Ordinanza di Cassazione Civile Sez. U Num. 4371 Anno 2024
Civile Ord. Sez. U   Num. 4371  Anno 2024
Presidente: COGNOME PASQUALE
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 19/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso 27489-2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato  NOME  COGNOME,  che  la  rappresenta  e  difende unitamente all’ avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente pro tempore , elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO, presso lo studio  dell’avvocato  NOME  COGNOME,  rappresentata  e  difesa  dagli avvocati NOME COGNOME ed NOME COGNOME;
– controricorrente –
contro
PROVINCIA DI SONDRIO;
– intimata –
Oggetto
TSAP
CONTENZIOSO
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO2022
COGNOME.
Rep.
Ud. 05/12/2023
CC
avverso la sentenza non definitiva n. 22/2021 depositata il 03/02/2021 e la sentenza definitiva n. 163/2022 depositata il 03/08/2022, entrambe del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE.
Udita  la  relazione  della  causa  svolta  nella  camera  di  consiglio  del 05/12/2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La società RAGIONE_SOCIALE impugna la sentenza parziale n. 22 del 3 febbraio 2021 e la pronuncia definitiva n. 163 del 3 agosto 2022, con le quali il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche ha respinto il ricorso, proposto nei confronti della Regione Lombardia e della Provincia di Sondrio, volto ad ottenere l’annullamento degli atti deliberativi adottati dalla Giunta Regionale e dal dirigente della Direzione RAGIONE_SOCIALE Sostenibile, aventi ad oggetto la quantificazione del canone aggiuntivo, previsto dall’art. 53 bi s, comma 5, della l.r. Lombardia 12 dicembre 2012 n. 26, preteso dalla Regione Lombardia in relazione alla prosecuzione temporanea della concessione di grande derivazione ad uso idroelettrico inerente all’impianto di Grosio, concessione scaduta il 15 novembre 2016.
La società aveva domandato l’annullamento degli atti analiticamente indicati nelle sentenze impugnate, da un lato, facendo leva sull’eccepita illegittimità costituzionale del citato art. 53 bis che, nel prevedere la corresponsione del canone aggiuntivo, avrebbe violato gli artt. 117, 23, 119 e 3 Cost.; dall’altro eccependo l’erroneità e l’incongruenza, sul piano metodologico, tecnico ed economico, della quantificazione provvisoria, operata sulla base del documento di «analisi scenari di impatto» elaborato da RAGIONE_SOCIALE.
Aveva, altresì, formulato uno specifico motivo di ricorso per censurare la delibera della Giunta regionale n. 5823 del 18 novembre 2016 nella parte in cui aveva escluso per il periodo di prosecuzione provvisoria l’esenzione parziale prevista dall’art. 73 d el  r.d.  n.  1775/1933, esenzione prevista, invece, nel disciplinare della concessione scaduta
 Il  TSAP  con  la  sentenza  non  definitiva  n.  22  del  2021,  respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla Regione Lombardia,
ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 53 bis ed ha richiamato al riguardo le sentenze di queste Sezioni Unite n. 8036/2018 e n. 15990/2020.
Ha ritenuto priva di fondamento la pretesa della società ricorrente al mantenimento delle stesse condizioni economiche stabilite per il periodo antecedente alla scadenza della concessione ed ha rilevato che il canone aggiuntivo compensa la non prevista pro secuzione nell’esercizio della concessione medesima e costituisce una misura indennitaria e di riequilibrio rispetto al vantaggio consistente nell’utilizzo, oltre che delle risorse naturali, anche degli impianti di derivazione, ormai ammortizzati.
Ha  escluso  l’eccepita  violazione,  da  parte  della  delibera  della  giunta regionale,  della  disciplina  statale  e  regionale  concernente  il  beneficio dell’esonero  parziale  dal  canone, ritenendo  non  applicabile,  una  volta scaduta la concessione, l’invocato art. 73 del T.U. n. 1775 del 1933.
