Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 21775 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 21775 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 16280/2020 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale in calce al ricorso dall’Avv. NOME COGNOME la quale dichiara di voler ricevere le notifiche e le comunicazioni relative al presente procedimento a ll’ indirizzo di posta elettronica certificata indicato, elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME .
-ricorrente-
CONTRO
Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale in calce al
contro
ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME il quale dichiara di voler ricevere le comunicazioni e le notificazioni relative al presente procedimento all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato, elettivamente domiciliata presso gli Uffici dell’Avvocatura Capitolina in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente-
E
Consorzio Giardini del Pescaccio, in persona del legale rappresentante pro tempore
-intimato- avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 947/2020, depositata il 6/2/2020
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/5 /2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
In data 4/12/1993, con la deliberazione comunale n. 428, il commissario straordinario del Comune di Roma approvava un progetto di lottizzazione, di cui faceva parte la particella di cui al foglio 413, allegato 589, n. 1359, ex 1313 b, contraddistinta nel perimetro della Convenzione urbanistica.
Il 21/6/1994 la società RAGIONE_SOCIALE con atto unilaterale di cessione, cedeva a titolo gratuito al Comune di Roma le aree aventi destinazione pubblica in forza del progetto di lottizzazione. Tra le stesse vi era la particella 1359 e la strada in essa compresa.
Il Comune di Roma accettava la cessione a titolo gratuito con la delibera del consiglio comunale del 14/2/1995.
In data 15/5/1996, con atto notarile trascritto il 28/5/1996, veniva stipulata la convenzione con il Comune di Roma, perfezionandosi quindi la cessione in suo favore.
La convenzione prevedeva la realizzazione da parte del Consorzio Giardini del Pescaccio delle opere di urbanizzazione primaria e parte delle opere di urbanizzazione secondaria.
A seguito del fallimento della società RAGIONE_SOCIALE la società RAGIONE_SOCIALE ne acquistava l’intero compendio immobiliare per il prezzo di lire 5.050.000.000, comprensivo dei terreni oggetto di lottizzazione.
Tale acquisto veniva effettuato dalla RAGIONE_SOCIALE sulla base di un contratto di leasing finanziario sottoscritto con la RAGIONE_SOCIALE
La particella era detenuta dall’ARIM, che non la metteva a disposizione né del Consorzio, né del Comune di Roma.
Per tale ragione il Consorzio Giardini del Pescaccio citava in giudizio la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE, chiedendo la condanna in via principale dell’RAGIONE_SOCIALE al risarcimento di tutti i danni subiti dall’attore per il mancato utilizzo della strada di accesso al comprensorio di lottizzazione, la declaratoria del diritto di accedere alla strada insistente sulla particella 1359, nonché la condanna, in via subordinata, del Comune di Roma al risarcimento dei danni per l’impossibilità di completare le opere di urbanizzazione.
Si costituiva in giudizio il Comune di Roma proponendo domanda riconvenzionale nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE e della società RAGIONE_SOCIALE per il riconoscimento della proprietà della particella 1359, pervenuta al Comune con rogito del 10/5/1996.
Il tribunale di Roma, con sentenza n. 7266 del 2011, rigettava la domanda principale del Consorzio sia nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE che del Comune di Roma.
Rigettava anche la domanda riconvenzionale proposta dal Comune di Roma.
Accoglieva invece la domanda proposta dall’intervenuta RAGIONE_SOCIALE di riconoscimento della servitù di passaggio attraverso la detta particella di terreno detenuta dalla società RAGIONE_SOCIALE
5.1. Per il tribunale la cessione volontaria non era atto idoneo ad essere trascritto né a produrre alcun effetto traslativo, mancando una formale accettazione della cessione da parte del Comune, mai intervenuta formalmente.
Non potevano considerarsi tali né la delibera consiliare né la successiva stipulazione della convenzione urbanistica.
Inoltre, poiché la particella n. 1359 era stata gravata da una trascrizione pregiudizievole (ipoteca) a favore della Banca di Roma in data anteriore alla cessione volontaria, il successivo pignoramento avviato dalla banca era da intendersi proseguito dal curatore della procedura fallimentare tramite la vendita del compendio fallimentare.
Tale anteriorità di trascrizione faceva sì che la proprietà della particella 1359 dovesse intendersi correttamente ascritta alla società RAGIONE_SOCIALE e non al Comune di Roma.
Avverso tale sentenza proponeva appello il Consorzio Giardini INDIRIZZO, nonché appello incidentale Roma Capitale, chiedendo il riconoscimento del diritto di proprietà di Roma Capitale sulla particella di terreno 1359, in virtù della cessione unilaterale da parte della RAGIONE_SOCIALE e della successiva convenzione urbanistica sottoscritta.
