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Cessazione incarico dirigenziale: non è licenziamento

Una dirigente pubblica, il cui ruolo di Direttore Generale è stato eliminato a seguito di una legge regionale che ha soppresso l’ente da lei diretto, ha impugnato la fine del suo rapporto. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, stabilendo che la cessazione dell’incarico dirigenziale non costituisce un licenziamento, ma una risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, causata da un atto normativo (factum principis). Di conseguenza, non si applicano le tutele previste per i licenziamenti illegittimi.

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Pubblicato il 19 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Cessazione Incarico Dirigenziale per Soppressione dell’Ente: Quando Non è Licenziamento

La fine di un rapporto di lavoro ai vertici di un ente pubblico solleva sempre questioni complesse. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affrontato un caso emblematico, chiarendo la differenza tra un licenziamento e la cessazione incarico dirigenziale dovuta alla soppressione per legge dell’ente stesso. Questa pronuncia offre spunti fondamentali sulla natura del rapporto di lavoro dirigenziale pubblico e sulle conseguenze di riforme strutturali della Pubblica Amministrazione.

I Fatti del Caso

Una dirigente medico, in aspettativa da un’Azienda Sanitaria Locale (ASL), ricopriva l’incarico di Direttore Generale presso un’Agenzia di Sanità Pubblica regionale. Una nuova legge regionale, emanata nell’ambito di una riorganizzazione della spesa pubblica, ha disposto la soppressione dell’Agenzia, trasferendone le competenze alla Giunta regionale e a un dipartimento della stessa ASL.

La legge prevedeva esplicitamente la cessazione degli organi dell’Agenzia, incluso il ruolo di Direttore Generale. Di conseguenza, il rapporto di lavoro della dirigente è terminato. Ritenendo di aver subito un’illegittima interruzione del rapporto, la lavoratrice ha agito in giudizio chiedendo il risarcimento del danno, sostenendo di avere diritto a transitare presso la Regione e a mantenere l’incarico.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno respinto le sue richieste, portando la questione dinanzi alla Corte di Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la legittimità della cessazione del rapporto. I giudici hanno analizzato due motivi principali sollevati dalla ricorrente.

Primo Motivo: La natura della cessazione incarico dirigenziale

La dirigente sosteneva che la sentenza d’appello fosse viziata da una motivazione solo apparente e che la fine del suo incarico dovesse essere valutata secondo le norme sui licenziamenti (giusta causa o giustificato motivo oggettivo). La Cassazione ha respinto questa tesi, chiarendo che il caso in esame non rientrava in una fattispecie di licenziamento.

Secondo Motivo: La Condanna alle Spese

La ricorrente contestava anche la condanna al pagamento delle spese legali a favore dell’ASL, affermando di averla coinvolta nel giudizio di appello solo come litis denuntiatio (notifica della lite), senza avanzare pretese dirette. Anche questo motivo è stato giudicato inammissibile, poiché evocare in giudizio un soggetto, anche senza domande specifiche, lo legittima a difendersi e, in caso di vittoria, a ottenere il rimborso delle spese dalla parte soccombente.

Le Motivazioni della Corte

Il cuore della decisione risiede nella distinzione tra un atto di recesso del datore di lavoro e gli effetti di una norma di legge. La Corte ha stabilito che la cessazione incarico dirigenziale non è derivata da una decisione discrezionale dell’amministrazione, ma è stata la conseguenza automatica (ex legis) della legge regionale che ha soppresso l’ente.

Questa situazione configura un’ipotesi di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ai sensi dell’art. 1463 del Codice Civile. La prestazione lavorativa della dirigente è diventata impossibile non per volontà delle parti, ma a causa del cosiddetto factum principis, ovvero un provvedimento autoritativo (la legge) che ha eliminato la posizione stessa di Direttore Generale.

La Corte ha inoltre sottolineato che la legge regionale aveva previsto un trattamento differenziato: il trasferimento automatico era riservato solo al personale a tempo indeterminato dell’Agenzia, categoria nella quale non rientrava la dirigente, il cui incarico era di natura apicale e fiduciaria, legato all’esistenza dell’organo stesso.

Le Conclusioni

L’ordinanza della Cassazione ribadisce un principio cruciale nel diritto del lavoro pubblico: la riorganizzazione della Pubblica Amministrazione, attuata tramite legge, può legittimamente comportare la soppressione di incarichi dirigenziali. In tali circostanze, la fine del rapporto non è qualificabile come licenziamento e non attiva le relative tutele. Si tratta, invece, di una risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, un meccanismo civilistico che riconosce come la causa del rapporto (l’esistenza stessa della posizione lavorativa) sia venuta meno per un fattore esterno e insuperabile. Questa decisione conferma la discrezionalità del legislatore nel modellare la struttura amministrativa, anche quando ciò incide su incarichi dirigenziali di alto livello.

La soppressione di un ente pubblico per legge determina un licenziamento per il suo Direttore Generale?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la soppressione dell’ente e del relativo incarico dirigenziale tramite un atto normativo non costituisce un licenziamento, ma causa la risoluzione del rapporto di lavoro per impossibilità sopravvenuta della prestazione (ex art. 1463 c.c.).

Cosa si intende per ‘impossibilità sopravvenuta’ in un rapporto di lavoro dirigenziale?
Significa che l’esecuzione della prestazione lavorativa diventa oggettivamente impossibile a causa di un evento non imputabile alle parti. Nel caso specifico, l’evento è stata la legge regionale (factum principis) che ha eliminato la posizione stessa di Direttore Generale, facendo venir meno la causa del contratto di lavoro.

Se si cita in giudizio una parte senza formulare domande dirette, si rischia di pagare le sue spese legali in caso di sconfitta?
Sì. La Corte ha affermato che l’ingiustificata o non necessaria evocazione in giudizio di un soggetto, anche se non è destinatario di domande specifiche, impone alla parte che l’ha effettuata, se soccombente, di rimborsare le spese processuali sostenute da quel soggetto per costituirsi e difendersi.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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