Ordinanza di Cassazione Civile Sez. U Num. 4341 Anno 2024
Civile Ord. Sez. U Num. 4341 Anno 2024
Presidente: COGNOME PASQUALE
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 19/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso 28184-2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME ed NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente pro tempore , elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME ed NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza parziale n. 77/2020 depositata il 17/06/2020 e la sentenza definitiva n. 159/2022 depositata il 02/08/2022, entrambe del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE.
Oggetto
TSAP
CONTENZIOSO
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 05/12/2023
CC
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/12/2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La società RAGIONE_SOCIALE impugna la sentenza parziale n. 77 del 17 giugno 2020 e la pronuncia definitiva n. 159 del 2 agosto 2022, con le quali il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha respinto il ricorso, proposto nei confronti della Regione Lombardia, volto ad ottenere l’annullamento della deliberazione della Giunta regionale della Lombardia n. X/5677 dell’11 ottobre 2016 e della deliberazione X/5130 del 9 maggio 2016 concernenti la prosecuzione in via transitoria nell’esercizio della derivaz ione d’acqua a scopo idroelettrico dell’impianto di Benedetto -Cividate alle condizioni previste dall’art. 53 bis della l.r. Lombardia n. 26 del 2003 e subordinatamente al versamento del canone aggiuntivo disciplinato dal comma 5 bis della disposizione citata.
La società ricorrente, per quel che in questa sede rileva, aveva domandato l’annullamento degli atti, da un lato, facendo leva sull’eccepita illegittimità costituzionale dell’art. 53 bis che, nel prevedere la corresponsione del canone aggiuntivo, avrebbe violato gli artt. 3, 23, 41, 53, 97, 117 e 119 Cost.; dall’altro eccependo l’erroneità e l’incongruenza, sul piano metodologico, tecnico ed economico, della quantificazione provvisoria, operata sulla base del documento di «analisi scenari di impatto» elaborato da RAGIONE_SOCIALE.
Il TSAP con la sentenza non definitiva n. 77 del 2020 ha ricostruito il quadro normativo e ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 53 bis richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale nonché la pronuncia di queste Sezioni Unite n. 8036/2018.
Ha ritenuto priva di fondamento la pretesa della società ricorrente al mantenimento delle stesse condizioni economiche stabilite per il periodo antecedente alla scadenza della concessione ed ha rilevato che il canone aggiuntivo compensa la non prevista pro secuzione nell’esercizio della concessione medesima e costituisce una misura indennitaria e di
riequilibrio rispetto al vantaggio consistente nell’utilizzo, oltre che delle risorse naturali, anche degli impianti di derivazione, ormai ammortizzati.
Ha escluso che attraverso la previsione del canone aggiuntivo fosse stata realizzata una ingiustificata discriminazione in danno degli operatori presenti sul territorio lombardo, rispetto a quelli operanti in altre regioni, ed ha evidenziato che la differenziazione fra discipline legislative regionali è la necessaria conseguenza dell’attribuzione alla regione della potestà legislativa nella materia in rilievo.
Infine con separata ordinanza ha affidato ad un verificatore «l’accertamento sul legittimo esercizio del potere valutativo tecnico -economico di quantificazione della misura del canone aggiuntivo».
2.1. La sentenza definitiva n. 159 del 2022, dopo aver richiamato le conclusioni del verificatore e la motivazione della sentenza parziale, ha premesso che l’unico limite alla determinazione della misura del canone aggiuntivo va individuato nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale di onerosità della concessione e di proporzionalità all’effettiva entità dello sfruttamento delle risorse pubbliche che la concessione comporta ed all’utilità economica che il concessionario ne ricava.
