Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 14670 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 14670 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 31/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 9766-2022 proposto da:
COGNOME NOME E COGNOME DI NOME RAGIONE_SOCIALE, in persona del titolare e legale rappresentante pro tempore, COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, nello studio dell’avv. NOME COGNOME che la rappresenta e difende
– ricorrente –
contro
NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO nello studio degli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME che la rappresentano e difendono
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 547/2022 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata in data 27/01/2022
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione ritualmente notificato COGNOME NOME evocava in giudizio Fratelli COGNOME NOME e NOME di RAGIONE_SOCIALE innanzi il Tribunale di Roma, chiedendone la condanna a rilasciare un immobile di proprietà dell’attrice occupato senza titolo.
Nella resistenza della parte convenuta, che proponeva domanda riconvenzionale di usucapione, il Tribunale, con sentenza n. 15589/2015, accoglieva la domanda principale, qualificandola come di restituzione, e non di rivendicazione, dando atto che quest’ultima domanda era stata rigettata con la precedente decisione del medesimo ufficio n. 17814/2009; rigettava, invece, la domanda riconvenzionale, di usucapione proposta dal convenuto, ritenendo non conseguita la prova dei presupposti previsti dalla legge.
Con la sentenza impugnata, n. 547/2022, la Corte di Appello di Roma rigettava i gravami principale e incidentale, proposti avverso la pronuncia di primo grado, confermandola.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione RAGIONE_SOCIALE Giacomo e NOME RAGIONE_SOCIALE affidandosi a tre motivi.
Resiste con controricorso COGNOME NOMECOGNOME
In prossimità dell’adunanza camerale, la parte ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia la violazione dell’art. 948 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello, discostandosi dalla giurisprudenza di legittimità, avrebbe erroneamente qualificato la domanda della COGNOME come di restituzione, laddove essa avrebbe invece, secondo la parte ricorrente, essere qualificata come rivendicazione, con conseguente applicazione del regime probatorio rafforzato di cui all’art. 948 c.c.
La censura è fondata.
La Corte di Appello ha ritenuto corretta la qualificazione della domanda in termini di restituzione, poiché la COGNOME aveva invocato la restituzione del bene sulla base dell’allegata inesistenza di un titolo idoneo a legittimarne la detenzione. In tal modo, la predetta avrebbe manifestato la sua intenzione di ottenere non già l’accertamento della proprietà del cespite, ma soltanto che lo stesso tornasse nella sua disponibilità.
Va premesso che le azioni di rivendicazione e di restituzione, accomunate dallo scopo pratico cui entrambe tendono – ottenere la disponibilità materiale di un bene, della quale si è privi – si distinguono nettamente per la loro differente natura, poiché all’analogia del petitum non corrisponde quella delle rispettive causae petendi : la proprietà per l’una, un rapporto obbligatorio per l’altra. La prima è connotata quindi da realtà e assolutezza, la seconda da personalità e relatività. Nella rivendicazione la ragione giuridica e l’oggetto del giudizio coincidono, identificandosi nel diritto di proprietà, di cui l’attore deve dare la c.d. probatio diabolica , dimostrando un acquisto del bene avvenuto a titolo originario da parte sua o di uno dei propri danti causa a titolo derivativo. Nel caso dell’azione di restituzione, si controverte invece su una prestazione di dare, derivante da un rapporto di carattere
obbligatorio (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 7305 del 28/03/2014, Rv. 630013, in motivazione; nonché, in termini analoghi, Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 25052 del 10/10/2018, Rv. 650672; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21853 del 09/10/2020, Rv. 659327; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 18050 del 23/06/2023, Rv. 668453).
L’elemento dirimente, ai fini della distinzione tra le due diverse domande (rivendicazione e restituzione) non è quindi, come ritiene la Corte distrettuale, la deduzione, da parte dell’attore, dell’inesistenza di un valido titolo legittimante la detenzione, bensì la prospettazione, in punto di fatto e di diritto, che l’attore stesso propone nel caso concreto: laddove il riconoscimento del suo diritto di proprietà costituisca l’oggetto della richiesta di tutela, infatti, si configura una rei vindicatio , mentre la domanda di restituzione presuppone la prospettazione, da parte dell’attore, di un rapporto giuridico a contenuto obbligatorio, del quale sia contestata la validità, l’efficacia o l’opponibilità.
