Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9047 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 9047 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 6696-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente principale –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
ricorrente incidentale nonché contro
RAGIONE_SOCIALE
ricorrente principale -controricorrente incidentale avverso la sentenza n. 206/2024 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 19/01/2024 R.G.N. 1817/2023;
Oggetto
Cessione del contratto di lavoro
R.G.N. 6696/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 04/02/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/02/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Rilevato che:
La Corte d’appello di Roma ha accolto il reclamo principale di NOME COGNOME e, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli il 25 giungo 2019 dalla RAGIONE_SOCIALE risolto il rapporto di lavoro tra le parti ed ha condannato la società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, ai sensi dell’art. 18, comma 5, L. 300 del 1970 come modificata dalla L. 92 del 2012.
2. La Corte territoriale ha premesso che il COGNOME aveva lavorato dal 23.2.1987 al 31.3.2016, alle dipendenze della S.p.A. Il Messaggero, da ultimo quale addetto all’archivio redazionale e componente della segreteria di redazione; che nel 2016 (con decorrenza 1.4.2016) Il Messaggero lo aveva ceduto alla consociata RAGIONE_SOCIALE, appositamente costituita, nell’ambito del trasferimento dei servizi generali della redazione; che egli aveva impugnato la cessione del contratto, per difetto dei presupposti di cu i all’art. 2112 c.c., nei confronti di entrambe le società, pur continuando a prestare attività alle dipendenze della cessionaria; che quest’ultima, il 1° giugno 2017, lo aveva licenziato una prima volta nell’ambito di un licenziamento collettivo; che il Tribunale di Roma (sentenza 2623/19), adito dal COGNOME, aveva annullato tale licenziamento ordinando a RAGIONE_SOCIALE di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro (la sentenza del tribunale è stata confermata in appello -sentenza 3431/19- e in Cassazione -sentenza 3076/22-); che il COGNOME non è riuscito a riprendere servizio dopo tali pronunce; che nelle more il Tribunale di Roma (sentenza 4783/19) aveva accolto
anche l’impugnativa della cessione del contratto, dichiarando mai validamente interrotto il rapporto di lavoro con la cedente Il Messaggero, alla quale aveva ordinato di reintegrare in servizio il COGNOME; che detta sentenza è stata confermata dalla Corte d’appello di Roma (sentenza 2827/22) e che è pendente il ricorso per cassazione; che RAGIONE_SOCIALE, dopo l’annullamento del primo licenziamento (collettivo), ha avviato la procedura per intimare un secondo licenziamento (individuale), dichiarando risolto di diritto il rapporto per effetto dell’accertata illegittimità della cessione di azienda in difetto dei requisiti di cui all’art. 2112 c.c.; che questo secondo licenziamento di RAGIONE_SOCIALE è oggetto del presente giudizio.
3. La Corte d’appello ha accertato che il COGNOME ha effettivamente svolto attività lavorativa alle dipendenze di RAGIONE_SOCIALE dal 1° aprile 2016 al 1° giugno 2017. Ha ritenuto che, in mancanza di giudicato sulla invalidità della cessione, il rapporto di lavoro con la cessionaria fosse ancora in essere; che la missiva del 4 giugno 2019, inviata da quest’ultima al COGNOME, sebbene contenente una formale ‘presa d’atto’ da parte della società della risoluzione di diritto del rapporto di lavoro in conseguenza della dichiarata illegittimità della cessione del relativo contratto da RAGIONE_SOCIALE alla RAGIONE_SOCIALE, dovesse essere qualificata come manifestazione di volontà di non avvalersi più della prestazione del lavoratore e quindi come atto di licenziamento; che quest’ultimo risultava privo di qualsiasi giustificato motivo o giusta causa e dunque illegittimo; che la riconducibilità del rapporto di lavoro con la cessionaria all’art. 2126 c.c. impedisse l’applicazione della tutela ripristinatoria, con conseguente applicazione della sola tutela indennitaria di cui al novellato art. 18, comma 5.
