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Buoni pasto: non sono retribuzione per la Cassazione

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha respinto il ricorso di un gruppo di lavoratori contro la decisione del loro datore di lavoro di interrompere l’erogazione dei buoni pasto. La Corte ha ribadito un principio consolidato: i buoni pasto non hanno natura retributiva, ma rappresentano un’agevolazione di carattere assistenziale. Di conseguenza, non sono protetti dal principio di irriducibilità della retribuzione e la loro erogazione può essere interrotta se basata su accordi collettivi da cui il datore può recedere.

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Pubblicato il 23 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Buoni Pasto: la Cassazione ne Esclude la Natura Retributiva

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta una questione molto dibattuta nel diritto del lavoro: la natura giuridica dei buoni pasto. La Corte ha stabilito che questi non costituiscono un elemento della retribuzione, bensì un’agevolazione di carattere assistenziale. Questa distinzione è cruciale, poiché determina se il datore di lavoro possa legittimamente interromperne l’erogazione. Analizziamo insieme la vicenda e le conclusioni della Suprema Corte.

I Fatti del Caso: La Sospensione dei Ticket Restaurant

La controversia nasce quando una società di servizi, subentrata in un appalto per la pulizia di un importante aeroporto del nord Italia, decide di interrompere l’erogazione dei buoni pasto giornalieri ai propri dipendenti. Questi ultimi, ritenendo tale beneficio un diritto acquisito, si rivolgono al Tribunale per ottenere la condanna dell’azienda alla consegna dei ticket o al pagamento del loro controvalore.

Sia in primo grado che in appello, le richieste dei lavoratori vengono respinte. I giudici di merito escludono l’esistenza di un “uso aziendale”, poiché l’erogazione dei buoni trovava la sua fonte in specifici accordi aziendali. Stabiliscono, inoltre, che il datore di lavoro può legittimamente recedere da un accordo collettivo a tempo indeterminato, interrompendo così l’erogazione del beneficio.

I Motivi del Ricorso e le Considerazioni della Cassazione sui Buoni Pasto

I lavoratori decidono di ricorrere in Cassazione, basando la loro impugnazione su tre motivi principali, tutti respinti dalla Suprema Corte.

Primo Motivo: L’Insussistenza dell’Uso Aziendale

I ricorrenti lamentavano una violazione delle norme sull’onere della prova, sostenendo che i giudici di merito avessero ignorato le prove che dimostravano l’esistenza di un uso aziendale consolidato. La Cassazione dichiara questo motivo inammissibile, ricordando che il suo ruolo non è quello di riesaminare i fatti, ma di verificare la corretta applicazione della legge. La valutazione delle prove spetta esclusivamente al giudice di merito.

Secondo Motivo: La Recedibilità dagli Accordi Aziendali

Il secondo motivo denunciava l’omessa pronuncia della Corte d’Appello sulla possibilità per il datore di lavoro di recedere unilateralmente dagli accordi che prevedevano i buoni pasto. Anche in questo caso, la Cassazione rigetta la doglianza, specificando che una decisione di rigetto, anche se non ampiamente argomentata, è sufficiente a escludere il vizio di omessa pronuncia. La Corte di merito aveva, infatti, ritenuto infondata la pretesa dei lavoratori, conformandosi all’orientamento secondo cui da un contratto collettivo a tempo indeterminato si può recedere.

Terzo Motivo: La Natura non Retributiva dei Buoni Pasto

Il punto centrale del ricorso riguardava la natura dei ticket. I lavoratori sostenevano che i buoni pasto avessero natura retributiva e, pertanto, fossero soggetti al principio di irriducibilità della retribuzione. La Cassazione smentisce questa tesi, confermando il suo orientamento consolidato.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha ribadito con fermezza che i buoni pasto, così come le indennità di mensa, non costituiscono un elemento della retribuzione. Essi rappresentano un’agevolazione di carattere assistenziale, legata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale e finalizzata a conciliare le esigenze del lavoratore con quelle dell’organizzazione aziendale. La loro funzione non è quella di remunerare la prestazione lavorativa, ma di fornire un sostegno al lavoratore durante la giornata lavorativa. Non avendo natura retributiva, i buoni pasto non rientrano nell’ambito di applicazione del principio costituzionale di irriducibilità della retribuzione. Di conseguenza, il datore di lavoro, una volta accertata la fonte pattizia del beneficio (accordo aziendale) e la sua natura non salariale, può legittimamente interromperne l’erogazione, ad esempio recedendo dall’accordo che li prevedeva.

Conclusioni

La decisione in commento consolida un principio fondamentale per la gestione dei rapporti di lavoro. Stabilire che i buoni pasto non sono retribuzione ha importanti implicazioni pratiche: non concorrono a formare la base per il calcolo del TFR, dei contributi previdenziali e di altri istituti contrattuali legati alla retribuzione. Soprattutto, questa qualificazione consente al datore di lavoro una maggiore flessibilità nella gestione dei benefit aziendali, potendo revocarli o modificarli al variare delle condizioni previste negli accordi collettivi, senza violare il principio di irriducibilità dello stipendio.

I buoni pasto sono considerati parte della retribuzione?
No, secondo la giurisprudenza costante della Corte di Cassazione, i buoni pasto non hanno natura retributiva. Sono qualificati come un’agevolazione di carattere assistenziale, non essendo un corrispettivo diretto della prestazione lavorativa.

Un’azienda può smettere di erogare i buoni pasto ai propri dipendenti?
Sì, può farlo se l’erogazione si basa su un accordo collettivo aziendale a tempo indeterminato. In tal caso, il datore di lavoro ha la facoltà di recedere unilateralmente dall’accordo, interrompendo così la fornitura del beneficio, proprio perché i buoni pasto non sono protetti dal principio di irriducibilità della retribuzione.

Che differenza c’è tra un “uso aziendale” e un accordo aziendale per i buoni pasto?
Un accordo aziendale è una fonte contrattuale scritta che disciplina il diritto. Un “uso aziendale”, invece, è una prassi non scritta, costante e generalizzata, che diventa fonte di obbligo per il datore di lavoro. Nel caso esaminato, la Corte ha stabilito che i buoni pasto derivavano da un accordo e non da un uso, rendendo quindi legittimo il recesso del datore di lavoro da tale accordo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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