Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5073 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 5073 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21545/2020 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona dell’amministratore unico NOME COGNOME, domiciliata ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE per procura in calce al ricorso,
-ricorrente-
contro
COMUNE di COGNOME E RAGIONE_SOCIALE COGNOME, già COMUNE di COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO COGNOME INDIRIZZO COGNOME INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE per procura in calce al
contro
ricorso, avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di FIRENZE n.2753/2019 depositata il 20.11.2019. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18.2.2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con citazione notificata il 3.11.2010 la RAGIONE_SOCIALE conveniva innanzi al Tribunale di Firenze il Comune di Figline Valdarno, ora Comune di Figline e Incisa Valdarno. L’attrice deduceva di aver ceduto con due rogiti notarili del 22.3.1998 alcuni terreni al predetto Comune, per evitarne l’espropriazione nell’ambito di un procedimento che sarebbe stato avviato dall’Amministrazione convenuta al fine di realizzare un’area a verde pubblico attrezzato secondo le previsioni dell’allora vigente P.R.G.. Tuttavia, il Comune, dopo l’acquisto dei terreni non aveva poi realizzato detta area di verde pubblico attrezzato e, con successivo P.R.G. del 2000, i terreni erano stati destinati ad edificazione industriale e quindi alienati dal Comune a terzi. Pertanto, l’attrice, avendo invano richiesto il 3.2.1998 al Comune la retrocessione dei terreni, e l’11.6.2009 la corresponsione del loro valore venale, con rivalutazione monetaria ed interessi, per la mancata restituzione, domandava giudizialmente la condanna del Comune convenuto al pagamento del valore venale degli immobili ceduti oltre accessori, indicato in €1.975.000,00.
Costituendosi in giudizio, l’Amministrazione comunale eccepiva l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2947 cod. civ., e deduceva comunque l’infondatezza della domanda attorea, in quanto gli
atti di trasferimento dei terreni del 22.3.1988 erano da qualificare come compravendite ordinarie e non come cessioni bonarie, per cui da essi non poteva derivare alcun diritto alla retrocessione per mancata utilizzazione dei terreni per il fine pubblico della realizzazione del verde pubblico attrezzato, dalla cui violazione potesse scaturire un diritto al risarcimento danni dell’attrice.
L’attrice replicava che l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento danni era infondata, in quanto il relativo termine doveva essere fatto decorrere dall’accertamento, con sentenza passata in giudicato, dell’impossibilità sopravvenuta della retrocessione, per vendita a terzi dei terreni inutilizzati per il fine pubblico, e con la memoria ex art. 183, comma 5° c.p.c., chiedeva al Giudice adito, di accertare il suo diritto alla retrocessione dei terreni ceduti al Comune rimasti inutilizzati per il fine pubblico e di ordinarne il ritrasferimento in suo favore, o in subordine, in ipotesi di accertata impossibilità sopravvenuta della retrocessione, la condanna del Comune al pagamento della somma quantificata dal CTP, già indicata in citazione, corrispondente al valore venale dei terreni medesimi.
Il Tribunale di Firenze, con la sentenza n. 2589/2014, dichiarava inammissibili le domande avanzate dall’attrice per la prima volta in sede di memoria ex art. 183 comma 5° c.p.c., considerandole domande nuove tardivamente avanzate, e respingeva l’eccezione di prescrizione sollevata dal convenuto, in quanto il termine per far valere il diritto al risarcimento danni per l’impossibilità sopravvenuta della retrocessione doveva essere fatto decorrere dall’accertamento con sentenza passata in giudicato di tale impossibilità, nella specie non ancora avvenuto. Nel merito, la sentenza di primo grado rigettava la domanda risarcitoria,
ritenendo di dover qualificare gli atti stipulati tra le parti il 22.3.1998, non come cessioni volontarie, bensì come ordinarie compravendite, con conseguente irrilevanza della mancata realizzazione dell’opera pubblica programmata, non essendovi prova dell’avvio di un subprocedimento di determinazione dell’indennità di esproprio, né dell’offerta amministrativa di tale indennità.