Ha aggiunto che dalla ricognizione del quadro normativo in materia emerge che plurime disposizioni di legge, sia pure non applicabili alla controversia, prevedono a carico del concessionario di grande derivazione scaduta l’obbligo di versare un canone aggi untivo determinato in un importo non inferiore a quello previsto dalla delibera impugnata. Ha ricordato, sempre in premessa, che il giudice di merito, così come non ha alcun obbligo di ricorrere al consulente tecnico d’ufficio, ne può motivatamente disattendere le conclusioni esaminando direttamente la documentazione su cui si basa la relazione.
Il Tribunale ha, quindi, evidenziato l’ontologica diversità fra la misura definitiva del canone aggiuntivo, per la quale la delibera regionale ha fissato il limite del 20% della rendita conseguita dal concessionario uscente nel periodo di esercizio dell’im pianto eccedente la concessione, ed il canone provvisorio, ancorato per tutti gli ex concessionari alla potenza nominale media annua, a prescindere da qualsiasi riferimento alle
caratteristiche ed alla redditività degli impianti stessi. Ha rilevato che il parametro della potenza nominale media annua, ritenuto idoneo ed appropriato anche dalla Corte Costituzionale, si fonda su dati oggettivi e storici di produzione e di ricavi, lì dove la redditività concreta dei diversi impianti è collegata anche a scelte soggettive degli imprenditori, i quali possono variare la produzione adattandola ai consumi e ai mercati elettrici. Ha aggiunto che sotto il profilo della proporzionalità e della ragionevolezza risulta assai modesta l’incidenza del canone aggiuntivo provvisorio sui ricavi, considerata l’elevata redditività della gestione in regime di prosecuzione temporanea effettuata avvalendosi di impianti già del tutto ammortizzati. Ha evidenzia to, altresì, che l’analisi condotta da RAGIONE_SOCIALE, fatta propria dalla Giunta regionale, si fonda su presupposti e dati (l’ipotizzato funzionamento degli impianti per il 100% del tempo disponibile ed il prezzo medio zonale di vendita pari a 60 €/kw) non inattendibili e tali da giustificare la proposta, poi recepita, del canone aggiuntivo provvisorio unico per tutti gli impianti di importo tutt’altro che eccessivo.
Quanto alle diverse conclusioni alle quali è pervenuta la verificazione, il Tribunale ha rilevato che nella sostanza il verificatore ha ravvisato l’errore metodologico nel non avere considerato, anche ai fini della quantificazione del canone aggiuntivo provvisorio, le caratteristiche specifiche e la redditività dei singoli impianti.
Ha, però, ritenuto non irragionevole ed arbitraria la scelta di valorizzare il solo dato oggettivo, in ragione della provvisorietà della determinazione e della previsione del successivo meccanismo di conguaglio al momento del prelievo definitivo.
Per la cassazione delle sentenze ha proposto ricorso la RAGIONE_SOCIALE sulla base di cinque motivi, ai quali la Regione Lombardia ha opposto difese con controricorso.
Con istanza del 14 novembre 2023 i difensori della società ricorrente hanno sollecitato la trattazione del ricorso in udienza pubblica ex art. 375 cod. proc. civ., in ragione dell’oggetto del contendere, tale da coinvolgere una pluralità di soggetti nonché interessi di carattere generale, e della novità delle questioni giuridiche trattate.
5. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Il ricorso della RAGIONE_SOCIALE, con il primo motivo formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., censura la sentenza non definitiva n. 77 del 2020 e denuncia «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 12, comma 8 bis, del d.lgs. 16 marzo 1 999 n. 79, dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953, degli artt. 3, 23, 41, 53, 117, primo, secondo comma lett. e) e terzo comma, e 119 Cost., dei principi generali di ragionevolezza e di legittimo affidamento. Illegittimità costituzionale dell’art. 53 bis della l.r. Lombardia 12 dicembre 2003 n. 26 per violazione degli artt. 3, 23, 41, 53, 117, primo, secondo comma lett. e) e terzo comma, e 119 Cost., dei principi generali di ragionevolezza e di legittimo affidamento.».
