Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 18206 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 18206 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/07/2025
Oggetto:
buoni fruttiferi postali
AC – 02/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14318/2021 R.G. proposto da
COGNOME rappresentato e difeso dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME giusta procura a margine del ricorso;
-ricorrente –
contro
Cassa Depositi e Prestiti S.p.A.RAGIONE_SOCIALE in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte di appello di Torino, prima sezione civile, n. 1146/2020, del 20 novembre 2020;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 2 luglio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
NOME COGNOME ha proposto ricorso in cassazione, affidato a tre motivi, avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Torino, in totale riforma della sentenza di primo grado, ha revocato il decreto ingiuntivo n. 2723/2016 e respinto ogni altra domanda formulata nei confronti della Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. in relazione al rimborso di 12 buoni fruttiferi postali serie ‘ O ‘ e ‘O/N’ , acquistati tra il febbraio 1984 e il novembre 1985. La questione verte sulla corretta determinazione dell’importo del rimborso effettivamente corrisposto tramite Poste Italiane S.p.A. con riferimento al tasso applicato ai suddetti buoni fruttiferi, con riferimento alla modificazione dei tassi medesimi avvenuta sulla base del decreto ministeriale 13 giugno 1986, emanato ai sensi dell’articolo 173 del d.P.R. n. 156 del 1973.
Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. ha resistito con controricorso con il quale ha chiesto il rigetto dell’avversa impugnazione.
La Corte territoriale, per quanto in questa sede ancora rileva, ha ritenuto a) che l’appello fosse ammissibile, avendo Cassa Depositi e Prestiti puntualmente individuato le parti della decisione di primo grado sottoposte a censura con la prospettazione di una puntuale critica alle singole parti della decisione impugnata e con l’individuazione , altresì, della diversa soluzione auspicata, dovendo escludersi qualsiasi ampliamento della trattazione rispetto a quanto avvenuto in primo grado; b) che, anche sulla scorta di quanto affermato dalle Sezioni unite di della Cassazione nella sentenza n. 3963 del 2019, il riferimento contenuto nell’articolo 173, terzo comma del d.P.R. n. 156 del 1973 alla tabella concernente la revisione dei tassi di interesse, in concreto operata con il decreto
ministeriale 13 giugno 1986, non costituisce una parte della modalità di comunicazione all’interessato dell’intervenuta nuova prescrizione, poiché la conoscenza di tale circostanza è affidata dal legislatore alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, nella specie avvenuta pacificamente e come tale opponibile all’odierno ricorrente, a nulla rilevando che non sarebbe stata provata la messa a disposizione della tabella presso gli uffici postali, circostanza che potrebbe operare al più sotto il profilo della quantificazione degli interessi e del controllo dell’operazione al momento della riscossione, ma non in astratto a legittimare la variazione del tasso medesimo, potendo semmai avere rilevanza in ambito risarcitorio, ove il risparmiatore dimostrasse un danno causalmente collegato all’omissione, nella specie nemmeno dedotto dal ricorrente; c) che manifestamente infondata era la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 173 del d.P.R. n. 156 del 1973 per le ragioni condivisibilmente affermate dalle citate Sezioni unite n. 3963 del 2019.
CONSIDERATO CHE
1. Il ricorso lamenta:
a. Primo motivo: «Nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 342 c.p.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c.», deducendo la nullità della sentenza impugnata per aver ritenuto l’ammissibilità dell’appello proposto da Cassa depositi e prestiti nonostante esso fosse privo della specifica individuazione delle critiche mosse alla sentenza impugnata e contenesse in effetti esclusivamente una riproposizione delle difese offerte in primo grado.
b. Secondo motivo: «Violazione dell’art. 99, 112, 345 e 346 c.p.c. in relazione all’art. 360 co 1 n. 4)», deducendo l’erroneità della sentenza impugnata nell’individuazione dell’oggetto
dell’appello e per aver affermato che l’appellante aveva ampliato le proprie difese e omesso di riproporre questioni discusse nel corso del giudizio di primo grado; «v iolazione dell’art. 173 dpr 156/73 e degli artt. 1173, 1175, 1366 e 1375 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.», deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove ha omesso di considerare che la tabella di variazione dei tassi è testualmente parte del testo contrattuale su cui si forma il consenso delle parti e che, in assenza di singola comunicazione o perlomeno di pubblicazione della variazione all’interno dell’ufficio postale nel quale il consumatore normalmente si reca per effettuare l’investimento in buoni postali, circostanza pacifica in primo grado, non è possibile ritenere che l’effetto di pubblicità sia compiuto, con la conseguenza di non poter ritenere legittima la variazione peggiorativa del tasso applicabile.