Infine, quanto ai rilievi inerenti alla manifesta sproporzione ed alla erroneità dei criteri di calcolo, il Tribunale ha rilevato che in altri giudizi aventi il medesimo oggetto, rubricati ai nn. 300 e 301 R.G. 2016, era stata disposta una verificazione tecnico economica diretta ad accertare l’attendibilità della metodologia e dei criteri osservati dall’amministrazione regionale ai fini della quantificazione del canone aggiuntivo. Ha ritenuto opportuno attendere l’esito della verificazione già in corso, del la quale ha disposto l’acquisizione a cura della Cancelleria, rinviando a udienza fissa per l’ulteriore trattazione e sollecitando il contraddittorio sull’incidenza della l.r. Lombardia n. 5/2020 nella parte in cui prevede all’art. 23, comma 2, che sono confermate le modalità e le condizioni per la quantificazione dei corrispettivi aggiuntivi e gli altri eventuali oneri conseguenti stabiliti a carico del concessionario uscente dall’art. 53 bis della l.r. n. 26/2003.
2.1.  La  sentenza  definitiva  n.  163    del  2022,  dopo  aver  richiamato  le conclusioni del verificatore e la motivazione della sentenza parziale, ha premesso che l’unico limite alla determinazione della misura del canone aggiuntivo  va  individuato  nel  rispetto  dei  principi  fondamentali  della legislazione  statale  di  onerosità  della  concessione  e  di  proporzionalità all’effettiva  entità  dello  sfruttamento  delle  risorse  pubbliche  che  la
concessione  comporta  ed  all’utilità  economica  che  il  concessionario  ne ricava.
Ha aggiunto che dalla ricognizione del quadro normativo in materia emerge che plurime disposizioni di legge, sia pure non applicabili alla controversia, prevedono a carico del concessionario di grande derivazione scaduta l’obbligo di versare un canone aggi untivo determinato in un importo non inferiore a quello previsto dalla delibera impugnata. Ha ricordato, sempre in premessa, che il giudice di merito, così come non ha alcun obbligo di ricorrere al consulente tecnico d’ufficio, ne può motivatamente disattendere le conclusioni esaminando direttamente la documentazione su cui si basa la relazione.
Il Tribunale ha, quindi, evidenziato l’ontologica diversità fra la misura definitiva del canone aggiuntivo, per la quale la delibera regionale ha fissato il limite del 20% della rendita conseguita dal concessionario uscente nel periodo di esercizio dell’im pianto eccedente la concessione, ed il canone provvisorio, ancorato per tutti gli ex concessionari alla potenza nominale media annua, a prescindere da qualsiasi riferimento alle caratteristiche ed alla redditività degli impianti stessi. Ha rilevato che il parametro della potenza nominale media annua, ritenuto idoneo ed appropriato anche dalla Corte Costituzionale, si fonda su dati oggettivi e storici di produzione e di ricavi, lì dove la redditività concreta dei diversi impianti è collegata anche a scelte soggettive degli imprenditori, i quali possono variare la produzione adattandola ai consumi e ai mercati elettrici. Ha aggiunto che sotto il profilo della proporzionalità e della ragionevolezza risulta assai modesta l’incidenza del canone aggiuntivo provvis orio sui ricavi, considerata l’elevata redditività della gestione in regime di prosecuzione temporanea effettuata avvalendosi di impianti già del tutto ammortizzati. Ha evidenziato, altresì, che l’analisi condotta da RAGIONE_SOCIALE, fatta propria dalla Giunta regionale, si fonda su presupposti e dati (l’ipotizzato funzionamento degli impianti per il 100% del tempo disponibile ed il prezzo medio zonale di vendita pari a 60 €/kw) non inattendibili e tali da giustificare la proposta, poi recepita, del canone aggiuntivo provvisorio unico per tutti gli impianti di importo tutt’altro che eccessivo.
Quanto alle diverse conclusioni alle quali è pervenuta la verificazione, il Tribunale ha rilevato che nella sostanza il verificatore ha ravvisato l’errore metodologico nel non avere considerato, anche ai fini della quantificazione del  canone  aggiuntivo  provvisorio,  le  caratteristiche  specifiche  e  la redditività dei singoli impianti.
Ha, però, ritenuto non irragionevole ed arbitraria la scelta di valorizzare il solo dato oggettivo, in ragione della provvisorietà della determinazione e della previsione del successivo meccanismo di conguaglio al momento del prelievo definitivo.
Per la cassazione delle sentenze ha proposto ricorso la RAGIONE_SOCIALE sulla base di quattro motivi, ai quali la Regione Lombardia ha opposto difese con controricorso, mentre è rimasta intimata la Provincia di Sondrio.