La società ricorrente ribadisce la tesi, non condivisa dal Tribunale, secondo cui la previsione del canone aggiuntivo sarebbe illegittima, in quanto in contrasto con l’art. 12, comma 8 bis del d.lgs. n. 79/1999, introdotto dall’art. 15, comma 6 ter lett. e ) del d.l. 31 maggio 2010 n. 78, oggi abrogato ma vigente al momento della adozione della delibera impugnata. Rileva che sino alla successiva abrogazione il citato comma 8 bis dell’art. 12 aveva perseguito l’intento di assicurare la continuità dell’attivit à di produzione di energia idroelettrica attraverso la garanzia della stabilità dell’equilibrio negoziale pattuito tra amministrazione concedente e concessionario, equilibrio alterato dalla previsione del canone aggiuntivo, evidentemente in contrasto con l ‘obbligo fissato dal legislatore statale di garantire le «stesse condizioni stabilite dalle normative e dal disciplinare di concessione vigenti».
Insiste sulla rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 53 bis della l.r. Lombardia 12 dicembre 2003 n. 26 e deduce in premessa che la prosecuzione temporanea è finalizzata a garantire la continuità della produzione di energia elettrica, sicché la stessa risponde ad un interesse pubblico e non è diretta a soddisfare quello egoistico del concessionario uscente. Il privato, che è chiamato a partecipare alla realizzazione di detto interesse, non può
essere gravato di oneri aggiuntivi, che costituiscono irragionevole ed arbitraria limitazione della libertà di iniziativa economica privata e pongono il concessionario medesimo in una posizione di svantaggio rispetto agli altri operatori.
Aggiunge la società ricorrente che la previsione del canone aggiuntivo lede l’affidamento del privato suscitato dalla norma preesistente e, come già anticipato, realizza un’illegittima discriminazione rispetto ai concessionari che gestiscono impianti per i quali la concessione non è ancora scaduta. Rileva ancora la ricorrente che, interpretato nei termini indicati nella sentenza impugnata, il canone si risolve in un’imposta, ossia in una prestazione patrimoniale dovuta esclusivamente in ragione dell’eserciz io dell’impianto, senza alcuna connessione con la capacità contributiva del gestore e senza alcuna progressività. Infine la società ricorrente ipotizza anche il contrasto con l’art. 97 Cost. perché la previsione del canone aggiuntivo a carico del concessionario uscente finirebbe per rappresentare un incentivo a procrastinare la messa a gara delle concessioni.
1.2. Con il secondo motivo la sentenza non definitiva è censurata, sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., per «violazione dell’art. 3. Par.
1, della direttiva 2009/72/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13 luglio 2009 e dell’art. 3, par. 4, della direttiva 2019/944/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 giugno 2019; violazione degli artt. 3,41 e 117, primo comma Cost.».
La società ricorrente rileva che la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è obiettivo prioritario della politica europea e deduce che la previsione del canone aggiuntivo si pone in contrasto con il divieto di discriminazione tra le imprese operanti nel settore, imposto dalle direttive richiamate in rubrica.
1.3. La terza critica addebita alla sentenza non definitiva n. 77 del 2020 la «violazione dei principi di incentivazione delle fonti energetiche rinnovabili e di stabilità dei regimi di sostegno sanciti dalle direttive 2001/77/ CE, 2009/28/CE e 2018/2001/UE e delle relative norme statali di recepimento. Violazione del principio di legittimo affidamento. Violazione dell’art. 117 Cost.».
Il motivo torna a prospettare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 53 bis della l.r. Lombardia n. 26 del 2003 sotto altro profilo e con lo stesso si sostiene che la previsione del canone aggiunto violerebbe le direttive europee richiamate in rubrica, che vincolano gli Stati membri ad affidare all’iniziativa economica privata lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili in un contesto di mercato e impongono di mantenere immutate le condizioni del sostegno concesso ai progetti relativi alla produzione di energia in quanto, come osservato dalla Commissione europea, le modifiche improvvise sono dannose e pregiudicano le strategie di investimento.