c. Terzo motivo: «Violazione e falsa applicazione dell’art. 1339 c.c. in relazione al combinato disposto degli artt. 173 dpr 156/73 e 6 DM 13/6/1986 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.», deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove la tesi sostenuta dalla Corte territoriale, sostanzialmente riconducibile all’applicazione alla fattispecie dell’art. 1339 cod. civ. in relazione all’integrazione automatica del contenuto del contratto di investimento, sarebbe poco compatibile con la ricostruzione attribuita dalle stesse Sezioni unite della Corte di Cassazione in relazione alla ritenuta esclusione di ogni automatismo delle modifiche apportate ai buoni fruttiferi postali collocati successivamente all’entrata in vigore dei decreti ministeriali modificativi, per i quali ogni modifica è stata espressamente condizionata al compimento di una correzione materiale del
documento cartaceo mediante apposizione di un timbro indicante il nuovo tasso di interesse; opzione ermeneutica che sarebbe invece da individuare nella parificazione dell’applicazione del canone interpretativo anche nel caso di buoni postali collocati antecedentemente all’entrata in vigore del decreto modificativo, ove si ammetta che il potere di modifica unilaterale delle relative condizioni sia condizionato al rispetto dello specifico regime pubblicitario previsto dal terzo comma dell’articolo 173 del citato d.P.R. con la messa a disposizione presso gli uffici postali delle tabelle integrative, nella specie pacificamente non sussistente. «Violazione e falsa applicazione degli artt. 15 e 18 dpr 1092/85 e del regolamento di attuazione dpr 217/1986», deducendo l’erroneità della sentenza impugnata laddove, riconoscendo una presunzione di conoscenza per effetto della pubblicazione di atti amministrativi in Gazzetta Ufficiale ha violato la normativa denunciata come lesa; «Violazione e falsa applicazione dell’art. all’art. 1 2 Preleggi c.c. nell’interpretazione dell’art. 1 73 dpr 156/73 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.», deducendo l’erroneità della sentenza impugnata per avere attribuito alla norma denunciata come lesa un significato diverso da quello derivante dalla corretta esegesi della stessa.
Osserva la Corte osserva che, alla luce delle considerazioni espresse nel leading case RAGIONE_SOCIALE Poste Italiane s.p.a., deciso con la sentenza n. 22619/2023 del 26 luglio 2023 da questa stessa Sezione (seguita da giurisprudenza sezionale costante: ex multis: 25583/23, 25587/23, 25620/23; 25624/23, 25718/23, 26740/23, 6805/24, 26165/24), il ricorso non può trovare accoglimento. È opportuno riportare la parte rilevante della motivazione della
precitata sentenza, le cui considerazioni risultano decisive ai fini del decidere:
Il Collegio ritiene che sia esatto il punto di approdo cui sono pervenute, in tempi recenti, Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4751, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4763, Cass. 3 gennaio 2023, n. 87, Cass. 4 gennaio 2023, n. 122 e Cass. 11 febbraio 2023, n. 567.
La prima di tali pronunce è massimata come segue: l’emissione di una nuova serie di buoni, utilizzando i supporti cartacei della serie precedente («P»), mediante l’apposizione, sulla parte anteriore, del timbro che indica la nuova serie («Q/P») e, sulla parte posteriore, del timbro recante la misura dei nuovi tassi, che però non copre integralmente la stampa dei tassi d’interesse della precedente serie, lasciando scoperta la parte relativa all’ultimo decennio, non consente al possessore del titolo di pretendere, per tale decennio, gli interessi (più favorevoli) previsti per la vecchia serie, poiché l’imperfezione dell’operazione materiale di apposizione del timbro non ha valore di manifestazione di volontà negoziale rilevante e non determina un errore sulla dichiarazione, essendo, anzi, chiaro che l’accordo ha avuto ad oggetto i buoni di nuova serie e dovendosi, comunque, tenere conto che, ai sensi dell’art. 1342, comma 1, c.c., in caso di moduli predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, le clausole aggiunte prevalgono su quelle precedentemente scritte, qualora siano con esse incompatibili. Alla seconda delle decisioni sopra richiamate è associato questo ulteriore principio di diritto: la disciplina contenuta nell’abrogato art. 173 del d.P.R. n. 156 del 1973, come novellato dall’art. 1 del d.l. n. 460 del 1974, convertito in l. n. 588 del 1974, che consentiva variazioni, anche
in peius, del tasso di interesse sulla base di decreti ministeriali, in quanto dettata da una fonte di rango legislativo, ha natura cogente (assicurando il contemperamento tra l’interesse generale di programmazione economica e tutela del risparmio del sottoscrittore) e come tale idonea a sostituire ex art. 1339 c.c. la statuizioni negoziali della parti: ne deriva che il contrasto tra le condizioni, in riferimento al saggio degli interessi, apposte sul titolo e quelle stabilite dal decreto ministeriale che ne disponeva l’emissione deve essere risolto dando la prevalenza alle seconde, anche relativamente alla serie, istituita con effetto dal 1 luglio 1986 con d.m. 13 giugno 1986, di buoni postali fruttiferi distinta con la lettera «Q», fissando per tutte le serie precedenti, e con decorrenza 1 gennaio 1987, un regime di calcolo degli interessi meno favorevole di quello risultante dalla tabella posta a tergo dei buoni.