Avverso tale sentenza proponeva appello principale la RAGIONE_SOCIALE lamentando che il Giudice di prime cure non avesse correttamente qualificato i due rogiti del 1998 come cessioni bonarie in pendenza di procedura di esproprio, legittimanti il risarcimento del danno a fronte dell’inadempimento del Comune all’obbligo di retrocessione. Inoltre, l’appellante esponeva, che la richiesta di accertamento della retrocessione, erroneamente ritenuta domanda nuova, costituiva una mera precisazione della domanda risarcitoria originaria, necessaria all’esito dell’eccezione sollevata dal convenuto nella comparsa di costituzione e risposta, per cui il Tribunale aveva errato nel dichiararne l’inammissibilità, trattandosi di un ‘emendatio libelli consentita nella memoria ex art. 183 comma 5° c.p.c. .
Resisteva al gravame il Comune di Figline e Incisa Valdarno, chiedendo la conferma della sentenza impugnata e proponeva appello incidentale, condizionato all’accoglimento dell’appello principale, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già rassegnate in primo grado e dell’eccezione di prescrizione.
Con la sentenza n. 2753/2019 del 24.9/20.11.2019, la Corte di Appello di Firenze rigettava l’appello principale, dichiarava assorbita l’impugnazione incidentale, con integrale conferma della pronuncia gravata, e condannava parte appellante alle spese processuali di secondo grado.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso a questa Corte, sulla scorta di tre motivi, ed il Comune di Figline e Incisa Valdarno ha resistito con controricorso.
Nell’imminenza dell’adunanza camerale entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Col primo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1°, nn. 3) e 4) c.p.c., la ricorrente lamenta la nullità della sentenza di primo grado e la conseguente nullità derivata della sentenza di appello per violazione dell’art. 111 Cost. e per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 101 e 183 c.p.c.. La Corte territoriale, confermando quanto statuito sul punto dal Giudice di prime cure, avrebbe erroneamente ritenuto inammissibile le domande formulate con la memoria ex art. 183 comma 5° c.p.c., omettendo di rilevare che le stesse costituivano una mera specificazione della domanda risarcitoria formulata nell’atto introduttivo, attinente alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, in tal modo violando il suo diritto di difesa.
Col secondo motivo, articolato in relazione all’art. 360, comma 1°, n. 3) c.p.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e/o errata interpretazione degli artt. 2700 cod. civ., 1362 e ss. cod. civ., (in particolare l’art. 1367 cod. civ.), 2730 e ss. cod. civ., nonché la violazione degli articoli 116 c.p.c., 1325 cod. civ., 112, 113 e 115 c.p.c. La Corte d’Appello avrebbe erroneamente negato la natura di cessione bonaria dei trasferimenti dei terreni effettuati dalla ricorrente a favore del Comune con gli atti del notaio NOME COGNOME il 22.3.1988, rep. 1004 e 1005, omettendo di considerare che gli atti pubblici in forza dei quali erano avvenuti costituivano essi stessi prova legale delle cessioni bonarie in essi indicate fino a querela di falso, che una delle clausole contrattuali, quella che prevedeva l’esenzione Invim,
operava un riconoscimento esplicito della natura di cessione bonaria nell’ambito di una procedura espropriativa, e che detta natura era stata confessata dallo stesso Comune nella comparsa di costituzione e risposta in entrambi i gradi di giudizio.
Col terzo motivo, ai sensi dell’art. 360, comma 1°, nn. 3), 4) e 5) c.p.c., la ricorrente denuncia la violazione e/o errata interpretazione dell’art. 12 della L.n. 865/1971, la violazione degli artt. 60 e 63 della L. n. 2359/1865, la violazione e/o errata interpretazione degli artt. 1362 e ss. cod. civ., la violazione degli artt. 112, 113 e 115 c.p.c., nonché la nullità della sentenza per travisamento della prova e/o per omesso esame di un fatto decisivo. Nel ritenere insussistenti i presupposti necessari al riconoscimento della natura di cessione bonaria dei contratti stipulati dalle parti, la Corte territoriale sarebbe incorsa nel travisamento di fatti e documenti, con conseguente violazione della normativa in materia di espropri.