La Corte d’appello, con sentenza n. 3141 del 2016, ha ritenuto fondati i motivi di appello principale ed incidentale.
In realtà, era intervenuta l’accettazione della cessione unilaterale effettuata nell’ambito della convenzione urbanistica da parte dell’amministratore comunale, sicché il passaggio della proprietà della particella di terreno era già avvenuto al momento della dichiarazione di fallimento della società RAGIONE_SOCIALE
Il terreno non apparteneva più al patrimonio della società e non poteva né essere acquisito alla massa, né essere venduto in sede di liquidazione dell’attivo.
Pertanto, la Corte territoriale dichiarava il diritto di proprietà di Roma Capitale sulla particella 1359, per acquisto fattone con atto del 21/6/1994 di cessione unilaterale di aree da parte delle RAGIONE_SOCIALE, seguito dalla accettazione del Comune di Roma con la stipula in data 15/5/1996 della convenzione urbanistica.
Condannava la ARIM al rilascio in favore di Roma Capitale dell’area predetta, dichiarando il diritto del Consorzio Giardini di Pescaccio di accedere all’area suindicata per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione previste a suo carico dalla convenzione urbanistica.
Avverso tale sentenza proponevano ricorso per cassazione la società RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE
Questa Corte, con sentenza n. 27857 del 4/12/2020, accoglieva il quarto motivo di ricorso dell’ARIM e rinviava alla corte d’appello di Roma.
Avverso la medesima sentenza di appello oggetto di ricorso per cassazione proponeva impugnazione per revocazione la ARIM.
Si costituivano in giudizio Roma Capitale e il Consorzio Giardini del Pescaccio.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 947/2020, depositata il 6/2/2020, dichiarava inammissibile l’impugnazione proposta, ritenendo che tutti i vizi revocatori lamentati dalle società
fossero, in realtà, un’errata valutazione del materiale probatorio, se non un errore di diritto.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società RAGIONE_SOCIALE depositando anche memoria scritta.
Ha resistito con controricorso Roma Capitale.
È rimasto intimato il Consorzio Giardini del Pescaccio.
Questa Corte, con sentenza del 4/12/2020, n. 27857, pronunciando sul ricorso per cassazione proposto dalla ARIM avverso la sentenza della Corte di appello n. 3141/2016, depositata il 18/5/2016, in accoglimento del quarto motivo articolato dalla ARIM, ha cassato la sentenza (qui impugnata per revocazione).
Dalla memoria depositata da RAGIONE_SOCIALE risulta che la Corte di appello, in sede di giudizio di rinvio, con sentenza n. 105/23, ha respinto gli appelli, principale e incidentale, rispettivamente del Consorzio e di Roma Capitale, riconoscendo la proprietà dell’area in capo a RAGIONE_SOCIALE.
CONSIDERATO CHE:
Il primo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la «violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., degli articoli 91 e 92 c.p.c., nonché degli articoli 2,4 e 5, del D.M. 10/3/2014, n. 55, come modificato e integrato dal D.M. 8/3/2018 n. 37 e s.m.i., dell’art. 15 c.p.c. e dei principi enunciati dalla Corte di Cassazione, in tema di liquidazione delle spese di lite».
La sentenza della Corte d’appello ha dichiarato inammissibile l’azione di revocazione ex art. 395, primo comma, n. 4, c.p.c., proposta da RAGIONE_SOCIALE, condannando quest’ultima alla liquidazione delle spese che, però, sono state computate con indicazione quale scaglioni di riferimento del valore della causa da euro 1.000.001 a euro 2.000.000.
Tuttavia, sarebbe errato lo scaglione di riferimento individuato dalla Corte territoriale.
Nel diverso giudizio per cassazione proposto da RAGIONE_SOCIALE avverso la medesima sentenza della Corte d’appello n. 3141 del 2016, è stato dichiarato da RAGIONE_SOCIALE, ai fini del versamento del contributo unificato, che il valore della lite era indeterminabile, e sia il Consorzio Giardini del Pescaccio, sia il Comune di Roma, nei propri controricorsi, hanno dichiarato che non si sono prodotte variazioni rispetto al valore indicato dalla parte ricorrente.
Inoltre, nel caso di specie, dovrebbe trovare applicazione l’art. 15, comma 3, c.p.c., in quanto il reddito dominicale della particella oggetto del contendere non è stato mai indicato, dovendosi considerare la causa di valore indeterminabile.
Tra l’altro, è stata computata anche la fase istruttoria, che però non si sarebbe effettivamente svolta.
Si trattava, peraltro, di una sola questione in rito, avendo la Corte d’appello deciso un ricorso per revocazione, tra l’altro con la procedura semplificata di cui all’art. 281sexies c.p.c.
