Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 16067 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 16067 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11230/2019 R.G. proposto da:
NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME (CODICE_FISCALE), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME, rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE);
– controricorrenti –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI BARI n. 203/2019 depositata il 29/01/2019;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 08/03/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
RILEVATO CHE:
RAGIONE_SOCIALE conveniva in giudizio NOME COGNOME, titolare dell’omonima ditta individuale, chiedendo la sua condanna al pagamento della somma di €323.658,23 a titolo di residuo del corrispettivo di un contratto di subappalto intercorso tra le parti per la realizzazione di opere a cura della RAGIONE_SOCIALE aventi ad oggetto impianti tecnologici presso la committente, Masseria Saraceno in Taranto.
1.1. Il Tribunale di Bari -Sez. stralcio di Rutigliano accoglieva la domanda attrice che, nel frattempo, aveva aderito nel quantum alle risultanze della CTU, condannando l’COGNOME al pagamento del saldo pari alla somma di €128.019,40.
NOME COGNOME impugnava la pronuncia innanzi alla Corte d’Appello di Bari, che rigettava il gravame. A sostegno della sua decisione, per quel che qui ancora rileva, osservava la Corte che:
-va disattesa l’eccezione di cessazione della materia del contendere sollevata da parte appellante, stante la rinuncia al credito (quale mera pretesa) da parte della società in séguito alla cancellazione dal registro delle imprese avvenuta nel gennaio 2014. Nel caso di specie, infatti, l’oggetto della controversia riguarda un diritto di credito già accertato giudizialmente seppure in primo grado, quindi certo, liquido ed esigibile: tanto che, già nel novembre 2013 la società aveva eme sso fatture per l’impo rto liquidato in sentenza, quindi rispetto ad un credito compreso nel bilancio della società. Inoltre, nel verbale di assemblea del 10.12.2013, nel deliberare la chiusura della società i soci avevano liquidato e ripartito il credito in questione in parti uguali tra gli stessi, con ciò manifestando chiaramente, con il subentro nella titolarità del credito, la loro volontà personale di proseguire i giudizi in corso;
in difetto di prova della precisa pattuizione del costo delle opere commissionate alla società appellata, le stesse andavano accertate e quantificate a mezzo di una consulenza tecnica ex art. 1657 cod. civ. Infatti, oltre a non esserci alcuna specifica pattuizione in ordine ai lavori eseguiti dalla società, non vi è alcun valore confessorio attribuibile alle missive intercorse tra le parti.
Avverso detta sentenza NOME COGNOME proponeva ricorso per cassazione, affidandolo a quattro motivi.
Resistevano depositando controricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME.
In prossimità dell’adunanza entrambe le parti depositavano memorie.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto sostanziale (artt. 2495, 2324 e 2312 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. Il ricorrente contesta la conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata nella parte in cui ritiene che la sentenza di primo grado, per il fatto di essere provvisoriamente esecutiva, sia idonea a consacrare un diritto di credito certo o già accertato giudizialmente, ritenendo con ciò possibile la sua trasmissione ai soci a titolo di successione universale, una volta cancellata la società dal registro delle imprese. A giudizio del ricorrente, alla luce della costante giurisprudenza di legittimità, si dovrebbe al contrario affermare il principio secondo cui nelle società di persone, ed a séguito di cancellazione volontaria dal registro delle imprese, non si verifica fenomeno di successione a titolo universale in favore dei soci in relazione a pretese creditorie oggetto di contenzioso giudiziale fino al passaggio in giudicato della sentenza che le accerti, dovendosi di
conseguenza tali pretese intendersi rinunciate con cessazione della materia del contendere.