Ritiene la Corte che debba essere preliminarmente esaminato il secondo motivo di ricorso, attinente alla qualificazione dei contratti stipulati dalle parti a rogito del notaio NOME COGNOME il 22.3.1988, rep. 1004 e 1005, ed aventi ad oggetto terreni trasferiti dalla RAGIONE_SOCIALE al Comune di Figline Valdarno, asseritamente nell’ambito di una procedura espropriativa del suddetto Comune, ma poi non adibiti a verde pubblico attrezzato, come semplici compravendite, e non, come auspicato dalla attuale ricorrente, come cessioni bonarie in senso tecnico, con conseguente esclusione in motivazione del diritto della ricorrente alla retrocessione, e rigetto nel dispositivo della domanda avanzata nell’originaria citazione di risarcimento del danno subito dalla RAGIONE_SOCIALE per la mancata retrocessione dei terreni inutilizzati e venduti dal Comune a terzi.
Ciò in quanto il primo motivo di ricorso verte sulla questione processuale della correttezza o meno dell’inammissibilità dichiarata
in primo grado, e confermata in appello, delle domande di accertamento del diritto dell’originaria attrice alla retrocessione dei terreni trasferiti con quegli atti al Comune, e non utilizzati a verde pubblico attrezzato, e conseguente ritrasferimento di essi, o di accertamento della sopravvenuta impossibilità della retrocessione, dovuta al trasferimento dei terreni inutilizzati a fine pubblico a terzi, perché ritenute frutto di una mutatio libelli non consentita nella memoria ex art. 183 comma 5° c.p.c., e quindi su una questione di carattere preliminare. Nondimeno, l’interesse della ricorrente ad ottenere la cassazione sul punto della sentenza di secondo grado, presuppone preliminarmente che sia riconosciuta la fondatezza del suo secondo motivo, inerente alla ritenuta insussistenza dei presupposti per la retrocessione, che la Corte d’Appello, nonostante la conferma della pronuncia d’inammissibilità del Tribunale di Firenze sulle domande aggiuntive proposte nella memoria ex art. 183 comma 5° c.p.c., ha valutato al fine di esprimersi sulla fondatezza, o meno della domanda risarcitoria tempestivamente avanzata dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti del Comune nell’originaria citazione. Nessuna utilità, infatti, potrebbe trarre la ricorrente da una cassazione con rinvio concernente le suddette domande aggiuntive, se fosse confermata, con sentenza di questa Corte passata in giudicato, la qualificazione degli atti di trasferimento in questione, come mere compravendite e non come cessioni bonarie, in quanto tale preclusiva della retrocessione, e determinante quindi il rigetto della domanda risarcitoria ab origine avanzata dalla RAGIONE_SOCIALE
La Corte d’Appello ha riconosciuto in astratto che il diritto al risarcimento del danno per l’impossibilità della retrocessione dei beni che siano stati acquisiti dall’ente pubblico mediante formale provvedimento di esproprio, o mediante lo strumento alternativo della cessione bonaria, compete al precedente proprietario dei beni quando l’opera di pubblico interesse non sia stata realizzata, ma ha
poi negato in concreto tale diritto, ritenendo che i contratti stipulati dalle parti a rogito del notaio NOME COGNOME il 22.3.1988, rep. 1004 e 1005, fossero delle normali compravendite inidonee a fare sorgere il diritto dell’attrice alla retrocessione, e non degli atti di cessione bonaria in senso tecnico.
In particolare il giudice di secondo grado ha negato l’esistenza di atti di cessione bonaria, in quanto ha ritenuto non provati, alla data dei rogiti in questione, l’avvio del subprocedimento per la determinazione dell’indennità di esproprio e l’offerta amministrativa dell’indennità, che ne costituiscono un requisito essenziale, non potendosi poi ricavare la pendenza del procedimento espropriativo dalla semplice dichiarazione di pubblica utilità dell’opera realizzanda (Cass. n. 5390/2006), ed in quanto la documentazione prodotta dalla RAGIONE_SOCIALE si riferiva all’opera pubblica della discarica, pacificamente poi realizzata dal Comune, e non all’opera pubblica del verde pubblico attrezzato poi non realizzata. La Corte d’Appello ha poi ritenuto, che la clausola dei contratti relativa all’esenzione Invim non potesse indurre a considerare i rogiti in questione come cessioni bonarie, in quanto negli atti stessi i trasferimenti erano indicati come effettuati a titolo transattivo bonario onde evitare la procedura espropriativa, e si trattava di accordi ai quali le parti erano liberamente addivenute con una trattativa privata. Esaminando poi la delibera n. 59 del 9.2.1983 e la delibera n. 814 dell’11.8.1986 della Giunta municipale del Comune di Figline Valdarno, il giudice di secondo grado ha evidenziato che con la prima é stato approvato il progetto tecnico esecutivo relativo ai lavori di costruzione delle opere di urbanizzazione con connessa stima dei costi a carico dell’amministrazione a titolo di presunte e future indennità, ma non é stata determinata l’indennità di esproprio, né si é dato avvio al subprocedimento per la determinazione dell’indennità, e che
neppure la seconda ha offerto prova dell’apertura di un subprocedimento di corresponsione delle indennità di esproprio.
