Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 17182 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 17182 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 26/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 3664/2017 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappres. p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME per procura speciale in atti;
-ricorrente-
-contro-
COMUNE DI MILANO, in persona del legale rappres. p.t, rappres. e difeso dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME per procura speciale in atti;
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 2649/2016 de lla Corte d’Appello di Milano , pubblicata in data 27.06.2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16.05.2025 dal Cons. rel., dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con sentenza del 27.6.2016, la Corte territoriale di Milano accoglieva l’appello promosso dal Comune di Milano per la riforma della sentenza n. 13653/11 resa dal Tribunale di Milano per l’annullamento di n. 3 avvisi di pagamento per complessivi euro 371.907,86 emessi nei confronti della RAGIONE_SOCIALE relativi al canone di occupazione di aree pubbliche con riferimento ad alcuni impianti pubblicitari posizionati dalla stessa società nel territorio comunale nel 2001.
In particolare, il Tribunale aveva ritenuto che il Comune, omettendo di chiedere il canone OSP contestualmente al rilascio dell’autorizzazione per esposizione dei mezzi pubblicitari, avesse implicitamente rinunciato allo stesso canone e che la mancata indicazione di quest’ultimo nel provvedimento di concessione, nonché il silenzio protrattosi per vari anni, avessero determinato nell’attrice il ragionevole affidamento nella no n debenza, infine soggiungendo che il comportamento dell’ente era stato contrario ai principi di correttezza e buona fede.
La Corte d’appello ha invece osservato che: la convenzione avente ad oggetto un bene demaniale era da inquadrare come concessione; il diritto al canone cosap non poteva essere oggetto di trattativa privata, in quanto il relativo pagamento, previsto dal regolamento, era da determinare sulla base delle tariffe approvate dalla delibera consiliare emessa in data 21.2.2020; tale canone non poteva essere rinunciato e il relativo obbligo trovava la sua fonte nel provvedimento autorizzativo; nella specie, il canone era stato determinato dopo l’atto di concessione (come stabilisce l’art. 63 dlgs. n. 446/1997), ma ciò non comportava l’inesigibilità del credito del Com une in quanto la sua fonte era l’atto concessorio e non era atto disponibile, venendo in rilievo un’entrata patrimoniale, quale corrispettivo dell’utilizzazione di un bene pubblico; pertanto, l’eventuale
ritardo dell’ente pubblico nel conteggio della somma dovuta a tale titolo non aveva determinato un legittimo affidamento del privato nella non debenza del pagamento, mentre la mancata immediata richiesta del pagamento non aveva determinato una decadenza della potestà comunale di esigerlo nel termine ordinario di prescrizione ex art. 2946 cc; pertanto, la mancata indicazione nel provvedimento amministrativo dell’ammontare del cosap dovuto dalla società richiedente costituiva una mera irregolarità, ma non equivaleva ad una rinuncia ad esercitare un diritto di riscossione indisponibile, posto che l’obbligazione non nasceva con l’accertamento, ma con l’occupazione del demanio pubblico (con o senza titolo); a tale conclusione non era d’ostacol o il fatto che la condotta del Comune fosse certamente censurabile per contrarietà ai principi di correttezza e buona amministrazione.
La RAGIONE_SOCIALE ricorre in cassazione avverso la suddetta sentenza con sei motivi. Il Comune di Milano resiste con controricorso, illustrato da memoria.
IL Pubblico Ministero ha depositato requisitoria chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO CHE
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del regolamento comunale per l’applicazione del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (C.O.S.A.P.) approvato con delibera del consiglio comunale n. 11 del 21.02.2000, in vigore nel 2001 ed in particolare delle disposizioni di cui agli artt. 5 e 2, allegato c), nonché omessa pronuncia su un punto decisivo, ovvero sul contenuto del regolamento comunale C.O.S.A.P. in vigore nel 2001, valutato alla luce delle modifiche apportate con delibera consiliare n. 21 del 26.03.2002.