La previsione di onerosi canoni aggiuntivi a carico dei concessionari uscenti rappresenta un disincentivo all’investimento e mina la stabilità del sistema mettendo in pericolo la propensione del mercato ad investire nel settore delle fonti rinnovabili.
1.4. Con il quarto motivo, formulato ex art. 360 n. 1 cod. proc. civ. avverso le statuizioni contenute nella sentenza definitiva n. 159 del 2022, è denunciata la «violazione dei principi e dei limiti propri della giurisdizione di legittimità del Tribunale superiore delle acque pubbliche ( art. 201 t.u. 1775/1933; art. 360 n. 1 c.p.c.; art. 111, comma 8 Cost)».
La ricorrente premette che l’annullamento del provvedimento amministrativo era stato domandato perché la Giunta regionale si era basata su valutazioni irragionevoli ed apodittiche ed era incorsa in difetto di istruttoria perché aveva valorizzato, ai fini della quantificazione del canone il documento redatto da RAGIONE_SOCIALE che conteneva una serie di errori gravi, evidenziati nella relazione peritale di parte. La domanda non riguardava la congruità del canone ma solo la legittimità dei provvedimenti amministrativi. Addebita, pertanto, al Tribunale di avere erroneamente valutato l’appropriatezza della misura, che attiene al cosiddetto merito amministrativo ed esorbita dal sindacato di legittimità, circoscritto alla sussistenza o meno dei vizi di incompetenza, eccesso di potere, o violazione di legge. In ciò ravvisa l’eccesso di potere giurisdizionale.
1.5. Infine con il quinto motivo la sentenza definitiva n. 159 del 2022 è criticata per «violazione dei principi fondamentali della legislazione statale
di onerosità della concessione e di proporzionalità del canone, in relazione all’art. 89 d.lgs. 31 marzo 1998 n. 112 (come enunciati dalla Corte di Cassazione, sez. un. civ. 14 gennaio 2022 n. 1043)».
La società ricorrente richiama il principio di diritto secondo cui il canone deve essere proporzionale alla effettiva entità dello sfruttamento delle risorse pubbliche ed all’utilità che il concessionario ne ricava e sostiene che detto principio è stato violato nella fattispecie nel ritenere legittima la previsione del canone aggiuntivo in misura identica per tutti gli impianti, pur avendo lo stesso Tribunale dato atto della possibilità che «sarebbe stato possibile e forse più equo differenziare ab initio il canone aggiuntivo sulla base delle indicazioni date dal verificatore in relazione a tipologie di impianti e redditività di ciascun sito».
Preliminarmente rileva il Collegio che deve essere disattesa l’istanza di rinvio a nuovo ruolo e di fissazione dell’udienza pubblica ex art. 375 cod. proc. civ..
All’esito della riformulazione dell’art. 375 cod. proc. civ., operata dal d.lgs. n. 149/2022, la Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, pronuncia in pubblica udienza unicamente nei casi di ricorso per revocazione ex art. 391 quater cod. proc. civ. e di particolare rilevanza della questione di diritto, mentre delibera con ordinanza resa all’esito della camera di consiglio ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ., «in ogni altro caso in cui non pronuncia in pubblica udienza» ( art. 375, comma 2, n. 4 quater).
La disposizione delinea un rapporto regola/eccezione secondo cui i ricorsi sono «normalmente» destinati ad essere definiti nel rispetto delle forme previste dall’art. 380 bis 1 cod proc. civ., ossia all’esito di adunanza camerale, salvo che non ricorrano le condizioni indicate nel primo comma dello stesso art. 375 cod. proc. civ., la cui applicabilità, quanto all’ipotesi riferibile all’esercizio del potere nomofilattico, richiede che la questione di diritto sulla quale la Corte è chiamata a pronunciare si presenti di particolare rilevanza, che va esclusa, non solo nell’ipotesi in cui la questione medesima non sia nuova, perché già risolta dalla Corte, ma anche qualora il principio di diritto che la Corte è chiamata ad enunciare sia solo apparentemente connotato da novità, perché conseguenza della
mera estensione di principi già affermati, sia pure in relazione a fattispecie concrete connotate da diversità rispetto a quelle già vagliate.