Avverso la sentenza RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. NOME COGNOME ha resistito con controricorso e ricorso incidentale con un motivo. La società ha depositato controricorso al ricorso incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che:
Ricorso principale della RAGIONE_SOCIALE
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 18, L. 300 del 1970 come modificato dalla L. 92 del 2012, per avere la Corte d’appello erroneamente sussunto nell’alveo della disciplina del licenziamento una comunicazione con cui la società si limitava a ‘prendere atto’ della dichiarazione di nullità e di inefficacia ex tunc della cessione del rapporto di lavoro del COGNOME, della conseguente ricostituzione ex tunc di tale rapporto (mai interrotto) in capo alla cedente e della corrispondente degradazione ex tunc dell’attività lavorativa svolta alle dipendenze della cessionaria in rapporto di mero fatto, concluso all’esito della richiesta, rivolta dal COGNOME medesimo alla cedente, di ripristino dell’originario rapporto. La società assume che se il lavoratore avesse inteso proseguire anche di fatto il rapporto parallelo con la cessionaria, a prescindere dalla materiale incompatibilità derivante dall’impossibilità oggettiva di rendere contemporaneamente due autonome prestazioni di lavoro dipendente nei confronti di due soggetti diversi, non avrebbe rivolto (o dovuto rivolgere) formalmente anche alla cedente la richiesta di reintegra.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 1453, 1456, 1457, 1463, 1467, 2112 e 1418, per avere la Corte d’appello illegittimamente preso in esame le ipotesi di risoluzione, non solo ipso jure, previste dalle citate disposizioni del codice civile, sebbene la società avesse, con la domanda riconvenzionale proposta in primo grado (questione riproposta ex art. 346 c.p.c. in sede di reclamo), chiesto la declaratoria della risoluzione di diritto (o per mutuo consenso) del rapporto di lavoro inter partes.
Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso rappresentato dalla risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, desumibile dalla richiesta di reintegra alle dipendenze della cedente avanzata dal lavoratore dopo la declaratoria di nullità della cessione del suo contratto, come prospettato dalla società sin dalla memoria di costituzione nella fase sommaria.
Ricorso incidentale di NOME COGNOME
Con il motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’articolo 2126 c.c., dell’articolo 30 della Carta di Nizza, degli artt. 1, 4, 35 e 24 Cost., per avere la Corte d’appello escluso che al rapporto lavorativo di fatto con la cessionaria potessero applicarsi le disposizioni in materia di licenziamento, per il periodo successivo alla dichiarazione giudiziale di illegittimità della cessione, sul presupposto errato della nullità di tale rapporto. Il ricorrente incidentale contesta che il rapporto proseguito di fatto con la cessionaria rientrasse nella previsione dell’art. 2126 c.c. che presuppone il carattere illecito del rapporto medesimo.
Preliminarmente, deve darsi atto che, dopo la notifica del ricorso per cassazione, è divenuta irrevocabile la sentenza della Corte d’appello di Roma (n. 2827/22) che ha dichiarato illegittima la cessione, da Il Messaggero a RAGIONE_SOCIALE, del contratto di lavoro del RAGIONE_SOCIALE La Corte di cassazione, con ordinanza n. 20083 del 2024 (allegata e depositata con la memoria della società), ha respinto il ricorso delle due società.
Il giudicato esterno così formatosi tra le stesse parti è ostativo all’esame dei motivi del ricorso principale. Difatti, per effetto di tale giudicato, deve ritenersi ripristinato de iure e con effetti ex tunc il rapporto di lavoro del RAGIONE_SOCIALE con la società cedente RAGIONE_SOCIALE, con conseguente qualificazione del rapporto di lavoro svolto con la società cessionaria come rapporto di mero fatto, ai sensi dell’art. 2126 c.c. (v. Cass., S.U., n. 2990 del 2018; Cass. n. 21158 del 2019; n. 35982 del 2021; n. 14712 del 2024).
Questa Corte ha chiarito che l’equiparazione del contratto di lavoro invalido a quello valido, disposta dall’art. 2126 cod. civ., è limitata agli effetti retributivi del lavoro già prestato e non è idonea a fondare pretese conservative del lavoratore, onde, finita l’esecuzione delle prestazioni lavorative, non trova applicazione la tutela contro i licenziamenti illegittimi (Cass. n. 24247 del 2007; v. anche Cass. n. 7586 del 2018; n. 21884 del 2016), nella specie invece riconosciuta dalla Corte d’appell o sotto forma di indennità risarcitoria di cui al novellato art. 18, comma 5.
Per effetto del giudicato esterno intervenuto, decidendo sul ricorso principale e assorbito il ricorso incidentale, deve quindi cassarsi la sentenza impugnata, con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che provvederà anche alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte, decidendo sul ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per la