Con il secondo motivo si deduce nullità della sentenza per violazione e malgoverno di norme di diritto processuale (artt. 110 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ.). Ancora con riguardo alla parte della decisione di appello che ha disatteso l’eccezione di cessazione della materia del contendere, il ricorrente denuncia la valorizzazione a cura della Corte della delibera assembleare del 10.12.2013: a giudizio del ricorrente, non si tratta di una delibera di chiusura della società, atteso che – dalla visura datata 17.05.2016 – emerge che la società era stata posta in liquidazione con atto del 20.12.2013 e che si era chiusa con domanda iscritta il 23.12.2013. Pertanto, la delibera in questione deve essere qualificata come una mera manifestazione di intenti, posto che la liquidazione di una società (sia essa di capitali che di persone) si perfeziona e verifica solo con l’approvazione del bilancio finale di liquidazione e del piano di riparto, nei quali soltanto può essere prevista e disciplinata la sorte di eventuali crediti anche litigiosi. Trattandosi, quindi, al più di una successione a titolo particolare nel diritto controverso, deve essere dichiarata la nullità della sentenza impugnata anche sotto tale profilo, avendo la Corte distrettuale erroneamente riconosciuto la legittimità della prosecuzione da parte dei soci a norma dell’art. 110 cod. proc. civ.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto entrambi sollevano -sotto diversi profili – la stessa questione di diritto inerente alla trasmissione ai soci a titolo di successione universale di un credito societario, e sono entrambi infondati.
3.1. Occorre preliminarmente chiarire che, contrariamente a quanto affermato nel secondo mezzo di gravame, questa Corte ha già
avuto modo di stabilire che la cancellazione della società di persone dal registro delle imprese determina l’estinzione della società stessa, privandola della capacità di stare in giudizio, sicché, quando ciò intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la medesima è parte, ancorchè questo non sia interrotto per mancata dichiarazione del corrispondente evento da parte del suo difensore, la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ai sensi dell’art. 11 0 cod. proc. civ., ai soci quali successori a titolo universale divenuti partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione (Cass. Sez. L, Sentenza n. 13183 del 25/05/2017, Rv. 644517 -01; Cass. Sez. L, Sentenza n. 19580 del 04/08/2017, Rv. 645591 – 01).
Il soggetto che agisce a tutela della pretesa creditoria di una società cancellata dal registro delle imprese ha l’onere di allegare espressamente e, poi, di dimostrare la propria qualità di avente causa della società, come assegnatario del credito in base al bilancio finale di liquidazione oppure come successore nella titolarità di un credito non inserito nel bilancio e non oggetto di tacita rinuncia, senza che assuma alcun rilievo la dichiarata qualità di ex socio o di liquidatore, non necessariamente implicante la successione nella posizione giuridica (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 8521 del 25/03/2021, Rv. 661007 – 01).
3.2. Tanto precisato, è necessario chiarire, anche alla luce dell’orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte, in quali situazioni possa essere identificata una rinuncia tacita alle pretese creditorie.
3.2.1. L’art. 2495 cod. civ. vigente ratione temporis recita: «1. Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. 2. Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori
sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società». Già nel 2010, questa Corte ha pronunciato tre sentenze, rese a Sezioni Unite, con le quali ha chiarito che, anche nelle società di persone, la cancellazione determina il venir meno della loro capacità e soggettività, se pure soltanto con effetto dichiarativo e non costitutivo, negli stessi termini in cui analogo effetto (costitutivo) si produce per le società di capitali (Cass. Sez. U, Sentenza nn. 4060,4061 e 4062 del 22/02/2010, Rv. 612083 -01; Cass. Sez. 1, n. 26196 del 19.12.2016, Rv. 642761 – 01; Cass. Sez. 3, n. 12155 del 14.06.2016). L’art. 2495, comma 2, cod. civ. ammette la cancellazione e, quindi, l’estinzione di una società dal registro delle imprese anche se essa ha ancora debiti verso terzi: proprio per questa evenienza dispone espressamente il comma secondo per il quale, ferma appunto restando l’estinzione della società, gli eventuali creditori insoddisfatti possono sempre agire contro gli ex soci, nei limiti di quanto da questi ultimi percepito ad esito della liquidazione; e contro i liquidatori, ove il mancato pagamento sia dipeso da loro colpa.
Nulla, invece, espressamente dispone con riguardo ai processi pendenti in cui sia parte la società della cui estinzione si tratta, né è possibile rinvenire altrove una norma che disciplini in modo diretto la fattispecie.