Quest’ultima evenienza è quella che ricorre nel caso di specie, giacché, se è vero che sulla questione della legittimità della delibera regionale che viene in rilievo questa Corte non si è ancora pronunciata, quanto alla misura del canone provvisorio richiesto, le censure prospettano errores in iudicando e in procedendo in relazione ai quali la pronuncia da rendere non presenta i requisiti richiesti dal richiamato comma 1 dell’art. 375 cod. proc. civ.
3. I primi tre motivi di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, non possono trovare accoglimento perché ripropongono argomenti, a sostegno della ritenuta prevalenza della legge statale nonché della eccepita illegittimità costituzionale della norma regionale, che queste Sezioni Unite hanno già disatteso con più pronunce alle quali il Collegio intende dare continuità.
In particolare a partire da Cass. S.U. 30 marzo 2018 n. 8036 si è evidenziato che la normativa regionale che qui viene in rilievo esula dalla materia della «tutela della concorrenza» di competenza legislativa esclusiva statale e rientra, invece, in quella concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» , in relazione alla quale la Corte Costituzionale ha «disegnato un quadro complesso ma stabile» secondo cui, quanto alle disposizioni relative alla misura dei canoni di concessione, spetta «allo Stato la determinazione dei principi fondamentali (onerosità della concessione e proporzionalità del canone all’entità dello sfruttamento della risorsa pubblica e all’utilità economica che il concessionario ne ricava) e alla Regione la fissazione del quantum nel rispetto dei criteri generali di competenza esclusiva statale che condizionano per ragioni di tutela della concorrenza la determinazione dei valori massimi» ( Corte Cost. 21 luglio 2020 n. 155 punto 2 e negli stessi termini Corte Cost. 16 maggio 2019 n. 119 punto 3.3.).
Cass. S.U. 14 gennaio 2022 n. 1043, nel ribadire il principio già affermato dalla pronuncia sopra citata, ha evidenziato che il canone aggiuntivo trova presupposto e giustificazione nella protrazione della gestione dell’impianto da parte del concessionario uscente ed è privo dei tratti caratteristici e
fondamentali dell’imposta, costituendo, invece, il corrispettivo per lo sfruttamento supplementare della derivazione idrica nonché della gestione dell’impianto nonostante l’ammortamento ormai completato. La maggiorazione, dunque, «trova radice nell’esigenz a di adeguamento ed aggiornamento del canone concessionario alle mutate condizioni economiche del rapporto (sfruttamento della derivazione oltre il periodo massimo previsto) e quindi, in definitiva, di riconduzione ad equità delle prestazioni».
Le richiamate pronunce, attraverso il rinvio alla giurisprudenza del Giudice delle leggi, hanno escluso i profili di illegittimità costituzionale sui quali, in quei casi, avevano fatto leva i ricorrenti ed hanno anche ritenuto infondata la prospettazione della necessaria intangibilità del canone originario, rilevando che la potestà legislativa regionale ricomprende quella di aumentare il canone di concessione, purché risultino rispettati i limiti generali sopra indicati di onerosità e proporzionalità.
3.1. La tesi sostenuta dalla società ricorrente, secondo cui la previsione del canone aggiuntivo da parte del legislatore regionale sarebbe stata consentita solo all’esito della riformulazione, operata dal d.l. 14 dicembre 2018 n. 135, convertito dalla l. 11 fe bbraio 2019 n. 12, dell’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999 è stata espressamente smentita dalla Corte Costituzionale la quale ha escluso che l’intervento regionale sospettato di illegittimità ( in quel caso veniva in rilievo l’art. 4 della legge Friuli Venezia Giulia n. 3 del 2018) violasse i limiti posti alla potestà legislativa regionale ed ha sottolineato che il legislatore statale, nel modificare la normativa previgente e nello stabilire che «le regioni che non abbiano già provveduto disciplinano co n legge…. le modalità, le condizioni, la quantificazione dei corrispettivi aggiunto e gli eventuali altri oneri conseguenti a carico del concessionario uscente….» ha presupposto che «talune regioni possano avere già adottato norme contemplanti un canone aggiuntivo e che tali norme continuino ad operare» ( Corte Cost. n. 119 del 2019 cit.).