Fermo che si condivide la conclusione ultima cui sono pervenute le indicate pronunce, le quali hanno ritenuto inapplicabili ai buoni della serie «Q/P» i rendimenti riprodotti nei detti buoni per la vecchia serie «P», si impongono alcune precisazioni.
La soluzione qui ricusata è stata fatta propria da un certo numero di decisioni di merito e da un orientamento fermo dell’Arbitro bancario finanziario: orientamento ribadito dal Collegio di coordinamento dell’ABF con decisione del 3 aprile 2020. Per chi sostiene tale tesi l’applicazione dei più alti rendimenti previsti per la serie «P» nell’ultimo decennio di vita del buono trova giustificazione in ciò: il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore si forma sul contesto documentale del titolo; nell’indicata prospettiva assume rilievo decisivo la circostanza per cui i buoni in questione, con riguardo al periodo che qui interessa,
recano – come si è in precedenza detto – l’indicazione dei tassi previsti per la serie «P».
Il principio per cui nella disciplina dei buoni postali fruttiferi dettata dal testo unico approvato con il d.P.R. n. 156/1973, il vincolo contrattuale tra emittente e sottoscrittore dei titoli si forma sulla base dei dati risultanti dal testo dei buoni di volta in volta sottoscritti si deve, come è noto, alle Sezioni Unite di questa Corte, le quali hanno da ciò desunto che «il contrasto tra le condizioni, in riferimento al saggio degli interessi, apposte sul titolo e quelle stabilite dal decreto ministeriale che ne disponeva l’emissione deve essere risolto dando la prevalenza alle prime, essendo contrario alla funzione stessa dei buoni postali – destinati ad essere emessi in serie, per rispondere a richieste di un numero indeterminato di sottoscrittori – che le condizioni alle quali l’amministrazione postale si obbliga possano essere, sin da principio, diverse da quelle espressamente rese note al risparmiatore all’atto della sottoscrizione del buono» (Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, in motivazione).
È tuttavia da rimarcare la profonda diversità intercorrente tra la fattispecie oggetto di controversia e l’ipotesi presa in considerazione dalla richiamata pronuncia di Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979 (decisione, questa, su cui la parte istante fonda gran parte dei propri rilievi).
Nella sentenza delle Sezioni Unite si delineava un termine di scadenza del possibile rimborso anticipato dei buoni fruttiferi che era differente da quello indicato nei titoli. In particolare, in base a un decreto ministeriale entrato in vigore da prima dell’emissione dei titoli, il termine di scadenza dei buoni era di nove anni, e non di otto (come in precedenza previsto), ma i buoni erano mancanti
di quanto contemplato dal decreto, il quale, in caso di utilizzazione di moduli già stampati per le emissioni precedenti (recanti la sigla «AA»), ammetteva l’applicazione della nuova disciplina in presenza di una stampigliatura di una sigla diversa sui titoli («ABAA»), i quali dovevano inoltre recare espressa menzione del differente termine di scadenza: di qui la lite vertente sul rendimento dei titoli, che era stato ragguagliato dalle parti ai diversi termini di scadenza. Nella circostanza è stato osservato che «a discrepanza tra le prescrizioni ministeriali e quanto indicato sui buoni offerti in sottoscrizione dall’ufficio ai richiedenti può rilevare per eventuali profili di responsabilità interna all’amministrazione, ma non può far ritenere che l’accordo negoziale, in cui pur sempre l’operazione di sottoscrizione si sostanzia, abbia avuto ad oggetto un contenuto divergente da quello enunciato dai medesimi buoni». Le Sezioni Unite hanno difatti valorizzato la prescrizione, contenuta nell’art. 173, comma 3, d.P.R. n. 156 del 1973, che impone di «procedere al rimborso degli interessi sulla base della tabella riportata a tergo dei buoni sottoscritti dal risparmiatore».
Ebbene, nella presente fattispecie si controverte non della presenza di una tale tabella e del radicale contrasto di essa con la previsione del decreto ministeriale che regola l’emissione dei titoli, ma di una singola previsione (quella relativa ai tassi dell’ultimo decennio) ricavata da una tabella che è sostituita, sul titolo, da altra tabella.
Non entra quindi immediatamente in gioco il conflitto tra le distinte discipline dei rendimenti che sono desumibili, rispettivamente, dal decreto ministeriale e dal titolo (ipotesi, questa, presa in esame dalla richiamata pronuncia delle Sezioni
Unite). Viene prima in questione il significato che possa accordarsi ad indicazioni, presenti nel contesto del buono fruttifero, che concernono un particolare aspetto del rapporto: quello relativo agli interessi da corrispondersi dal ventunesimo al trentesimo anno di vita del titolo.