Con istanza del 14 novembre 2023 i difensori della società ricorrente hanno sollecitato la trattazione del ricorso in udienza pubblica ex art. 375 cod. proc. civ., in ragione dell’oggetto del contendere, tale da coinvolgere una pluralità di soggetti nonché interessi di carattere generale, e della novità delle questioni giuridiche trattate.
Entrambe le parti costituite hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1.  Il  ricorso  della  RAGIONE_SOCIALE,  con  il  primo  motivo,  formulato  ai  sensi dell’art.  360  n.  3  cod.  proc.  civ.,  censura  il  capo  della  sentenza  non definitiva  n.  22  del  3  febbraio  2021  che  ha  ritenuto  non  spettante  nel periodo  di  prosecuzione  temporanea  l’eson ero  parziale  dal  canone, ritenuto concedibile solo sino a quando permane in vita la concessione scaduta.
La società denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 73 del R.D. n. 1775/1993 e dell’art. 35 del R.D. n. 1775/1933 -violazione dell’art. 12, comma 8 bis, del d.lgs. n. 79/1999 nella versione ratione temporis vigente – violazione del principio di legalità e falsa applicazione della legge 5 giugno 2003 n. 131 – falsa ed errata applicazione della l.r. n. 26 del 2003, art. 53 bis, comma 5» e, ribadito che la concessione prevedeva espressamente l’esonero parziale dal pagamento del canone sulla potenza
nominale di kilowatt 34.597, rileva che detto esonero doveva essere riconosciuto anche per il periodo di prosecuzione temporanea atteso che, da un lato, la legislazione statale fa espresso riferimento (art. 12, comma 8 bis, del d.lgs. n. 79/1999) alle «stesse condizioni stabilite dalle normative e dal disciplinare di concessione vigenti», dall’altro la legislazione regionale non prevede alcuna specifica deroga del principio che, anzi, conferma attraverso il rinvio, contenuto nel comma 5 dell’art. 53 bis, «ai canoni e sopra canoni e alla cessione gratuita di energia già stabiliti». Rileva, inoltre, che la legislazione regionale doveva necessariamente conformarsi a quella statale in quanto il richiamato d.lgs. n. 79/1999 e, prima ancora, il d.lgs. n. 112/1998, nonché il d.lgs. n. 152/2006, art. 154, ed il d.l. n. 83/2012, art. 37, comma 7, riserva allo Stato lo stabilire i criteri generali per la determinazione dei canoni di concessione.
1.2. Con il secondo motivo, proposto avverso la sentenza definitiva n. 163 del  3  agosto  2022,  è  denunciata,  ex  art.  360  n.  3  cod.  proc.  civ.,  la violazione e falsa applicazione degli artt. 196 e 208 del R.d. n. 1775/1933, degli artt. 63 e 66 cod. proc. amm ., dell’art. 2909 cod. civ., dell’art. 115 cod. proc. civ., degli artt. 24 e 111 Cost..
La società ricorrente rileva che ha errato la sentenza definitiva nel richiamare principi che valgono per la consulenza tecnica e non per la verificazione che ha carattere accertativo e non valutativo. Richiama il quesito posto al verificatore, inerente alla attendibilità dei criteri ed alla metodologia di calcolo del canone aggiuntivo, e sostiene che la sentenza definitiva ha finito per operare un «palese ribaltamento della prospettiva» e per negare lo stesso quesito formulato, al quale il verificatore si era puntualmente attenuto. Ravvisa in ciò una violazione dell’art. 66 cod. proc. amm. e sostiene che, una volta indicato il tema dell’accertamento demandato al verificatore, il giudice non può più disconoscerne la rilevanza rispetto al tema controverso. Ne trae come conseguenza che la sentenza definitiva non poteva porsi in contrasto con quella non definitiva che aveva già pronunciato sulla necessità dell’indagine, nei termini indicati nel quesito.
1.3.  La  sentenza  definitiva  è  censurata  anche  con  la  terza  critica, ricondotta  ai  nn.  1  e  3  dell’art.  360  cod.  proc.  civ.,  che  denuncia  la violazione degli artt. 143 e 201 del R.D. n. 1775/1933, degli artt. 7, 9 e 34 del d.lgs. n. 104/2010, dell’art. 111, comma 8, Cost..
La ricorrente sostiene, in sintesi, che il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche  ha  violato  i  limiti  propri  della  giurisdizione  di legittimità nell’esprimere valutazioni che, non solo non considerano l’attività svolta dal  verificatore  e  le  allegazioni  delle  parti,  ma  attengono  al  merito dell’attività amministrativa.