3.2. È poi significativo osservare che la pronuncia da ultimo citata esclude anche la disparità di trattamento, denunciata in questa sede dalla società ricorrente, fra gestori operanti in regioni diverse, rilevando che il riconoscimento stesso della competenza legislativa regionale
necessariamente comporta quale conseguenza l’eventualità, legittima alla stregua del sistema costituzionale, di una disciplina divergente da regione a regione.
La previsione del canone aggiuntivo non viola, dunque, gli artt. 117 e 23 Cost. né si pone in contrasto con il principio di parità di trattamento ex art. 3 Cost. perché, quanto ai gestori operanti in ambiti territoriali diversi, valgono le osservazioni del Giudice delle leggi, quanto a quelli che nella medesima regione gestiscono, da un lato, impianti interessati da concessioni scadute, dall’altro concessioni di derivazione idroelettrica non ancora giunte a scadenza, difetta la comparabilità delle situazioni a confronto, posto che solo i primi si trovano ad essere immessi nel possesso di impianti già ammortizzati ed a trarre dagli stessi un’utilità non prevista né prevedibile al momento dell’instaurazione del rapporto concessorio.
3.3. La legittimità dell’imposizione del canone aggiuntivo da parte del legislatore regionale non può essere messa in dubbio invocando le fonti sovranazionali sulle quali la società ricorrente fa leva con il secondo ed il terzo motivo, perché il principio di non discriminazione tra le imprese operanti nel mercato dell’energia elettrica ed il divieto di interventi che incidano negativamente sulla sostenibilità economica dei progetti ammessi al beneficio, non possono essere riferiti agli ex concessionari che, scaduta la concessione, continuano a trarre un’utilità dall’impianto che avrebbero dovuto dismettere.
Al contrario proprio quei principi giustificano l’imposizione del canone aggiuntivo che, lo si ripete, è «correlato al beneficio aggiuntivo ottenuto dal concessionario uscente tramite la prosecuzione, anche se temporanea, della gestione della derivazione m ediante l’impiego protratto di risorse naturali ed impianti già del tutto ammortizzati».
I medesimi principi portano altresì ad escludere la denunciata violazione dell’art. 97 Cost. atteso che , per quanto si è già detto sulla ratio della previsione, la maggiorazione è volta ad assicurare l’imparzialità e l’economicità dell’agire pubblico.
Sono, dunque, infondati i primi tre motivi di ricorso.
Alle medesime conclusioni si perviene quanto al quarto motivo.
Queste Sezioni Unite hanno già affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che «l’ambito del sindacato del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, qualora sia chiamato a pronunciarsi in unico grado sulla legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati, è limitato all’accertamento dei vizi possibili dello svolgimento della funzione pubblica, compresi quelli denotati dalle figure sintomatiche dell’eccesso di potere; esso attiene, quindi, alla verifica della ragionevolezza e proporzionalità della scelta rispetto al fine e non si estende alle ragioni di merito, dovendosi arrestare dinanzi non solo alle ipotesi di scelte equivalenti ma anche a quelle meno attendibili, purché congruenti con il fine da raggiungere e con le esigenze da governare» ( Cass. S.U. 20 gennaio 2023 n. 1885 e negli stessi termini Cass. S.U. 20 aprile 2021 n. 11291 e Cass. S.U. 1° febbraio 2023 n. 3077).