3.2.2. I successivi interventi di questa Corte hanno inteso risolvere tale problema, in funzione della tutela di interessi ritenuti prevalenti: da un lato, la rapida conclusione del procedimento estintivo della società e, quindi, la certezza dei rapporti giuridici; dall’altro, la
salvaguardia delle ragioni dei creditori della società in liquidazione in presenza di debiti certi ed esigibili.
Con ulteriori tre sentenze gemelle questa Corte ha, infatti, enunciato il principio di diritto per cui: «Dopo la riforma del diritto societario, attuata dal d.lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società, di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nel limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo» (Cass. Sez. U, Sentenza n. 6070 del 12/03/2013, Rv. 625323 -01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 6071 del 12/03/2013, Rv. 625328 -01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 6072 del 12/03/2013, Rv. 625329 – 01).
L’esigenza di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dei creditori si avverte in particolare nell’estensione della rinuncia di cui al punto b) del principio di diritto riportato: la stessa Corte, infatti, nel caso specifico ha chiarito (con l’ultima delle sentenze coeve: Cass. Sez. U,
n. 6072 del 2013) che la domanda di risarcimento del danno (per eccessiva durata del processo) non è una «mera pretesa», ma un vero e proprio diritto di credito, ancorché illiquido, da ritenersi rinunciato con la cancellazione: «la scelta del liquidatore di procedere … alla cancellazione della società dal registro, senza prima svolgere alcuna attività volta a far accertare il credito o farlo liquidare, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) privilegiando una più rapida conclusione del procedimento estintivo».
3.2.3. In altri termini, le Sezioni Unite distinguono tra sopravvenienze «certe» (oggetto di successione a favore degli ex soci) ed «incerte», o «mere pretese» (destinate ad estinguersi per rinuncia con l’estinzione della società), e certamente l’individuazione delle prime è ricavabile dalla iscrizione al bilancio di liquidazione. Sicché, se il processo pendente alla data di cancellazione dell’ente abbia ad oggetto le prime, opererà il meccanismo descritto di interruzione del procedimento e riassunzione nei confronti degli ex soci. Diversamente, gli ex soci non potranno azionare in un nuovo giudizio le sopravvenienze attive definite «mere pretese», ancorché già azionate, ed il processo eventualmente su di esse pendente alla data della cancellazione della società sarà destinato ad estinguersi.
3.3. Nel caso di specie, si deve concludere che non ricorra una rinuncia alle sopravvenienze «incerte», posto che esse tali non sono, in quanto risultavano dal bilancio, tanto che, sulla base del credito, erano state emesse le fatture nn. 6, 7 e 8 del 2013 (v. sentenza impugnata p. 5, 4° capoverso). A completamento di quanto contenuto in bilancio si inserisce il verbale di assemblea valorizzato dalla Corte d’Appello, e che precede l’atto di scioglimento della società, il quale contiene una clausola di riserva di ripartizione del credito quantificato
e derivante da un titolo esecutivo (la sentenza resa dal Tribunale di Bari -Sez. Stralcio di Rutigliano), a favore di entrambi i soci in parti uguali.
Con il terzo motivo si deduce nullità della sentenza per violazione e malgoverno di norme di diritto processuale (art. 111 Cost., nonché artt. 115, 116 e 132 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ.). Il ricorrente ritiene viziata da nullità la sentenza impugnata – nella parte in cui ha ignorato le raccomandate inviate dalla società RAGIONE_SOCIALE dal contenuto confessorio sul metodo di terminazione del corrispettivo dell’appalto, nonché sulle precise modalità di calcolo – sia in quanto non rispetta il minimo costituzionale nello sviluppo delle argomentazioni relative ai mezzi di gravame; sia perché viziata da errore di percezione sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova evincibile dai documenti in atti, in violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., che vieta di fondare la decisione su prove reputate assenti ma in realtà offerte.
4.1. Il motivo è inammissibile, in quanto nasconde nelle pieghe dell’ error in procedendo e della motivazione apparente il tentativo di sottoporre al vaglio di questa Corte un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. sez. 2, n. 19717 del 17.06.2022; Cass. Sez. 2, n. 21127 dell’08.08.2019).