Il secondo motivo denunzia violazione o falsa applicazione del regolamento comunale cosap e dell’art. 63 d.lgs. 446/1997, nonché motivazione apparente e contraddittoria con riferimento alla eccepita mancanza di provvedimenti concessori a favore della ricorrente e alla conseguente assenza di un presupposto dell’ob bligo di pagamento del canone che non poteva neppure essere ravvisato in una occupazione abusiva, la quale richiede un accertamento ad opera del pubblico ufficiale competente.
Il terzo motivo denunzia violazione del medesimo art. 63, del reg. comunale e dei principi di parità di trattamento, buona fede e correttezza, ex artt. 1175, 1337, 1375, cc e motivazione contraddittoria, per aver la Corte d’appello, da un lato, premesso che la fonte del diritto di credito consisteva nell’atto concessorio e, dall’altro, affermato che tale diritto esisteva pur in assenza della concessione, così arbitrariamente ritenendo irrilevante la violazione commessa dal Comune che avrebbe dovuto invece emettere il provvedimento concessorio per poter aver diritto al canone in questione.
Il quarto motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1337, 1375 c.c. e dei principi che regolano i rapporti tra le parti iure privatorum , del d.lgs. 446/97 e del regolamento cosap di cui alla delibera consiliare n.11/2000, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione al comportamento tenuto dal Comune di Milano e agli atti e documenti di causa.
Il quinto motivo lamenta omessa pronuncia sull’eccezione di prescrizione quinquennale del credito fatto valere dal Comune per gli impianti installati nel 2011.
Il sesto motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1227, 1337, 1375 c.c. e dei principi di correttezza, trasparenza e buona fede quale presupposti di responsabilità del Comune per i danni arrecati
alla SIPEA, violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c .c., nonché contraddittoria motivazione in relazione ai fatti e ai comportamenti tenuti dal Comune di Milano ai fini della domanda di risarcimento dei danni, da quantificarsi nel medesimo importo del canone di occupazione riconosciuto.
Il primo motivo è inammissibile.
Va premesso, come rileva il Pubblico Ministero, che il motivo non rispetta il criterio dell’autosufficienza, non trascrivendo il regolamento comunale del quale si lamenta la violazione o, perlomeno, le parti di questo rilevanti in causa, in quanto il principio iura novit curia non opera per le fonti normative di rango secondario (Cass., n. 1951/2022; n. 19360/2018; n. 1391/2014; n. 1893/2009, n.18661/2006).
Inoltre, va osservato che la censura fa leva sulla circostanza che i gonfaloni, gli stendardi e gli striscioni pubblicitari non erano contemplati dal regolamento vigente nel 2001, mentre solo il successivo regolamento, approvato con la delibera consiliare n. 21 del 26.3.2002, menzionò tali installazioni.
La Corte di appello di Milano, nella sentenza impugnata, non ha discorso di tale questione, sollevata in primo grado e risultata assorbita dalla decisione del Tribunale, che dichiarò non dovuto il canone per implicita rinuncia del Comune di Milano.
Anzi, per lo stesso dire della ricorrente (ricorso, pag. 11, righe 12-14), tale questione venne riproposta in secondo grado soltanto negli scritti defensionali conclusivi, per cui la questione stessa deve presumersi essere stata rinunciata in grado di appello da parte dell’appellato vittorioso, in ragione del principio secondo cui ‘ la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado, in ipotesi di gravame formulato dal soccombente, non ha l’onere di proporre appello incidentale in relazione alle proprie domande o
eccezioni non accolte (perché superate o non esaminate in quanto assorbite), ma deve solo riproporle espressamente nel giudizio di impugnazione al fine di evitare la presunzione di rinunzia derivante da un contegno omissivo, non essendo a tal fine sufficiente, peraltro, un generico richiamo alle eccezioni contenute nelle difese del precedente grado di giudizio, siccome inidoneo a manifestare in modo specifico la volontà di riproporre una determinata domand a o eccezione’ (Cass., n. 33649/2023).
