condivisibile) di un accordo « avente ad oggetto la cessione a titolo oneroso del diritto di gestire impianti sportivi di proprietà del Comune che a ciò ha abilitato soggetti privati attraverso la stipulazione di un’apposita convenzione, ammissibile in quanto teso a perseguire un interesse da ritenersi meritevole secondo l’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 1322 c.c., ossia, per l’appunto, la gestione attiva per finalità di utilità sociale (attività sportive) di impianti di proprietà pubblica (consentendo quindi una utilizzazione più dinamica, intensa e proficua grazie all’intervento di soggetti privati) a titolo oneroso » (così, sentenza di primo grado, p. 7).
Nella seconda parte di tale argomentazione, pur tesa all’essenziale, si distingue l’indicazione della causa rispetto a quella dell’oggetto dell’accordo ( cui ci si riferisce nella prima parte), laddove viceversa nell’argomentazione del motivo i ricorrenti mostrano di confondere la mancanza di causa del contratto con la valutazione dell’equilibrio economico dello scambio , del quale l’ordinamento giuridico è tenuto di regola a non preoccuparsi, trattandosi una valutazione rimessa all’autonomia delle parti .
Ciò è vero pur nel riconoscimento del ruolo espletato dalla nozione di causa concreta del contratto. Infatti, q uest’ultima impone al
giudice di verificare che il contratto sia diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, fungendo la meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti come limite all’esercizio dell’autonomia privata ( cfr. Cass. 22950/2015).
Infatti, se è vero che si tratta di verificare che il contratto sia idoneo ad espletare una funzione commisurata agli interessi che le parti perseguono, è altrettanto vero che il controllo operato dal giudice sul regolamento degli interessi voluto dalle parti è diretto a verificare essenzialmente che esso non contrasti con l’utilità sociale dell’iniziativa economica privata , garantita dall’ art. 41 co. 2 Cost. e non può essere esteso a sindacare l’adeguatezza delle clausole pattuite a garantire l’equilibrio delle prestazioni o le aspettative economiche di uno dei contraenti (cfr., fra le molte, Cass. 25047/2009).
In altre parole, è da distinguere tra la «giustizia contrattuale», intesa come conformità dell’assetto di interessi a principi generali dell’ordinamento e le valutazioni di convenienza economica, che rientrano nella sfera dell’autonomia privata. Nel caso di specie entra in gioco (in ipotesi) un a imprudente valutazione di quest’ultimo tipo, alla quale i ricorrenti cercano di rimediare attraverso un intervento giudiziale, che sarebbe improprio, tanto più che non si riscontra la presenza di fattori come la debolezza o la pressione economica che abbiano disturbato la formazione della volontà negoziale.
Il sesto motivo è rigettato.
6. -Il settimo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1458 e 1423 c.c., sostenendo che la Corte di appello ha erroneamente escluso la possibilità di risoluzione del contratto basandosi sul fatto che i ricorrenti avessero già corrisposto una parte significativa del prezzo pattuito. Secondo i ricorrenti, il pagamento parziale della somma di € 70.000 su € 1 10.000 non precludeva la possibilità di domandare la risoluzione del contratto, né costituiva una convalida implicita dello stesso. Essi contestano l’assunto della Corte di appello secondo cui il pagamento avrebbe
dimostrato la consapevolezza e l’accettazione della natura del contratto da parte degli acquirenti, affermando che la prestazione eseguita non poteva costituire acquiescenza a un contratto viziato. Richiamano la giurisprudenza secondo cui la risoluzione del contratto, ai sensi dell’art. 1453 c.c., può essere chiesta anche dopo l’esecuzione parziale della prestazione, e che l’effetto retroattivo della risoluzione, previsto dall’art. 1458 c.c., impone la restituzione delle somme già corrisposte. Sottolineano, inoltre, che l’art. 1423 c.c. esclude la possibilità di convalida per un contratto nullo, rendendo irrilevante il fatto che esso è stato eseguito in parte prima della scoperta del vizio. I ricorrenti evidenziano che, fino alla notifica del decreto ingiuntivo, avevano versato il corrispettivo pattuito secondo il piano di pagamento previsto, senza che ciò potesse essere interpretato come un’accettazione dell’invalidità dell’accordo. La Corte di appello, affermano, avrebbe dunque travisato il principio secondo cui il pagamento parziale non impedisce la richiesta di risoluzione, con conseguente violazione delle norme sopra richiamate.
Del settimo motivo è da dichiarare l’inammissibilità .
Censurata è la seguente parte della sentenza: «Non viene infatti in specie indicato, quale controprestazione del richiesto corrispettivo in denaro, alcun trasferimento di proprietà dell’impianto né cessione di azienda, produttiva di reddito, come prospettato da parte appellante al fine supportare la domanda di risoluzione del contratto. Il contratto menziona esclusivamente il subentro nell’attività di gestione (senza riferimento ad utilità economiche) – che è proprio ciò che è stato effettuato dai cessionari – dovendosi considerare, anzi, che gli stessi avevano, fino alla notifica del decreto opposto, corrisposto ai cedenti la maggior parte della somma pattuita (70.000 su 110.000 euro) per cui la domanda di risoluzione va rigettata ».