1.4. Infine con il quarto motivo si addebita, sempre alla sentenza definitiva, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.. Ribadito che la sentenza definitiva è frutto del «ribaltamento» della prospettiva e dei presupposti rispetto alle statuizioni della pronuncia parziale, la ricorrente sostiene che il Tribunale ha espresso una valutazione di conformità del canone aggiuntivo stabilito in via provvisoria senza motivare adeguatamente sulle ragioni per le quali ha ritenuto di discostarsi dal risultato della verificazione e senza disporre ulteriori indagini, come invece sarebbe stato necessario.
Preliminarmente rileva il Collegio che deve essere disattesa l’istanza di rinvio a nuovo ruolo e di fissazione dell’udienza pubblica ex art. 375 cod. proc. civ..
All’esito della riformulazione dell’art. 375 cod. proc. civ., operata dal d.lgs. n. 149/2022, la Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, pronuncia in pubblica udienza unicamente nei casi di ricorso per revocazione ex art. 391 quater cod. proc. civ. e di particolare rilevanza della questione di diritto, mentre delibera con ordinanza resa all’esito della camera di consiglio ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ., «in ogni altro caso in cui non pronuncia in pubblica udienza» ( art. 375, comma 2, n. 4 quater).
La disposizione delinea un rapporto regola/eccezione secondo cui i ricorsi sono «normalmente» destinati ad essere definiti nel rispetto delle forme previste  dall’art.  380  bis  1  cod  proc.  civ.,  ossia  all’esito  di  adunanza camerale, salvo che non ricorrano le condizioni indicate nel primo comma dello stesso art. 375 cod. proc. civ., la cui applicabilità, quanto all’ipotesi riferibile all’esercizio del potere nomofilattico, richiede che la questione di
diritto sulla quale la Corte è chiamata a pronunciare si presenti di particolare rilevanza, che va esclusa, non solo nell’ipotesi in cui la questione medesima non sia nuova, perché già risolta dalla Corte, ma anche qualora il principio di diritto che la Corte è chiamata ad enunciare sia solo apparentemente connotato da novità, perché conseguenza della mera estensione di principi già affermati, sia pure in relazione a fattispecie concrete connotate da diversità rispetto a quelle già vagliate.
Quest’ultima evenienza è quella che ricorre nel caso di specie, giacché, se è vero che sulla questione della legittimità della delibera regionale che viene  in  rilievo  questa  Corte  non  si  è  ancora  pronunciata,  quanto  alla misura del canone provvisorio richiesto, le censure prospettano errores in iudicando e in procedendo in relazione ai quali la pronuncia da rendere non presenta i requisiti richiesti dal richiamato comma 1 dell’art. 375 cod. proc. civ.
Nello storico di lite si è evidenziato che il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, con la sentenza non definitiva n. 22 del 2021, ha innanzitutto ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 53 della l.r. Lombardia n. 26 del 2003, nella parte in cui, nel prevedere la prosecuzione temporanea da parte dei concessionari uscenti delle concessioni scadute o in scadenza, la subordina, oltre che al rispetto delle condizioni tecniche ed economiche stabilite dalla Giunta Regionale, al pagamento di «un canone aggiuntivo rispetto ai canoni e sovracanoni e alla cessione gratuita di energia già stabiliti».
Si tratta di conclusioni che queste Sezioni Unite hanno già condiviso, evidenziando che il canone aggiuntivo si pone in relazione funzionale e corrispettiva con la protrazione dell’esercizio della grande derivazione idrica e pertanto, da un lato, è privo dei tratti caratteristici e fondamentali dell’imposta, soggetta alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., dall’altro la sua previsione costituisce legittima manifestazione della potestà legislativa regionale, in quanto inerente alla materia, non già della concorrenza, bensì della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, rientrante nella legislazione concorrente ex art.117, comma
3, Cost. ( si rimanda a Cass. S.U. 14 gennaio 2022 n. 1043; Cass. S.U. 27 luglio 2020 n. 15990; Cass. S.U.  30 marzo 2018 n. 8036).