In tal senso, anche i buoni per cui è causa (serie ‘O’ e convertiti in ‘O’ da ‘N’ ) pongono, anzitutto, e per quanto qui interessa, una questione di natura interpretativa.
Di tale questione la Corte di legittimità si è occupata nelle richiamate pronunce dello scorso anno. Nella circostanza è stato osservato che «la pretesa di far discendere la misura degli interessi da una combinazione della disciplina prevista per i buoni della serie ‘Q’, provvisoriamente emessi per mancanza dei relativi supporti cartacei, in forma di buoni della serie ‘Q/P’, con la disciplina prevista per i buoni della serie ‘P’, non ha alcun fondamento sul piano di una elementare logica nell’applicazione dei principi basilari dell’interpretazione contrattuale, sia dal versante della lettera che dell’intenzione delle parti, ai sensi dell’art. 1362 c.c., giacché, se i buoni sono sottoposti alla disciplina della serie ‘Q’, e l’autorità preposta dalla legge chiarisce che la disciplina della serie ‘Q’, si applica anche alla serie ‘Q/P’, di modo che sul documento viene apposta la sigla ‘Q/P’, ciò sta a testimoniare che l’applicazione della disciplina dei defunti buoni della serie ‘P’ è palesemente esclusa» (citt. Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4751, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4763, in motivazione).
A questi rilievi deve prestarsi sostanziale adesione.
Per la giurisprudenza di questa Corte, i buoni fruttiferi postali integrano dei titoli di legittimazione (Cass. 16 dicembre 2005, n.
27809; il richiamo a tale qualificazione è presente nelle pronunce successive; cfr. ad es.: Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, cit.; Cass. Sez. U. 11 febbraio 2019, n. 3963; Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384 cit.; Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, cit.). I buoni postali sono, cioè, dei documenti che servono solo a identificare l’avente diritto alla prestazione: come tali, a norma dell’art. 2002 c.c., essi non sono soggetti alle norme dettate per i titoli di credito. Questo significa, in particolare, che ai buoni postali restano estranei i principi di autonomia causale, di incorporazione e di letteralità (con quel che ne discende sul piano delle eccezioni opponibili dall’avente diritto, regolamentate, per i titoli di credito, dall’art. 1993 c.c.): tant’è che è operante, rispetto ai buoni, il meccanismo di integrazione contrattuale previsto dall’art. 173 d.P.R. n. 156/1973 cit., il quale implica che il creditore soggiaccia alle variazioni del saggio di interesse successive al momento di sottoscrizione del titolo; come in precedenza ricordato, difatti, le variazioni dei rendimenti disposte con decreto ministeriale, che hanno effetto per i buoni di nuova serie, «possono essere estese ad una o più delle precedenti serie».
È vero che, come ricordato da Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, la possibilità che il contenuto dei diritti spettanti ai sottoscrittori dei buoni postali subisca, medio tempore, variazioni per effetto di eventuali sopravvenuti decreti ministeriali volti a modificare il tasso degli interessi originariamente previsto «non autorizza a svalutare totalmente la rilevanza delle diciture riportate sui buoni stessi anche quando in corso di rapporto non è intervenuto alcun nuovo decreto ministeriale concernente il tasso degli interessi e nessuna modificazione si è quindi prodotta rispetto alla situazione esistente al momento della sottoscrizione
dei titoli». E tuttavia, altro è tener conto del dato testuale del titolo, altro è enfatizzarne la portata in contrasto col canone ermeneutico di cui all’art. 1362 c.c.: norma che, come è noto, impone di interpretare il contratto indagando quale sia stata l’intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole.
Ora, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, assume innegabilmente centralità il senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto: il rilievo di queste deve essere tuttavia verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale (Cass. 8 giugno 2018, n. 14882; Cass. 26 febbraio 2009, n. 4670; Cass. 28 maggio 2007, n. 12400; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4176; Cass. 22 dicembre 2005, n. 28479). Come è stato efficacemente osservato, solo la lettura dell’intero testo contrattuale consente una corretta comprensione della convenzione e, suo tramite, della comune intenzione delle parti, mentre l’enucleazione di singole parole può comportare lo stravolgimento del significato della clausola con particolare riferimento alle pattuizioni limitative dell’efficacia del negozio che, in presenza di un processo ermeneutico frammentato, possono amplificare o ridurre la portata dell’accordo (Cass. 8 febbraio 2021, n. 2945).