La Corte d’appello avrebbe dovuto applicare, invece, il valore indeterminabile di cui all’art. 5 del D.M. n. 55 del 2014. Nell’ambito dello scaglione valore indeterminabile, avrebbe dovuto assumere il sotto scaglione più basso, vale a dire quello corrispondente alla complessità minima o a quella media.
Non si doveva conteggiare la fase istruttoria.
Non doveva computarsi la fase decisionale, non avendo le parti prodotto comparse conclusionali e memorie di replica.
Con il secondo motivo di impugnazione si deduce la «nullità della sentenza, relativamente al capo della condanna alle spese, per mancanza di motivazione ex art. 360, primo comma, n. 4, art. 132, 2º comma, n. 4, e 281sexies c.p.c.».
La Corte d’appello non avrebbe minimamente esplicitato le ragioni per cui ha ritenuto di applicare lo scaglione relativo alle cause di valore da euro 1.000.001 a euro 2.000.000. Neppure ha spiegato la ragione per cui, nell’ambito di tale scaglione, ha ritenuto di liquidare le competenze della fase istruttoria che non si era effettivamente svolta, nonché per la fase decisionale, nel cui ambito erano state espletate solo difese orali, senza comparse conclusionali e memorie di replica.
3.Il ricorso è inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.
3.1. Si premette che la pronuncia di questa Corte n. 27857/2020 – che, in accoglimento del ricorso di RAGIONE_SOCIALE, ha cassato la sentenza della Corte di appello n. 3141/2016, qui impugnata in ordine solo alla determinazione delle spese di giudizio, nell’ambito del giudizio di revocazione – comporta il venir meno dell’interesse ad agire della RAGIONE_SOCIALE, come espressamente dedotto dalla stessa società ricorrente nella memoria scritta.
La ricorrente ha correttamente richiamato l’indirizzo giurisprudenziale (Cass., sez. 1, 16/4/2024, n. 10255) per cui, in caso di contemporaneo svolgimento del giudizio di revocazione e di quello di cassazione avverso la medesima sentenza di appello, qualora in pendenza del giudizio di revocazione ex art. 395 c.p.c. venga cassato il capo della decisione oggetto di revocazione, il venir meno dell’oggetto della revocazione e dunque dell’interesse ad agire, comporta l’inammissibilità dell’impugnazione che, se non constatata dal giudice, ridonda in nullità della sentenza sulla revocazione (Cass. n. 27946 del 2023).
Qualora, per vero, la sentenza di appello impugnata con revocazione sia cassata, integralmente o limitatamente alla statuizione oggetto di quella impugnazione o comunque dalla prima
dipendente, con rinvio o senza, la sentenza oggetto di ricorso non può più essere considerata esistente, e ciò in applicazione dell’art. 336, comma 2, c.p.c. a mente del quale la cassazione estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza cassata, determinando il venir meno dell’oggetto stesso del giudizio di revocazione e la conseguente carenza di interesse all’impugnazione ex art. 395 c.p.c.
La nullità della sentenza sulla revocazione travolge anche la statuizione sulle spese processuali contenute nella stessa.
Nella specie, dunque, è venuto meno l’interesse al ricorso, a seguito della sentenza di questa Corte che ha cassato la sentenza di appello.
Nella fattispecie in esame – proprio a sottolineare la sopravvenuta carenza di interesse – la sentenza della Corte di appello, in sede di revocazione, che ha dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione, è stata depositata il 6/2/2020, mentre il ricorso per cassazione, solo per le spese, è stato spedito il 18/6/2020; la sentenza di questa Corte che ha cassato la sentenza del giudizio di appello (fatta anche oggetto di impugnazione per revocazione) è intervenuta in data 4/12/2020, quindi dopo la sentenza di appello che ha dichiarato inammissibile la revocazione.
Successivamente la Corte di appello, in sede di rinvio, con sentenza n. 105 del 2023, ha accolto la domanda di ARIM, attuale ricorrente in cassazione.
E’ evidente il sopraggiunto difetto di interesse della ARIM che, con la memoria scritta, ha chiesto appunto di dichiarare l’inammissibilità del ricorso «per sopravvenuta carenza di interesse».
Le spese del giudizio di legittimità vanno integralmente compensate tra le parti, avuto riguardo all’esito complessivo della lite.
Nell’ipotesi di causa di inammissibilità, sopravvenuta alla proposizione del ricorso per cassazione, non sussistono i presupposti per imporre al ricorrente il pagamento del cd. doppio contributo unificato (Cass., Sez.U., 19/7/2024, n. 19976).
Dichiara inammissibile il ricorso.
Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della I Sezione