4. Il primo motivo di ricorso è infondato perché la ricorrente, che fa leva sull’interpretazione della normativa regionale, nella parte in cui valorizza le misure già stabilite dei canoni e sovracanoni, nonché sulla disciplina statale, nella parte in cui prevede, come principio di carattere generale, che la prosecuzione della concessione debba avvenire alle stesse condizioni stabilite dalle normative e dal disciplinare di concessione vigenti, non considera la particolare natura e la finalità del beneficio di cui invoca la conservazione, che univocamente indirizzano verso l’esclusione della conservazione del beneficio medesimo per il periodo successivo alla scadenza della concessione, periodo in cui, come queste Sezioni Unite hanno già rilevato, il concession ario uscente gestisce l’impianto «in via di fatto e per conto della Regione» ( Cass. S.U. 30 marzo 2018 n. 8036).
L’art. 73 del R.d. n. 1775/1933, che si colloca fra le disposizioni dettate al capo terzo del R.d. intitolato «disposizioni speciali per la costruzione di serbatoi e laghi artificiali», prevede che possono essere concessi a chi «ottenga la concessione di costruire serbatoi o laghi artificiali o altre regolanti il deflusso delle acque pubbliche», «l’esonero parziale o totale dal canone per la derivazione salva però sempre la quota devoluta agli enti locali» o « la facoltà di sottoporre a contributo i fondi irrigabili» o, ancora, «contributi governativi con facoltà di vincolarli a garanzia delle operazioni finanziarie per la costruzione delle opere», la cui disciplina è poi analiticamente dettata dalle disposizioni che seguono.
Si tratta, quindi, di benefici che si correlano alla realizzazione delle opere necessarie per la gestione dell’impianto e si giustificano in considerazione, da  un  lato,  dell’interesse  pubblico  all’intervento  modificativo,  dall’altro della previsione, conte nuta nell’art. 25 dello stesso R.d., dell’acquisizione da  parte  dello  Stato,  una  volta  scaduta  la  concessione,  delle  opere medesime.
Se questa è la ratio del beneficio, appare evidente che lo stesso non ha più ragion d’essere un volta che, spirato il termine finale della concessione, il  concessionario  uscente  rimanga  nel  possesso  dell’impianto  ormai ammortizzato, dal quale continua a trarre un’utilità.
Le medesime ragioni che stanno a fondamento della previsione del canone aggiuntivo, giustificano anche la cessazione, alla scadenza della concessione, dell ‘esenzione parziale o totale disposta ai sensi dell’art. 77 del citato r.d.
Parimenti infondati sono il secondo, il terzo ed il quarto motivo, che in ragione della loro connessione logica e giuridica possono essere trattati unitariamente.
Queste Sezioni Unite hanno già affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che «l’ambito del sindacato del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, qualora sia chiamato a pronunciarsi in unico grado sulla legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati, è limitato all’accertamento dei vizi possibili dello svolgimento della funzione pubblica, compresi quelli denotati dalle figure sintomatiche dell’eccesso di potere; esso attiene, quindi, alla verifica della ragionevolezza e proporzionalità della scelta rispetto al fine e non si estende alle ragioni di merito, dovendosi arrestare dinanzi non solo alle ipotesi di scelte equivalenti ma anche a quelle meno attendibili, purché congruenti con il fine da raggiungere e con le esigenze da governare» ( Cass. S.U. 20 gennaio 2023 n. 1885 e negli stessi termini Cass. S.U. 20 aprile 2021 n. 11291 e Cass. S.U. 1° febbraio 2023 n. 3077).
Dal richiamato principio non si è discostata la sentenza n. 163 del 2022 qui impugnata, perché tutte le considerazioni che si leggono nella motivazione sulla congruità e sulla ragionevolezza del parametro oggettivo utilizzato dall’amministrazione, lungi da l costituire uno sconfinamento nel merito dell’azione amministrativa, sono appunto finalizzate alla verifica della legittimità dell’atto impugnato, del quale il Tribunale ha escluso l’arbitrarietà e l’irragionevolezza, valorizzando innanzitutto la natura provvisoria del canone, come tale non governato dai medesimi principi ai quali l’amministrazione deve attenersi nella quantificazione definitiva, nonché i plurimi dati emergenti dagli atti, tutti convergenti nel senso di far ritenere congrua, proporzionata e ragionevole la misura unitaria indicata.