Dal richiamato principio non si è discostata la sentenza n. 159 del 2022 qui impugnata, perché tutte le considerazioni che si leggono nella motivazione sulla congruità e sulla ragionevolezza del parametro oggettivo utilizzato dall’amministrazione, lungi dal costituire uno sconfinamento nel merito dell’azione amministr ativa, sono appunto finalizzate alla verifica della legittimità dell’atto impugnato, del quale il Tribunale ha escluso l’arbitrarietà e l’irragionevolezza, valorizzando innanzitutto la natura provvisoria del canone, come tale non governato dai medesimi principi ai quali l’amministrazione deve attenersi nella quantificazione definitiva, nonché i plurimi dati emergenti dagli atti, tutti convergenti nel senso di far ritenere congrua, proporzionata e ragionevole la misura unitaria indicata.
Il Tribunale ha dato atto che sarebbe stato possibile per la Regione differenziare ab initio il canone aggiuntivo, tenendo conto della diversa tipologia degli impianti e della redditività di ciascuno di essi, ma ha anche aggiunto che detta possibilità non poteva da sola valere a rendere illegittima la delibera adottata, una volta esclusa l’irragionevolezza del criterio prescelto, sicché, così ragionando, non ha fatto altro che applicare il principio di diritto richiamato in premessa, che non consente al giudice di ritenere illegittimo l’operato della pubblica amministrazione solo perché
la tutela dell’interesse pubblico poteva essere perseguita anche optando per una scelta diversa e, in ipotesi, più congruente.
E’ consolidato l’orientamento secondo cui l’eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito è configurabile soltanto quando l’indagine svolta dal Giudice amministrativo ecceda i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, dimostrandosi strumentale ad una diretta e concreta valutazione della opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, evidenzi l’intento dell’organo giudicante di sostituire la propria volontà a quella dell’Amministrazione, mediante una pronuncia che, in quanto espressiva di un sindacato di merito ed avente il contenuto sostanziale e l’esecutorietà propria del provvedimento sostituito, non lasci spazio ad ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. Un. 4/02/2021 n. 2604; 24/05/2019 n. 14264; 26/11/ 2018 n. 30526; 2/02/2018 n. 2582). E’ quanto accade nelle ipotesi in cui il Giudice amministrativo invade arbitrariamente il campo dell’attività riservata alla Pubblica Amministrazione attraverso l’esercizio di poteri di cognizione e di decisione non previsti dalla legge, cioè compiendo atti di valutazione della mera opportunità dell’atto impugnato, oppure sostituendo propri criteri di valutazione a quelli discrezionali dell’Amministrazione, o ancora adottando decisioni finali c.d. autoesecutive, ovverosia interamente sostitutive delle determinazioni dell’Amministrazione, con conseguente trapasso da una giurisdizione di legittimità a quella di merito (cfr. Cass., Sez. Un., 9/11/2011, n. 23302; 15/03/1999, n. 137).
E’ stato precisato al riguardo che «l’ambito del controllo di legittimità del giudice amministrativo esige la pienezza del sindacato non solo sul fatto sottostante il provvedimento devoluto al suo esame, ma pure sulle valutazioni, anche e soprattutto di ordine tecnico, operate dall’amministrazione, col solo ovvio limite del divieto di sostituzione diretta di una propria scelta a quella dell’autorità amministrativa» ( Cass. Sez. U. 9/3/2020 n. 6691).
Nella fattispecie non si è verificata alcuna indebita sostituzione del TSAP all’autorità amministrativa, esclusa alla radice dal rigetto della domanda
di annullamento dell’atto da quest’ultima adottato, e l’indagine che il Tribunale ha condotto, sulle valutazioni di ordine tecnico effettuate dall’ente, è stato, lo si ripete, finalizzato a valutare la sussistenza dei vizi denunciati, nel rispetto dei limiti posti alla giurisdizione di legittimità.
4.1. Né vizia la sentenza impugnata il solo rilievo che a diverse conclusioni era giunto il verificatore, quanto alla congruità del parametro utilizzato.