La ricorrente, col secondo motivo, assume che sia stato violato l’art. 2700 cod. civ. sulla pubblica fede degli atti pubblici, per la mancata considerazione degli atti del notaio COGNOME del 22.3.1988 come cessioni bonarie, in quanto nei rogiti in questione é scritto testualmente ‘ la compravendita é esente dall’imposta Invim ex Dpr 643/73 trattandosi di trasferimenti a titolo transattivo bonario eseguito onde evitare la procedura espropriativa ‘, e l’art. 2 ultimo comma del D.P.R. 26.10.1972 n. 643 stabilisce che l’Invim non si applica all’atto del trasferimento solo a seguito di espropriazione per pubblica utilità o della cessione all’espropriante in caso di procedura espropriativa per pubblica utilità. Ulteriormente la ricorrente assume che l’impugnata sentenza, di fronte alla clausola testuale generica ed equivoca sopra riportata, l’avrebbe dovuta interpretare in relazione al contesto (art. 1363 cod. civ.) per consentirle di avere qualche effetto (art. 1367 cod. civ.), anziché interpretare il richiamo alla normativa fiscale come mera clausola di stile.
Tale doglianza non ha pregio, in quanto l’impugnata sentenza ha plausibilmente privilegiato, anziché il richiamo alla normativa di agevolazione fiscale, di per sé estraneo al programma negoziale, il dato letterale del riferimento ad un trasferimento bonario a titolo transattivo finalizzato ad evitare preventivamente l’intera procedura espropriativa, e soprattutto ha qualificato gli atti di trasferimento come compravendite in conformità alla loro intitolazione, e non come cessioni bonarie, in quanto ha ritenuto mancante il requisito essenziale della cessione bonaria, rappresentato dall’avvio del subprocedimento di determinazione dell’indennità di esproprio e dall’offerta all’originaria attrice di quell’indennità, attraverso un’interpretazione complessiva degli atti di trasferimento ex art. 1363 cod. civ., che esclude il ricorso
all’invocato criterio interpretativo sussidiario dell’art. 1367 cod. civ..
La giurisprudenza di questa Corte é, del resto, da tempo consolidata nell’affermare che ‘ la cessione volontaria costituisce un contratto c.d. ad oggetto pubblico, che si inserisce necessariamente nell’ambito del procedimento di espropriazione, che l’espropriando ha il diritto di convenire in seguito ad un subprocedimento predisposto dall’art.12 della legge 865-1971 e ad un prezzo pur esso predeterminato in base a criteri inderogabili stabiliti dalla legge che costui può soltanto accettare (o rifiutare); e che ha anche l’effetto di porre termine al procedimento, eliminando la necessità dell’emanazione del decreto di espropriazione (richiesto, invece, nel caso di mancata accettazione dell’offerta) e dello svolgimento del subprocedimento di determinazione dell’indennità definitiva’ (Cass. 11.3.2006 n. 5390; Cass. 21.11.2003 n. 17709; Cass. n.17102/2002; Cass. n. 8970/2001; Cass. n.14901/2000). Da questo inquadramento la giurisprudenza consolidata di questa Corte (Cass. n. 11435/1999; Cass. n.4759/1998; Cass. n. 2513/1994) desume, che gli elementi costitutivi indispensabili per configurare la cessione volontaria, o bonaria, che valgono altresì a differenziarla dalla compravendita di diritto comune sono:
l’inserimento del contratto nell’ambito di un procedimento espropriativo del quale, dunque, la cessione costituisce un momento avente la funzione di conseguirne il risultato peculiare (acquisizione della proprietà dell’immobile all’espropriante) con uno strumento alternativo di natura privatistica;
la preesistenza nell’ambito del procedimento non solo della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera realizzanda, ma anche del subprocedimento di determinazione dell’indennità da parte dell’espropriante che deve essere da quest’ultimo offerta e
dall’espropriando accettata con la sequenza e le modalità previste dal menzionato art. 12;
c) il prezzo per il trasferimento volontario del fondo deve correlarsi in modo vincolante ai parametri di legge stabiliti per la determinazione dell’indennità spettante per la sua espropriazione, dai quali non è possibile in alcun modo discostarsi.