Il  Tribunale  ha  dato  atto  che  sarebbe  stato  possibile  per  la  Regione differenziare ab initio il  canone aggiuntivo, tenendo conto della diversa
tipologia degli impianti e della redditività di ciascuno di essi, ma ha anche aggiunto che detta possibilità non poteva da sola valere a rendere illegittima la delibera adottata, una volta esclusa l’irragionevolezza del criterio prescelto, sicché, così ragionando, non ha fatto altro che applicare il principio di diritto richiamato in premessa, che non consente al giudice di ritene re illegittimo l’operato della pubblica amministrazione solo perché la tutela dell’interesse pubblico poteva essere perseguita an che optando per una scelta diversa e, in ipotesi, più congruente.
E’ consolidato l’orientamento secondo cui l’eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito è configurabile soltanto quando l’indagine svolta dal Giudice amministrativo ecceda i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, dimostrandosi strumentale ad una diretta e concreta valutazione della opportunità e convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, evidenzi l’intento dell’organo giudicante di sostituire la propria volontà a quella dell’Amministrazione, mediante una pronuncia che, in quanto espressiva di un sindacato di merito ed avente il contenuto sostanziale e l’esecutorietà propria del provvedimento sostituito, non lasci spazio ad ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. Un. 4/02/2021 n. 2604; 24/05/2019 n. 14264; 26/11/ 2018 n. 30526; 2/02/2018 n. 2582). E’ quanto accade nelle ipotesi in cui il Giudice amministrativo invade arbitrariamente il campo dell’attività riservata alla Pubblica Amministrazione attraverso l’esercizio di poteri di cognizione e di decisione non previsti dalla legge, cioè compiendo atti di valutazione della mera opportunità dell’atto impugnato, oppure sostituendo propri criteri di valutazione a quelli discrezionali dell’Amministrazione, o ancora adottando decisioni finali c.d. autoesecutive, ovverosia interamente sostitutive delle determinazioni dell’Amministrazione, con conseguente trapasso da una giurisdizione di legittimità a quella di merito (cfr. Cass., Sez. Un., 9/11/2011, n. 23302; 15/03/1999, n. 137).
E’ stato precisato al riguardo che «l’ambito del controllo di legittimità del giudice amministrativo esige la pienezza del sindacato non solo sul fatto sottostante  il  provvedimento  devoluto  al  suo  esame,  ma  pure  sulle
valutazioni, anche e soprattutto di ordine tecnico, operate dall’amministrazione, col solo ovvio limite del divieto di sostituzione diretta di una propria scelta a quella dell’autorità amministrativa» ( Cass. Sez. U. 9/3/2020 n. 6691).
Nella fattispecie non si è verificata alcuna indebita sostituzione del TSAP all’autorità amministrativa, esclusa alla radice dal rigetto della domanda di  annullamento  dell’atto  da  quest’ultima  adottato,  e  l’indagine  che  il Tribunale  ha  condotto,  sulle  valutazioni  di  ordine  tecnico  effettuate dall’ente, è stato, lo si ripete, finalizzato a valutare la sussistenza dei vizi denunciati, nel rispetto dei limiti posti alla giurisdizione di legittimità.
5.1. Né vizia la sentenza impugnata il solo rilievo che a diverse conclusioni era giunto il verificatore, quanto alla congruità del parametro utilizzato.
Nel processo amministrativo la verificazione di cui all’art. 66 cod. proc. amm. è diretta a far emergere «la realtà oggettiva delle cose, e si risolve essenzialmente in un accertamento diretto ad individuare, nella realtà delle cose, la sussistenza di determinati elementi, ovvero a conseguire la conoscenza dei fatti, la cui esistenza non sia accertabile o desumibile con certezza dalle risultanze documentali» (cfr. C.d.S. 14 gennaio 2020 n. 330). Si tratta, dunque, di uno strumento istruttorio che mira all’effettuazione di un mero accertamento tecnico di natura non valutativa che, però, ha ad oggetto fatti complessi, rispetto ai quali anche l’attività meramente accertativa richiede uno specifico sapere scientifico, al quale il giudice fa ricorso in funzione consultiva (cfr. C.d.S. 7 luglio 2021 n. 5169 e C.d.S. 25 marzo 2021 n. 2537).
La consulenza tecnica, invece, disciplinata dal successivo art. 67 cod. proc. amm., consente al giudice di acquisire un giudizio tecnico ed il consulente non si limita «ad un’attività meramente ricognitiva e circoscritta ad un elemento o fatto specifico ma, utilizzando le proprie specifiche cognizioni tecniche, prende in carico situazioni ed oggetti complessi al fine di elaborare un proprio giudizio, e di conseguenza a rispondere al quesito ritenuto dal giudice utile ai fini del decidere con una soluzione tecnicamente idonea alla stregua di un “giudizio di valore”» (C.d.S. 19 ottobre 2017 n. 4848).