Alla luce di ciò, il settimo motivo mostra di non cogliere la ragione del rigetto della domanda di risoluzione (sulla sorte d ‘inammissibilità del motivo che non coglie la ratio, cfr., per tutte, Cass. 19989/2017).
La ratio si fonda sul l’inesistenza di un aliud pro alio, in linea con le « condivise statuizioni » della sentenza di primo grado. Infatti, il «per cui» che introduce la proposizione relativa che conclude il capo di sentenza citato si riferisce all’intera argomentazione espressa nel capoverso (e non già al semplice fatto della corresponsione della maggior parte del corrispettivo da parte dei cessionari): argomentazione che vale conferma del rigetto per inesistenza di un aliud pro alio.
Quanto alla commistione con il profilo relativo alla nullità (cfr. la censura di violazione dell’art. 1423 c.c.), quest’ultimo è comunque eliso dal rigetto del sesto motivo.
Il settimo motivo è inammissibile.
7 . -L’ottavo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione alla questione della riconoscibilità dell’errore da parte dei ricorrenti. Essi contestano la decisione della Corte di appello, che ha ritenuto che l’errore sulla redditività della gestione degli impianti fosse riconoscibile dai cessionari e che la loro condotta fosse indice di una carenza di diligenza. Secondo i ricorrenti, tale affermazione è errata e in contrasto con le risultanze processuali, poiché anche la sentenza di primo grado aveva riconosciuto la potenzialità economica della gestione oggetto di cessione. I ricorrenti sostengono che la Corte di appello abbia erroneamente attribuito ai cessionari la responsabilità di non aver verificato in modo adeguato la redditività dell’attività, senza considerare che l’errore era dovuto alla condotta dei cedenti, i quali avrebbero presentato la gestione come economicamente vantaggiosa. Essi evidenziano che la stessa controparte, sia in primo grado sia in appello, aveva sostenuto che la gestione era astrattamente produttiva di utili, circostanza che rendeva l’errore non solo scusabile, ma anche determinante per il consenso negoziale. Nel ricorso si richiama il principio secondo cui la riconoscibilità dell’errore deve essere valutata alla luce delle concrete circostanze del caso, tenendo conto delle informazioni fornite dalla controparte e della possibilità, per il soggetto che lo subisce, di rilevarlo con
un’ordinaria diligenza. I ricorrenti affermano che la Corte d i appello ha omesso di considerare questi elementi e ha basato la sua decisione su un presupposto errato, secondo cui gli acquirenti avrebbero dovuto autonomamente accertare la reale situazione economica della gestione prima di sottoscrivere il contratto.
Il motivo è inammissibile.
Infatti, la ratio della decisione di rigetto della domanda di annullamento risiede (sulla base di quanto si è ampiamente argomentato finora, a partire dal rigetto dei primi due motivi di ricorso ) sull’assenza del vizio del consenso, non sull’accertamento d ella non riconoscibilità di un errore essenziale.
8. – Il nono motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., sostenendo che la Corte di appello ha omesso di motivare adeguatamente in merito ai motivi d’appello inerenti all’annullabilità del contratto per errore essenziale. I ricorrenti affermano che la Corte territoriale si sia limitata a riproporre la motivazione della sentenza di primo grado, senza esaminare concretamente le censure avanzate nell’atto d’appello. Essi evidenziano che la Corte di appello ha respinto le doglianze degli appellanti, affermando che le espressioni usate nel contratto erano chiare e che il riferimento alla convenzione stipulata con il Comune escludeva ogni possibilità di errore. Tale affermazione, secondo i ricorrenti, non tiene conto delle prove offerte e delle circostanze di fatto che dimostravano l’erronea rappresentazione della redditività della gestione. I ricorrenti contestano la mancata considerazione della loro argomentazione secondo cui i cedenti avevano piena consapevolezza della reale natura della gestione e che l’impossibilità di ottenere utili era determinata dalla normativa applicabile alle associazioni no-profit. Viene sottolineato che la Corte non ha esaminato i motivi di gravame relativi alla scusabilità dell’errore, limitandosi a richiamare il principio per cui il cattivo uso dell’autonomia privata non è tutelato dall’ordinamento. Secondo i ricorrenti,
questa motivazione è solo apparente e non si confronta con gli specifici rilievi formulati in appello, violando così il dovere del giudice di motivare adeguatamente le proprie decisioni.
Il nono motivo è rigettato.
Il vizio di motivazione apparente non sussiste. A fondamento di ciò, cioè del giudizio che la motivazione della Corte di appello è effettiva, risoluta e coerente, è sufficiente rinviare agli ampi stralci della motivazione riportati indietro, nel paragrafo n. 1, nell’esaminare i primi due motivi di ricorso.
– Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Inoltre, ai sensi dell’art. 13 co. 1 -quater d.p.r. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo uni ficato a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a rimborsare alla parte controricorrente le spese del presente giudizio, che liquida in € 4.000 , oltre a € 200 per esborsi, alle spese generali, pari al 15% sui compensi, e agli accessori di legge.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, ad opera della parte ricorrente, di un’ulteriore somma pari a quella prevista per il ricorso a titolo di contributo unificato, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 29/01/2025.