In tal senso, non è conforme ai richiamati principi una interpretazione del testo negoziale che, obliterando la manifestata volontà, desumibile dalle apposite stampigliature, di far rientrare il titolo nella serie «Q/P» e di assegnare al medesimo, per i primi venti anni, i correlati rendimenti, pretenda di conferire una univoca e assorbente accezione di significato alla presenza, nel testo del buono, di una previsione (quanto alla misura degli
interessi maturandi a partire dal ventunesimo anno) che è parte della tabella associata alla serie «P». Tale soluzione ermeneutica finisce per parcellizzare il dato testuale: non tiene infatti conto che la richiamata tabella risulta sostituita da una diversa griglia dei rendimenti, rispetto alla quale l’elemento che si pretende di valorizzare risulta essere oltretutto palesemente eccentrico. Infatti – e ciò si desume con puntualità da quanto trascritto in memoria dallo stesso ricorrentela nuova stampigliatura consta dell’indicazione dei tassi in valori percentuali, mentre i rendimenti dell’ultimo decennio, che si vorrebbero applicare, seguono il diverso criterio dei valori monetari assoluti adottato nella stesura dell’intera tabella della serie «P», cui non appartiene il buono. In altri termini, se è incontestabile che nel riquadro dei rendimenti risultanti dalla stampigliatura sovrapposta alla precedente tabella è assente alcuna specifica indicazione dei tassi relativi all’ultimo decennio, non per questo risulta giustificata un’operazione interpretativa che finisca per deformare il senso della volontà negoziale, isolando un dato che è integrato nella vecchia tabella (riferita a una serie di buoni cui si è deliberatamente escluso appartenga quello in contestazione) e che si pone in continuità coi rendimenti ivi indicati, non con quelli della serie «Q/P». L’elemento di anomalia è tanto più percettibile ove si consideri che, come rettamente rilevato dal Tribunale, per i titoli della serie «Q/P» l’art. 5 del d.m. 13 giugno 1986 imponeva proprio una stampigliatura «recante la misura dei nuovi tassi», e non l’indicazione delle maggiorazioni dei valori monetari.
Col negare rilievo all’elemento letterale in discorso non si finisce, del resto, per dare ingresso a un’interpretazione contraria a buona fede. Per certo, l’elemento letterale deve sempre essere
riguardato alla stregua degli ulteriori criteri ermeneutici, tra cui quello dell’interpretazione secondo buona fede ex art. 1366 c.c. (Cass. 17 novembre 2021, n. 34795; Cass. 14 settembre 2021, n. 24699). La regola di cui all’art. 1366 c.c., secondo cui il contratto deve essere interpretato secondo buona fede, impone tuttavia di analizzare le espressioni usate dalle parti contraenti stabilendo quale sia il significato obbiettivo sul quale le stesse, in relazione alle circostanze concrete, potevano e dovevano fare ragionevole affidamento (Cass. 20 luglio 2000, n. 9532), con la conseguenza che non possono perorarsi interpretazioni che pretendano di ricavare il detto affidamento da elementi letterali non significativi avendo riguardo al più ampio contesto del negozio.
L’inaccettabilità di opzioni ermeneutiche fondate sulla esaltazione di elementi siffatti e la conseguente impossibilità di rinvenire, all’interno del documento di legittimazione, una disciplina specifica dei rendimenti relativi all’ultimo decennio (da associarsi al buono) schiude la strada a una integrazione del regolamento negoziale con la disciplina normativa.
In tema di sostituzione automatica di clausole di cui all’art. 1339 c.c., altro argomento rilevante ai fini dello scrutinio del ricorso, va osservato che, come osservato nel citato leading case, il congegno sostitutivo di cui all’art. 1339 c.c. è destinato ad operare con esclusivo riguardo alle variazioni del saggio d’interesse «disposte con decreto del Ministro per il tesoro, di concerto con il Ministro per le poste e le telecomunicazioni, da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale» che siano «estese ad una o più delle precedenti serie» (art. 173, comma 1, d.P.R. n. 156/1973); a tal fine è stato previsto, come in precedenza rilevato, che per i titoli i cui tassi siano stati modificati dopo la loro emissione gli interessi
vengano corrisposti non più sulla base della sola tabella riportata a tergo dei buoni, ma sulla base di tale tabella «integrata con quella che è a disposizione dei titolari dei buoni stessi presso gli uffici postali» (art. 173 cit., comma 3). Dunque, la prevalenza del dato testuale portato dai titoli rispetto alle prescrizioni ministeriali intervenute successivamente all’emissione è, in questa ipotesi, da escludere a fronte all’inequivoco dato testuale dell’art. 173: come ricordato dalle Sezioni Unite, tale articolo contempla un «meccanismo di integrazione contrattuale, riferibile alla disposizione dell’art. 1339 c.c. destinato ad operare per effetto della modifica, da parte della pubblica amministrazione, del tasso di interesse vigente al momento della sottoscrizione del titolo» (Cass. Sez. U. 11 febbraio 2019, n. 3963, cit., in motivazione).