Nel processo amministrativo la verificazione di cui all’art. 66 cod. proc. amm. è diretta a far emergere «la realtà oggettiva delle cose, e si risolve essenzialmente in un accertamento diretto ad individuare, nella realtà delle cose, la sussistenza di determinati elementi, ovvero a conseguire la conoscenza dei fatti, la cui esistenza non sia accertabile o desumibile con certezza dalle risultanze documentali» (cfr. C.d.S. 14 gennaio 2020 n. 330). Si tratta, dunque, di uno strumento istruttorio che mira all’effettuazione di un mero accertamento tecnico di natura non valutativa che, però, ha ad oggetto fatti complessi, rispetto ai quali anche l’attività meramente accertativa richiede uno specifico sapere scientifico, al quale il giudice fa ricorso in funzione consultiva (cfr. C.d.S. 7 luglio 2021 n. 5169 e C.d.S. 25 marzo 2021 n. 2537).
La consulenza tecnica, invece, disciplinata dal successivo art. 67 cod. proc. amm., consente al giudice di acquisire un giudizio tecnico ed il consulente non si limita «ad un’attività meramente ricognitiva e circoscritta ad un elemento o fatto specifico ma, utilizzando le proprie specifiche cognizioni tecniche, prende in carico situazioni ed oggetti complessi al fine di elaborare un proprio giudizio, e di conseguenza a rispondere al quesito ritenuto dal giudice utile ai fini del decidere con una soluzione tecnicamente idonea alla stregua di un “giudizio di valore”» (C.d.S. 19 ottobre 2017 n. 4848).
Nell’uno e nell’altro caso, peraltro, così come accade nel giudizio dinanzi al giudice ordinario, è consentito disattendere le conclusioni esposte dal verificatore o dal consulente, purché delle ragioni del dissenso il giudice dia adeguato conto, giacché, come queste Sezioni Unite hanno già affermato, si deve escludere «in modo radicale qualsiasi vincolatività dei giudizi valutativi del verificatore sulla autonomia della cognizione del
giudice amministrativo rispetto alle conclusioni assunte in sede di accertamento tecnico» (Cass. S.U. 9 gennaio 2020 n. 158).
Nella fattispecie il Tribunale ha spiegato i motivi per i quali dovevano essere disattese le conclusioni espresse dal verificatore, incentrate, sostanzialmente, sull’omessa considerazione, da parte della Giunta Regionale che aveva recepito il rapporto redatto da RAGIONE_SOCIALE, delle caratteristiche dei singoli siti e della tipologia dei diversi impianti.
5. Infine è infondato anche il quinto motivo.
Nello storico di lite si è riassunto il percorso motivazionale sulla base del quale il Tribunale ha escluso i denunciati profili di illegittimità della delibera regionale, nella parte in cui ha optato, in via provvisoria e salvo successivo conguaglio, per una quantificazione legata al parametro oggettivo, unico per tutti gli impianti, di € 20 per ogni Kw di potenza nominale media annua.
Si tratta del medesimo criterio fatto proprio dal legislatore nazionale con il citato d.l. n. 135 del 2018, nel prevedere la misura minima unica a livello nazionale del canone aggiuntivo medesimo.
Di detto criterio il TSAP, all’esito della valutazione delle risultanze processuali, che non può essere sindacata in questa sede, ha escluso i denunciati profili di irragionevolezza e di eccessiva onerosità, anche in considerazione del carattere provvisorio del canone medesimo e della previsione di successivi conguagli, da effettuare all’esito della valutazione tecnica «impianto per impianto» e dell’applicazione del limite, previsto dalla stessa delibera regionale per il canone aggiuntivo definitivo, del 20% della rendita conseguita dall’operatore.
Non si ravvisa, pertanto, la violazione dei principi generali fissati, in materia di determinazione del canone, dalla normativa statale e valorizzati dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 155/2020 cit.).
In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in € 200,00 per esborsi ed € 8.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Roma, così deciso nella Camera di Consiglio del 5 dicembre 2023