Nell’uno e nell’altro caso, peraltro, così come accade nel giudizio dinanzi al giudice ordinario, è consentito disattendere le conclusioni esposte dal verificatore o dal consulente, purché delle ragioni del dissenso il giudice dia adeguato conto, giacché, come queste Sezioni Unite hanno già affermato, si deve escludere «in modo radicale qualsiasi vincolatività dei giudizi valutativi del verificatore sulla autonomia della cognizione del giudice amministrativo rispetto alle conclusioni assunte in sede di accertamento tecnico» (Cass. S.U. 9 gennaio 2020 n. 158).
Nella  fattispecie  il  Tribunale  ha  spiegato  i  motivi  per  i  quali  dovevano essere  disattese  le  conclusioni  espresse  dal  verificatore,  incentrate, sostanzialmente, sull’omessa considerazione, da parte della Giunta Regionale  che  aveva  recepito  il  rapporto  redatto  da  RAGIONE_SOCIALE, delle caratteristiche dei singoli siti e della tipologia dei diversi impianti.
5.2. La motivazione resa non è né apparente né contraddittoria.
Occorre ribadire al riguardo l’orientamento consolidato espresso da queste Sezioni Unite secondo cui la sentenza del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, soggetta ratione temporis all’applicazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come riformulato dal d.l. n. 83/2012, è ricorribile per cassazione per vizio di motivazione solo qualora il vizio integri violazione di legge costituzionalmente rilevante (art. 111 Cost.), da denunciare ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ. in relazione all’art. 132 n. 4 cod. proc. civ.. Rilevano, di conseguenza, solo i profili dell’inesistenza o della mera apparenza per intrinseca inidoneità a consentire il controllo delle ragioni che stanno alla base della decisione, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, e purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, mentre non rientra nei compiti della Corte di cassazione la verifica della sufficienza o della razionalità della motivazione in ordine alle quaestiones facti , verifica che comporta un raffronto tra le ragioni del decidere espresse nella sentenza impugnata e le risultanze istruttorie sottoposte al vaglio del giudice del merito ( cfr. fra le tante più recenti Cass. S.U. 6 giugno 2023 n. 15931; Cass. S.U. 4 luglio 2023 n. 18843; Cass. S.U. 6 luglio 2023 n. 19227).
I motivi sono dunque inammissibili nelle parti in cui, attraverso la denuncia del  vizio  motivazionale,  sollecitano  un  raffronto  fra  la  motivazione  e  le risultanze processuali,  e,  quindi,  un  esame  diretto  delle  risultanze istruttorie non consentito alla Corte di Cassazione.
 Infine  non  sussiste  il  denunciato  contrasto  fra  le  due  pronunce impugnate in questa sede.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, in sede di  sentenza definitiva, il giudice resta vincolato dalla sentenza non definitiva, anche se non passata in giudicato, in ordine alle questioni decise ed a quelle che ne costituiscano il presupposto logico necessario, senza poter più risolvere le stesse questioni in senso diverso ( cfr. fra le tante Cass. 9 novembre 2021 n.  32654; Cass. 23 giugno 2021 n. 17950; Cass n. 5 ottobre 2020 n. 21258).
Nel caso di specie, peraltro, sulla congruità del canone provvisorio il TSAP con la sentenza n. 16 del 2021 non ha reso alcuna statuizione, avendo solo ritenuto opportuno attendere l’esito della verificazione tecnico -economica già disposta in altri giudizi aventi il medesimo oggetto. Si tratta, all’evidenza, di un provvedimento di carattere meramente ordinatorio ed istruttorio, che non risolve in alcun modo la questione ancora controversa e, come tale, inidoneo a limitare il potere di decisione in sede di adozione della sentenza definitiva.
 In  via  conclusiva  il  ricorso  deve  essere  rigettato,  con  conseguente condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti  precisati  da  Cass.  S.U.  n.  4315/2020,  della  ricorrenza  delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dalla società ricorrente.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in € 200,00 per esborsi ed
€ 8.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente,  dell’ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo  unificato  pari  a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 5 dicembre 2023