La disciplina sostituiva non opera, invece, con riguardo alle condizioni operanti al momento della sottoscrizione: si è già dato conto del principio, enunciato da Cass. Sez. U. 15 giugno 2007, n. 13979, secondo cui ove il buono indichi rendimenti difformi da quelli previsti dalle prescrizioni ministeriali deve prevalere quanto risultante dal titolo, giacché il titolo riproduce il contenuto di un accordo negoziale. Ciò sta a significare che le norme che disciplinano i tassi dei buoni di nuova emissione non hanno portata cogente; esse soccombono, infatti, a fronte di pattuizioni di diverso tenore.
L’inattuabilità di una sostituzione della misura degli interessi convenuti contrattualmente non esclude, tuttavia, che la disciplina del buono di nuova emissione di una determinata serie, che sia carente di alcune indicazioni quanto ai rendimenti, possa essere integrato dalle previsioni normative che disciplinano i tassi dei titoli appartenenti a quella stessa serie.
Si allude all’integrazione suppletiva del negozio, riconducibile alla previsione dell’art. 1374 c.c., attraverso cui il contenuto del rapporto viene determinato in mancanza di una diversa volontà delle parti: non quindi all’integrazione cogente, operante allorquando la regolamentazione normativa si sovrappone alla diversa volontà delle parti.
L’integrazione opera, naturalmente, avendo riguardo alle prescrizioni del provvedimento ministeriale: ma è indubbio che, quale che sia la natura di tale atto, venga in questione una integrazione ad opera della legge, visto che il d.m. 13 giugno 1986 ripete la sua autorità dall’art. 173, comma 1, d.P.R. n. 156/1973, il quale abilita l’autorità ministeriale a fissare il saggio d’interesse dei buoni postali fruttiferi (cfr., in motivazione, se pure nella diversa prospettiva della sostituzione di clausole nulle, le citt. Cass. 10 febbraio 2022, n. 4384, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4748, Cass. 14 febbraio 2022, n. 4751 e Cass. 14 febbraio 2022, n. 4763). Con ciò resta superata anche la censura, di cui al terzo motivo, fondata sull’assenza di terzietà del soggetto da cui promana la norma integrativa del contratto (censura da disattendersi, del resto, alla luce dell’ulteriore rilievo per cui l’inserzione dei tassi fissati per decreto ministeriale è espressamente contemplata dal comma 3 dell’art. 173 cit.).
Una integrazione suppletiva, e non cogente, si giustifica, con riguardo ai buoni, in quanto, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite del 2007, le previsioni dei decreti ministeriali non prevalgono sul contenuto dell’accordo (salvo il caso, che qui non interessa, dello ius variandi operante con riguardo ai tassi in un momento successivo all’emissione dei buoni): onde le dette previsioni hanno natura dispositiva.
L’integrazione trova, poi, una propria concreta ragion d’essere, in fattispecie quale quella in esame, stante la mancanza, nel senso sopra chiarito, di un’apposita regolamentazione di una parte dei rendimenti del buono trentennale: va qui rammentata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il presupposto dell’integrazione di cui all’art. 1374 c.c. è proprio l’incompleta o ambigua espressione della volontà dei contraenti (così Cass. 21 marzo 2014, n. 6747; cfr. pure, in tema: Cass. 14 giugno 2002, n. 8577; Cass. 17 giugno 1994, n. 5862; Cass. 14 marzo 1983, n. 1884).
Questo processo di completamento della disciplina del titolo non trova ostacolo nella previsione dell’art. 173, comma 3, d.P.R. n. 156/1973, secondo cui gli interessi vengono corrisposti «sulla base della tabella riportata a tergo dei buoni». La disposizione preserva l’affidamento del risparmiatore su quanto trascritto nei buoni da lui acquistati, confermando che quanto ivi enunciato prevale sul difforme dettato del decreto ministeriale che fissa i rendimenti; appare invece irragionevole e contrario a una interpretazione della norma che sia rispettosa dell’art. 47 Cost., sulla tutela del risparmio, ritenere che, a fronte di una lacuna del titolo nella determinazione dei tassi per un dato periodo, la regolamentazione posta dal detto decreto resti inoperante e nulla sia conseguentemente dovuto, per quell’arco temporale, al risparmiatore. Sintomaticamente, nemmeno Poste Italiane ha sostenuto ciò nel presente giudizio.
In conclusione, se pure deve escludersi che i saggi di interesse fissati con decreto del Ministro per il tesoro, di concerto con il Ministro per le poste e le telecomunicazioni, si sostituiscano ai rendimenti figuranti sul buono di nuova emissione, non vi è
motivo di negare che quegli stessi saggi di interesse – aventi «effetto per i buoni di nuova serie», a norma dell’art. 173, comma 1, d.P.R. n. 156/1973 – possano completare, attraverso un procedimento di eterointegrazione, il regolamento contrattuale che nulla disponga quanto ai rendimenti dei titoli di quella serie riferiti a un dato periodo.