Rispetto a tale questione non può parlarsi, pertanto, di omessa pronuncia da parte della Corte di appello.
Il motivo sarebbe comunque infondato.
L’art. 63 del d. Igs. 15 dicembre 1997, n. 446 (come modificato dall’art. 31 della legge 23 dicembre 1998, n. 448), prescrive, al primo comma, che: “i comuni e le province possono, con regolamento adottato a norma dell’articolo 52, escludere l’applicazione, nel proprio territorio, della tassa per occupazione di spazi ed aree pubbliche, di cui al capo II del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507. I comuni e le province possono, con regolamento adottato a norma dell’articolo 52, prevedere che l’occupazione, sia permanente che temporanea, di strade, aree e relativi spazi soprastanti e sottostanti appartenenti al proprio demanio o patrimonio indisponibile, comprese le aree destinate a mercati anche attrezzati, sia assoggetta in sostituzione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche, al pagamento di un canone da parte del titolare della concessione, determinato nel medesimo alto di concessione in base a tariffa’.
Al riguardo, o ccorre rilevare che l’art. 2, comma 1, regolamento cosap, approvato con delibera 11/2000 (trascritto nel controricorso del Comune, alle pagg. 4-5) ed invocato dalla stessa ricorrente, prevedeva
l’assoggettamento al canone delle occupazioni di qualsiasi natura effettuate, anche senza titolo, nelle strade, nei corsi, nelle piazze e, comunque, sui beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile del Comune.
La successiva delibera 21/2002, modificando l’art. 5, comma 2 del regolamento (parimenti trascritto nel controricorso), menzionò espressamente i gonfaloni, gli striscioni e gli stendardi, precisando che la relativa base imponibile andava determinata con riferimento ai metri lineari, base imponibile già vigente per tutti i mezzi di occupazione degli impianti pubblicitari, in forza dell’art. 5, comma 5, regolamento già in vigore per gli anni 2000 e 2001, e modificata, con le detta delibera 21/2002, per gli altri mezzi di occupazione (diversi, cioè, da striscioni, gonfaloni e stendardi), stabilendosi che la superficie di occupazione era rappresentata dalla proiezione verticale al suolo del mezzo di occupazione. Ora, non essendo tale criterio applicabile a gonfaloni, striscioni e stendardi, la modifica dell’art. 5, comma 2, regolamento, lasciò, invece, intatto per gli stessi il previgente criterio dei metri lineari.
Pertanto, non vi fu introduzione di un nuovo presupposto oggettivo del canone, rappresentato dall’ occupazione a mezzo di striscioni, gonfaloni o stendardi, ma solo una precisazione sul mantenimento, per tali mezzi pubblicitari, del precedente criterio di determinazione della base imponibile (i metri lineari di occupazione); criterio, invece, modificato solo per gli altri strumenti pubblicitari con la delibera 21/2002.
In altri termini, come rilevato dal Comune, fino al 2001 tutti gli impianti pubblicitari rientravano nell’ambito applicativo del regolamento del 2000 senza nessuna distinzione (e dunque anche i gonfaloni) mentre il regolamento del 2002 aveva modificato solo il coefficiente moltiplicatore
per i gonfaloni, fondato sulla misura della superficie in metri lineari e non in metri quadrati (a differenza degli altri mezzi pubblicitari).
Il presupposto oggettivo del canone, rappresentato dalla occupazione del suolo pubblico e degli spazi sovrastanti (art. 38, commi 1 e 2, d.lgs. 15.11.1993, n. 507), era, pertanto, integrato anche dalla installazione di striscioni, gonfaloni e stendardi, indipendentemente dalla espressa menzione che ne potesse fare il regolamento comunale attuativo (prima della modifica dovuta alla delibera 21/2002), il quale, di certo, non poteva escludere talune specifiche occupazioni dall’assoggettamento al cano ne, sostitutivo della tosap (art. 63, comma 1, d.lgs. 446/1997).