Ulteriormente questa Corte ha chiarito, che la cessione volontaria degli immobili, prevista nell’art. 12 della legge 22 ottobre 1971, n.865, si inserisce nel procedimento espropriativo e ne sostituisce la fase concernente l’emissione del decreto di esproprio, in luogo del quale interviene l’accordo di cessione tra il titolare del diritto di esproprio e l’espropriato, per cui si tratta di un contratto pubblicistico la cui connotazione caratteristica consiste nel fatto che il trasferimento volontario si correla in modo vincolante ai parametri di legge stabiliti per l’indennità dovuta per l’ablazione, dai quali non è possibile in alcun modo distaccarsi (vedi Cass. 3.4.2024 n. 8835; Cass. 16.3.1994 n. 2513).
Ne deriva che in mancanza dei requisiti essenziali della lettera b) sopra riportata, e addirittura in assenza di una procedura espropriativa dei terreni per la realizzazione di verde pubblico attrezzato, non sostituita dalla mera dichiarazione di pubblica utilità insita nell’approvazione del progetto di realizzazione del livellamento di alcune aree di cui alla delibera della Giunta Municipale n. 814 dell’11.8.1986, i rogiti in esame non potevano essere qualificati come cessioni bonarie.
Va aggiunto che in materia contrattuale é rimesso all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua e corretta motivazione, lo stabilire se una determinata clausola contrattuale sia soltanto di stile ovvero costituisca espressione di una concreta volontà negoziale con efficacia normativa del rapporto (Cass. 2.9.2009 n.19104; Cass. n. 2896/1968).
Ulteriormente la ricorrente sostiene, sempre col secondo motivo, che il Comune di Figline ed Incisa Valdarno abbia confessato che i rogiti in questione fossero delle cessioni bonarie nel senso tecnico sopra indicato, avendo indicato a pagina 6 della comparsa di risposta del giudizio di primo grado che ‘ Successivamente all’acquisizione delle aree e alla realizzazione dei lavori si rendeva necessaria la modifica del Piano Regolatore Generale: tale modifica interessava anche la destinazione urbanistica delle aree che erano state oggetto della cessione bonaria con la RAGIONE_SOCIALE ripetendo il concetto ancora a pagina 8 del medesimo atto, ed alle pagine 5 e 6 della comparsa di costituzione in appello.
In realtà con quella frase, che la ricorrente estrapola dal contesto, il Comune di Figline ed Incisa Valdarno non ha parlato di cessione bonaria nel senso tecnico individuato dalla giurisprudenza di questa Corte sopra richiamata, ed ha impiegato quel termine solo per riferirsi ai trasferimenti di proprietà avvenuti in suo favore a titolo convenzionale e non in virtù di un decreto di esproprio, posto che già nel giudizio di primo grado il suddetto Comune, oltre ad eccepire infondatamente la prescrizione del diritto di parte attrice al risarcimento del danno, aveva sostenuto che lo stesso non potesse essere preteso dalla RAGIONE_SOCIALE perché gli aveva trasferito la proprietà dei terreni oggetto di causa con comuni atti di compravendita conclusi a trattativa privata e debitamente autorizzati, senza ricorrere a procedure espropriative, e non mediante cessioni bonarie in senso tecnico, che permettessero all’attrice di invocare la retrocessione per la mancata realizzazione dell’opera pubblica.
Quanto alle violazioni degli articoli 115 e 116 c.p.c., anch’esse lamentate col secondo motivo, negata la sussistenza di una confessione del Comune nel senso auspicato dalla ricorrente, é sufficiente richiamare la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c.,
occorre denunciare che a fondamento della decisione siano state poste prove non introdotte dalle parti, ma disposte dal giudice di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio; per dedurre la violazione dell’art. 116 c.p.c., invece, occorre allegare che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (vedi in tal senso Cass. 21.6.2024 n. 17157; Cass. sez. un. 30.9.2020 n. 20867).