Questa Corte ha, nella specie, affermato i seguenti principi di diritto:
«Poiché l’interpretazione del testo contrattuale deve raccordare il ‘senso letterale delle parole’ alla dichiarazione negoziale nel suo complesso, non potendola limitare a una parte soltanto di essa, l’indicazione, per i buoni postali della serie ‘Q/P’, di rendimenti relativi alla serie ‘P’ per l’ultimo periodo di fruttuosità del titolo non è in sé decisivo sul piano interpretativo, in presenza della stampigliatura, sul buono, di una tabella sostitutiva di quella della serie ‘P’, in cui erano inseriti i detti rendimenti: tanto più ove si consideri che la tabella in questione adotta una modalità di rappresentazione degli interessi promessi che risulta eccentrica rispetto a quella di cui alla precedente tabella, così da rendere evidente l’assenza di continuità tra le diverse previsioni.
«In presenza di una incompleta o ambigua espressione della volontà delle parti quanto ai rendimenti del buono postale di nuova emissione rientrante nella previsione dell’art. 173 d.P.R. n. 156/1973, opera una integrazione suppletiva che consente di associare al titolo i tassi contemplati, per la serie che interessa, dal decreto ministeriale richiamato dal primo comma del detto
articolo».
Alla luce dei precitati principi, in relazione ai singoli motivi, si osserva.
Il primo motivo, che deduce la nullità della sentenza impugnata per aver ritenuto l’ammissibilità dell’appello proposto da Cassa depositi e prestiti nonostante esso fosse privo della specifica individuazione delle critiche mosse alla sentenza impugnata e contenesse in effetti esclusivamente una riproposizione delle difese offerte in primo grado, è inammissibile.
Va premesso che, assai di recente, le Sezioni Unite di questa Corte (Ordinanza n. 36481 del 13/12/2022), sul tema dei requisiti di ammissibilità dell’atto di appello, in relazione alle prescrizioni di cui all’art. 342 cod. proc. civ. , hanno affermato che gli artt. 342 e 434 cod. proc. civ., nel testo introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.
E’ stato , altresì, chiarito che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato -come nella specie -un error in procedendo , presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde
il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, d ell’atto di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e di trascrivere, o allegare specificamente al ricorso, il contenuto delle censure proposte dall’appellante, per poi argomentarne la genericità e il difetto di specificità in relazione al contenuto della decisione di primo grado e non può limitarsi a citare solo alcuni passi dell’atto di appello, per poi argomentare una personale convinzione di genericità, richiamando astrattamente la normativa applicabile (Cass. 20405/2006 e successive conformi).
Insomma, il ricorrente, al fine di dimostrare la dedotta genericità dell’appello , negata espressamente e motivatamente dalla Corte territoriale, avrebbe dovuto spiegare come e perché, al contrario, l’appello fosse generico.
Per far ciò, avrebbe dovuto evidenziare con la necessaria chiarezza e completezza le censure articolate con l’appello e le corrispondenti statuizioni del Tribunale con esse censurate, ciò che come detto non è nella specie avvenuto, essendovi nel motivo in esame solo alcuni stralci dell’atto di appello e mancando completamente la dimostrazione logica della asserita erroneità della valutazione di sufficiente specificità adottata dalla Corte territoriale, specie in relazione a questioni che, nella loro sostanza, ponevano un problema di diritto (sostanzialmente
riprodotto nei motivi successivi dell’ odierno ricorso), in relazione al quale l’ onere di specificità può ritenersi assolto nella mera deduzione dell’ erroneità della sentenza di primo grado sul punto e sulla prospettazione della soluzione giuridica ritenuta corretta, ciò che fa scattare l’ applicazione del principio iura novit curia.
4. Il secondo motivo, nella prima parte, in cui deduce un error in procedendo , è inammissibile per le medesime ragioni indicate a commento del primo motivo, limitandosi ad affermare, senza indicare da quali elementi oggettivi tale convincimento sia tratto, che la Corte territoriale abbia male interpretato il contenuto oggettivo dell’appello e rilevato i vizi formali dell’ impugnazione lamentati nella censura; non può essere questa Corte di legittimità a indagare gli atti alla ‘ricerca’ del vizio, che tutto all’opposto deve essere di soddisfare il requisito dell’ autosufficienza. Nella seconda parte, la censura è infondata. Contrariamente a quanto ivi opina il ricorrente, l’affermazione di esaustività della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale modificativo del tasso di interesse dei buoni postali, al fine di farne variare l’ammontare, è corretta e del tutto in linea con la giurisprudenza di questa Corte che si è pronunciata sul punto.
Il dato di partenza da cui muovere, al fine di una corretta soluzione della questione, è che all’epoca dell’emanazione del decreto ministeriale 13 giugno 1986, introduttivo della variazione del tasso di rendimento dei buoni postali per cui è causa, Poste Italiane, che materialmente aveva emesso i titoli per conto di Cassa depositi e prestiti, era un’azienda autonoma dello Stato e non già una società per azioni privata. Ciò comporta, come già detto nelle superiori considerazioni di carattere generale, che
nell’ipotesi in cui uno degli stipulanti sia un soggetto pubblico, a esso possono essere delegate dalle fonti di legge di rango primario anche compiti integrativi e attuativi della volontà pubblica, con particolare riferimento alle previsioni di carattere secondario e regolamentare attuative del precetto normativo primario.