Invero, il cosap risulta configurato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici ed è dovuto non in base alla limitazione o sottrazione all’uso normale o collettivo di parte del suolo, ma in relazione all’utilizzazione particolare o eccezionale che ne trae il singolo, ed è irrilevante la mancanza di una formale concessione quando vi sia un’occupazione di fatto del suolo pubblico (Cass., n. 16395/2021; Cass., n. 17296 del 27/06/2019; Cass., n. 18037 del 06/08/2009; Cass., n. 3710 dell’8/02/2019; Cass., n. 10733 del 04/05/2018; Cass., n. 1435 del 19/01/2018; n. 509/2022).
Nella specie, l’occupazione di stendardi e gonfaloni riguarda va gli spazi sovrastanti il suolo pubblico, rilievo che conferma la correttezza della statuizione della Corte territoriale a tenore della quale la modifica del 2002 del regolamento del 2000 integrava un principio (relativo appunto alla debenza del canone per tutte le forme di occupazioni di suolo pubblico, compresi i mezzi ad esso sovrastanti come stendardi e gonfaloni) già contemplato in linea di principio dal precedente regolamento, essendo dunque priva di fondatezza la tesi della ricorrente secondo la quale tale
regolamento non avrebbe imposto l’obbligo di pagamento per tale forma di occupazione del suolo pubblico.
La giurisprudenza di questa Corte (Cass., n.3710/2019, 18769/2017 e n. 9240/2022), ha affermato, infatti, che il diritto al canone trova la sua fonte nel provvedimento concessorio, ma non può essere considerato oggetto di trattativa privata: l’obbligazione di corrispondere il canone nasce (non con l’accertamento, ma) con l’occupazione del demanio pubblico, con o senza titolo; ed il diritto a tale canone e la sua determinazione non possono essere oggetto di rinuncia.
I motivi secondo e terzo, esaminabili congiuntamente poiché tra loro connessi, sono infondati.
Invero, come detto, la fonte del diritto al canone secondo le tariffe deliberate dal consiglio comunale consiste nell’uso speciale del bene pubblico destinato alla generalità dei cittadini. L’obbligazione nasce con l’occupazione del demanio pubblico, con o senza titolo (Cass., n. 18769/2017, resa fra le stesse parti, in motivazione, § 4.3., la quale respinse un motivo di ricorso identico al presente; sempre fra le stesse parti, v. in motivazione, Cass., n. 29455/2018; n. 3710/2019; n. 9240/2020).
Non rileva, pertanto, la lamentata mancanza di un provvedimento concessorio formale (Cass., n. 1435/2018), in quanto i l canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (cosap) costituisce il corrispettivo dell’utilizzazione particolare (o eccezionale) di beni pubblici e non richiede un formale atto di concessione, essendo sufficiente l’occupazione di fatto dei menzionati beni (Cass., n. 16395/2021; n. 1435/2028).
Il quarto motivo è infondato.
Come os servato dalla corte d’appello, una pur deplorevole inerzia del Comune nell’esazione del canone non rileva se non protratta oltre i termini
di prescrizione del credito. Inoltre, il diritto al cosap non può essere considerato oggetto di trattativa privata (Cass., n. 18171/2022, n. 29455/2018; n. 18679/2017) e comunque non è ipotizzabile una rinunzia al credito per facta concludentia , essendo in tal caso richiesta per la pubblica amministrazione la forma scritta (Cass., n. 11673/2017).
Il quinto motivo è del pari infondato.
La Corte di appello non ha affrontato espressamente la questione della prescrizione, essendosi limitata a rilevare, condivisibilmente, che essa è decennale.
Invero, l ‘art. 2948, n. 3), c.c. non è applicabile al cosap, non potendo affermarsi che il canone costituisca il corrispettivo del godimento di un bene che l’Ente pubblico concede al privato, caso contemplato dalla norma citata; come detto, il canone in questione è dovuto in considerazione dell’utilizzazione particolare che il singolo trae dal suolo pub blico.
Inoltre, esso trova titolo in diversi e specifici provvedimenti e non in un unico provvedimento fonte dell’obbligazione (Cass., n. 3710/2019, resa fra le stesse parti, in motivazione, § 4).