4.2. La Corte barese è giunta ad escludere il valore confessorio delle missive, inclusa la nota del 23.08.2004, riportata nel mezzo di gravame, a valle di un esame dettagliato della corrispondenza in atti (v. sentenza p. 6, 2°-5° capoverso; p. 7, primi 13 righi), tanto da pervenire all’opposta conclusione sul valore confessorio delle dichiarazioni in atti, laddove interpreta la memoria dell’appellante ex
art. 183, ultimo comma, cod. proc. civ. come espressa ammissione del non raggiunto accordo sulla consistenza delle opere e sul loro corrispettivo (v. sentenza p. 7, 2° capoverso).
4.2.1. Il fatto che non siano espressamente incluse nella disamina le note del 21.01.2004 e del 03.02.2004 riportate anch’esse nel mezzo di gravame e comunque riproducenti il contenuto della nota del 23.08.2004 -non consente di qualificare come apparente la motivazione resa dalla Corte territoriale, tanto da sottrarla anche al raggiungimento del minimo costituzionale. E’ utile a tal proposito ricordare che la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 23123 del 28/07/2023, Rv. 668609 -01; Cass Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639 -01; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022, Rv. 664061; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019, Rv. 654145; Cass. Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526; Cass. Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016); ipotesi che -come sostenuto al punto 4.2. -non ricorre nel caso concreto.
4.2.2. In virtù di quanto sopra argomentato, non merita accoglimento neanche l’asserita violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. Va osservato, in via di principio, che la violazione di detta norma può essere dedotta come vizio di legittimità non in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma soltanto qualora il medesimo, esercitando il suo potere
discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza (Cass. Sez. I, Sent. n. 29820/2020).
Con il quarto motivo si deduce falsa applicazione di norme di diritto sostanziale (artt. 1657 e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ.). Secondo il ricorrente, essendo in atti la prova piena che tra le parti era intercorso un accordo in ordine alle modalità di determinazione del corrispettivo di subappalto, non poteva trovare applicazione l’art. 1657 cod. civ. che consente, in deroga alle disposizioni generali in tema di nullità dei contratti per difetto di determinatezza o determinabilità dell’oggetto, di determinare il corrispettivo solo ove le parti non ne abbiano stabilito né la misura, né il modo per quantificarlo. Altresì la Corte d’appello avrebbe fatto malgoverno delle norme in tema di riparto probatorio, avendo esonerato parte attrice dall’onere di fornire prova dei costi effettivamente sostenuti, rimettendo al consulente tecnico anche l’individuazione dei prezzi di macchinari, attrezzature e manodopera
5.1. Il motivo è infondato, poiché assume un presupposto erroneo -ossia la raggiunta prova piena in atti dell’esistenza di un accordo in ordine alle modalità di determinazione del corrispettivo – per affermare la falsa sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta di cui all’art. 1657 cod. civ. Come , infatti, visto supra al punto 4.2., tale prova -a insindacabile giudizio della Corte d’Appello – non è stata affatto raggiunta.
5.2. Quanto alla violazione delle norme di legge in materia di onere della prova, una volta accertata l’assenza di accordo sulla determinazione ovvero determinabilità del corrispettivo, la Corte territoriale si è limitata ad applicare il secondo inciso dell’art . 1657 cod.
civ., che consente la determinazione giudiziale del prezzo d’appalto mediante ricorso a tariffe o usi, avvalendosi dell’ausilio di un consulente tecnico per assicurare la congruità del valore dell’opera.
In definitiva, il Collegio rigetta il ricorso, liquida le spese secondo soccombenza come da dispositivo, da distrarsi in favore del difensore dei controricorrenti dichiaratosi antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115 del 2002 sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis , del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso;dichiara infondati il primo, secondo e quarto motivo del ricorso, inammissibile il terzo;
condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore dei controricorrenti , che liquida in € 6.500,00 per compensi, oltre ad €200,00 per esborsi e agli accessori di legge nella misura del 15%, con distrazione in favore del procuratore antistatario che ne ha fatto richiesta.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis , del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto;
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, l’ 8 marzo 2024.
La Presidente
COGNOME NOME COGNOME