A tal fine, proprio tenuto conto della natura dell’emittente all’epoca dei fatti, le Sezioni Unite di questa Corte n. 3963 del 2019 hanno ritenuto legittimamente variato il tasso per effetto della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale di variazione, tenuto conto che l’ emittente, quale ente pubblico, incarnava anche interessi pubblici legati al contemperamento dei vincoli di bilancio rispetto alle aspettative di tutela del risparmio privato; e che tanto consentiva di ritenere che la delegazione normativa contenuta nella norma primaria (art. 173 codice postale) a un decreto ministeri ale rendesse quest’ultimo valido veicolo integrativo del precetto primario.
Un effetto che è stato considerato costituzionalmente legittimo dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 2020.
Può, quindi, concludersi sul punto nel senso che, come per accordo delle parti può variare una parte del contenuto negoziale, allo stesso modo per quella parte di regolamento riservata alla competenza legale il contenuto può variare per volontà di legge; una legge modificativa di un contenuto negoziale, per la parte di regolamento riservata alla legge, non è, infatti, diversa da un accordo modificativo del contratto.
Il terzo motivo, in tutte le sue articolazioni è infondato, alla luce delle argomentazioni giuridiche espresse nel citato leading case COGNOME , dovendo aggiungersi che questa Corte (Cass. n.
8883/2020; id. n. 29240/2021; id. n. 7872/2022; id. n. 35102/2022), sul tema della conoscibilità degli atti amministrativi pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, ha espresso un orientamento contrario a quanto sostenuto nel motivo di ricorso in esame, statuendo che i decreti ministeriali pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, con i quali viene effettuata la rilevazione trimestrale dei tassi effettivi globali medi, indispensabili alla concreta individuazione dei tassi soglia di riferimento, in virtù del rinvio operato dall’art. 2 l. n. 108 del 1996, costituiscono atti amministrativi di carattere generale ed astratto, oltre che innovativo, e quindi normativo, perché completano i precetti di rango primario in materia di usura inserendo una normativa di dettaglio e che per tale ragione tali decreti vanno considerati alla stregua di vere e proprie fonti integrative del diritto, che il giudice deve conoscere a prescindere dalle allegazioni delle parti, in base al principio iura novit curia , sancito dall’art. 113 c.p.c.
Il ricorso sollecita, infine, una rivalutazione della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 173 del decreto citato anche alla luce della sentenza numero 26 del 2020 della Corte costituzionale, con particolare riguardo al tema dei limiti alle leggi di modificazione dei rapporti di durata e alla cosiddetta retroattività improprio, alla luce dei principi stabiliti dagli articoli 3, 43, 47, 97, 41 e 76 della Costituzione.
T ale rivalutazione non può che condurre all’ affermazione dell’ assenza di profili nuovi e diversi, rispetto a quelli già esaminati dalla Corte costituzionale, ai fini della valutazione di una nuova rimessione degli atti. Invero, come già ricordato nella superiore premessa generale, la Corte costituzionale ha chiaramente affermato che l’estensione delle modificazioni anche in peius dei
tassi di interesse non ha irragionevolmente leso l’affidamento dei risparmiatori sul tasso di interesse esistente al momento della sottoscrizione dell’investimento, poiché la variazione sfavorevole del tasso di interesse – che bilancia l’esigenza di tutela del risparmio con quella di contenimento della spesa pubblica in rapporto all’andamento dell’inflazione e dei mercati in caso di titoli emessi da enti a soggettività statale – non risale al momento della sottoscrizione del titolo, ma opera solo per il futuro, a decorrere dall’entrata in vigore del decreto che la dispone, in base a una facoltà consentita dalla legge che non lede pertanto alcuno dei parametri costituzionali invocati come lesi.
Il ricorso, a ben vedere, non contiene un’efficace confutazione di tali arresti, limitandosi ad asserire che non sarebbe stata compiuta una completa valutazione della ragionevolezza e della conseguente legittimità costituzionale di tale effetto, che, al contrario risulta compiutamente effettuata dalla Corte costituzionale nella sentenza del 2020, rispetto alla quale nessun elemento fattuale sopravvenuto può ritenersi abbia modificato il quadro preso in considerazione ai fini di una nuova rimessione degli atti.
La soccombenza regola le spese, liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto (Cass. S.U., n. 4315 del 20 febbraio 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna Concilio Corrado a rifondere a Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. le spese di lite della presente fase di legittimità, che liquida in complessivi euro 4.300,00, oltre spese prenotate a debito.
A i sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 2 luglio 2025.