Al riguardo, va osservato che l’indennità di occupazione legittima non è assimilabile al canone di locazione o alle altre prestazioni periodiche di cui all’art. 2948 nn. 1, 1 bis e 2 cod. civ., in quanto assolve alla funzione di compensare “medio tempore”, per tutta la durata dello stato di indisponibilità del bene, il detrimento dato dal suo mancato godimento; ne’ può essere inclusa nella previsione di cui al n. 4 dell’art. 2948 ( relativa a “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”), in quanto tale norma si riferisce alla sola fattispecie in cui da un unico rapporto giuridico derivino obbligazioni con scadenza periodica non superiore ad un anno, e non anche a quella, ricorrente nel caso in questione, in cui da un unico provvedimento derivino tanti rapporti
autonomi aventi durata annuale (o inferiore) e ciascuno con apposito indennizzo da pagarsi in un’unica soluzione e da commisurarsi all’indennità di espropriazione – effettiva o virtuale – dovuta se l’immobile fosse stato espropriato in quell’anno; sicché essa, costituendo un’obbligazione di tipo indennitario collegata ad un’ipotesi tipica di responsabilità della P.A. per atti legittimi, è sottoposta all’ordinaria prescrizione decennale, che rimane collegata al compimento di ciascun anno di occupazione e che, perciò, decorre dal giorno in cui ha termine la relativa annualità ovvero l’occupazione stessa ove antecedente alla scadenza dell’anno (Cass., n. 17111/2004; n. 22913/2010).
Neppure l’art. 2948, n. 4), c.c., è applicabile, posto che esso concerne il caso in cui da un unico rapporto giuridico derivino obbligazioni con scadenza periodica non superiore ad un anno, e non il caso di concessioni o autorizzazioni aventi ciascuna un apposito canone da pagarsi in unica soluzione (Cass., n. 6651/1981).
Infine, il sesto motivo è parimenti infondato.
Come già affermato in precedente arresto di legittimità, reso fra le stesse parti, nessun comportamento, colposo o doloso, è stato ritenuto imputabile al Comune che ha chiesto l’adempimento dell’obbligazione patrimoniale negli ordinari termini di prescrizione del credito non assolto; il regolamento comunale è fonte normativa e prevede, fra l’altro, sia i criteri di determinazione della superficie di occupazione sia le relative tariffe allegate (che la società ricorrente, operatore professionale, avrebbe dovuto e potuto conoscere). Dunque, la richiesta di adempimento di un’obbligazione patrimoniale, conosciuta o conoscibile nell ‘an e nel quantum , entro gli ordinari termini di prescrizione del credito, costituisce attività tipica della Pubblica Amministrazione.
E l’affidamento sulla inerzia del Comune, interpretata come rinunzia al canone, non trova tutela giuridica, considerato che non era affatto imprevedibile, fino al momento del maturare della prescrizione decennale, il sopraggiungere di una richiesta di pagamento per forme pubblicitarie particolari, quali per l’appunto nella specie i gonfaloni (Cass., n. 3710/2019, in motivazione, § 5).
Né a sostegno di tale doglianza può essere addotto il legittimo affidamento riposto dalla società nelle irregolarità amministrative segnalate (mancata emanazione dell’atto concessorio; mancata preventiva determinazione dell’im porto del canone), avendo la Corte d’appello escluso la configurabilità di una condotta illecita del Comune sulla base di una complessiva valutazione dei suoi comportamenti, seppur rilevandone una scorretta gestione del procedimento (verosimilmente non assurta al rango di atto illecito foriero di responsabilità risarcitoria, nell’ambito della responsabilità contrattuale da ‘contatto sociale’ , secondo la prospettazione delle Sezioni Unite, n. 1567/2023).
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio che liquida nella somma di euro 12.400,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% per rimborso forfettario delle spese generali, iva ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.p.r. n.115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della I Sezione civile 16 maggio 2025.