Una volta respinto il secondo motivo di ricorso, viene meno, come anticipato, l’interesse della ricorrente all’accoglimento del primo motivo.
Si può infatti convenire con la ricorrente nel senso che la proposizione nella memoria ex art. 183 comma 5° c.p.c. (all’epoca vigente), da parte della Incisana RAGIONE_SOCIALE, delle domande di accertamento del diritto dell’originaria attrice alla retrocessione dei terreni trasferiti con gli atti a rogito del notaio NOME COGNOME il 22.3.1988, rep. 1004 e 1005, al Comune di Figline Valdarno, e non utilizzati a verde pubblico attrezzato, e conseguente ritrasferimento di essi, o di accertamento della sopravvenuta impossibilità della retrocessione dovuta al trasferimento a terzi dei terreni inutilizzati
a fine pubblico, costituente una mera esplicitazione dei presupposti della domanda risarcitoria avanzata fin dall’atto di citazione, fosse una mera emendatio libelli, da ritenersi consentita, e non una mutatio libelli vietata (vedi in tal senso Cass. 7.6.2020 n. 18546; Cass. sez. un. 13.9.2018 n. 22404, ampliativa di Cass. sez. un. 15.6.2015 n.12310, sull’ammissibilità delle domande complanari sia sostitutive che aggiuntive delle domande originarie avanzate nella memoria ex art. 183 comma 5° c.p.c. vecchia formulazione, o nell’art. 183 comma 6° n. 1) c.p.c. nuova formulazione, purché legate ad un’unica vicenda sostanziale, anche se modificative del petitum e della causa petendi ). Nondimeno, poiché per valutare la fondatezza della domanda risarcitoria avanzata in citazione, é stato definitivamente accertato che i trasferimenti compiuti dalla ricorrente con gli atti notarili summenzionati, erano mere compravendite e non cessioni bonarie, con conseguente esclusione fin da principio, e non per la vendita a terzi dei terreni, del diritto di retrocessione della ricorrente, nessun interesse può avere la RAGIONE_SOCIALE ad ottenere la cassazione con rinvio della dichiarata inammissibilità di quelle domande, che non potrebbe consentirle di ottenere la retrocessione, né la restituzione dei terreni venduti, o il risarcimento dei danni ormai definitivamente negatole.
Il terzo motivo é palesemente inammissibile, in quanto, ipotizzando un travisamento della prova contenuta nella delibera n. 814 del 1986 della Giunta municipale del Comune di Figline Valdarno, che é stata plausibilmente valutata dalla Corte d’Appello come mera prova dell’approvazione del progetto tecnico esecutivo dei lavori di sistemazione della discarica inerti, valevole come dichiarazione di pubblica utilità di quel progetto, la cui attuazione, secondo gli intendimenti dell’epoca del Comune, sarebbe servita a livellare le fosse presenti nella zona industriale per una futura eventuale utilizzazione a verde pubblico, e non come prova dell’apertura di un
subprocedimento per la determinazione dell’indennità di esproprio relativa ai terreni acquistati dal Comune in vista della realizzazione di un’area di verde pubblico attrezzato nell’ambito di una procedura espropriativa già pendente, punta ad ottenere da questa Corte una rivalutazione del materiale istruttorio allo scopo di vedere riconosciuta, ai rogiti del notaio NOME COGNOME del 22.3.1988 in questione, la natura di cessioni bonarie, dimenticando che questo é un giudizio di legittimità e non di merito (vedi sull’inammissibilità della rivalutazione dei fatti storici in sede di legittimità Cass. sez. un. 27.12.2019 n. 34476; Cass. sez. un. 17.12.2019 n. 33373).
Le spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza e vanno poste a carico della ricorrente.
Occorre dare atto che sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per imporre un ulteriore contributo unificato a carico della ricorrente, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione, respinge il ricorso della RAGIONE_SOCIALE e la condanna al pagamento in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per spese ed € 10.000,00 per compensi, oltre IVA, CA e rimborso spese generali del 15%. Dà atto che sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per imporre un ulteriore contributo unificato a carico della ricorrente, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 18.2.2025