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ravvisato la natura restitutoria della domanda proposta dalla COGNOME senza neppure accertare quale sarebbe stato il rapporto giuridico posto a base dell’azione di restituzione.
L’errore di diritto è palese e comporta la cassazione della sentenza. Con il secondo motivo, la parte ricorrente lamenta invece la violazione degli artt. 324 e 329 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente apprezzato la portata del giudicato esterno derivante dalla sentenza del Tribunale di Roma n. 17814/2009. La Corte capitolina avrebbe infatti affermato che detta decisione non avrebbe alcuna valenza ai fini della presente controversia, essendo stata rigettata la domanda di rivendicazione per difetto di prova.
Anche questa doglianza è fondata.
Il passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale di Roma n. 17814/2009, che aveva rigettato la domanda di rivendicazione del medesimo bene oggetto della presente controversia, a suo tempo proposta dalla COGNOME, è espressamente riconosciuto anche dalla parte controricorrente (cfr. pag. 13 del controricorso). La prova della sua esistenza, dunque, era soddisfatta, dovendosi fare applicazione del principio secondo cui ‘La parte che eccepisce il passaggio in giudicato di una sentenza ha l’onere di fornirne la prova mediante produzione della stessa, munita della certificazione di cui all’art. 124 disp. att. c.pc., anche nel caso di non contestazione della controparte, restandone, viceversa, esonerata solo nel caso in cui quest’ultima ammetta esplicitamente l’intervenuta formazione del giudicato esterno’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 36258 del 28/12/2023, Rv. 669781; conf. Cass. Sez. 6 -1, Ordinanza n. 4803 del 01/03/2018, Rv. 647893).
Il giudicato, peraltro, cade anche sulla qualificazione della domanda, poiché ‘Il giudicato si forma anche sulla qualificazione giuridica data dal giudice all’azione, quando detta qualificazione abbia condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito e la parte interessata abbia omesso di proporre specifica impugnazione sul punto’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18427 del 01/08/2013, Rv. 627588; conf. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 34026 del 19/12/2019, Rv. 656328; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21490 del 07/11/2005, Rv. 586044). Nel caso di specie, la domanda della COGNOME era stata qualificata, in quel primo giudizio, definito con sentenza n. 17814/2009, come di rivendicazione, e sul punto non era stata proposta impugnazione.
Non è dunque corretta la statuizione del giudice di seconde cure, secondo cui quella prima decisione di rigetto, emessa per assenza della prova della proprietà del bene controverso, nelle forme previste
dall’art. 948 c.c., non spiegherebbe effetto di giudicato esterno sulla presente controversia.
Si impone anche sotto questo profilo la cassazione della sentenza.
In funzione dell’accoglimento delle prime due censure, il giudice del rinvio dovrà indagare in quali limiti l’efficacia del detto giudicato esterno si rifletta sull’oggetto della domanda proposta nel presente giudizio, previa la qualificazione di quest’ultima, alternativamente in termini di rivendicazione ovvero di restituzione, avendo cura di precisare, in tale ultimo caso, quale sia il negozio giuridico posto a base della relazione con la cosa esercitata dalla società odierna ricorrente.
Il terzo motivo, con il quale si lamenta la violazione degli artt. 1146, 1158 e 1164 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., in relazione al rigetto della domanda di usucapione proposta dalla RAGIONE_SOCIALE, è assorbito dall’accoglimento delle prime due censure.
La sentenza impugnata va di conseguenza cassata, in relazione alle censure accolte, e la causa rinviata, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Roma, in differente composizione.
P.Q.M.
la Corte accoglie il primo e secondo motivo del ricorso e dichiara assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Roma, in differente composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda