Sentenza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 11071 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 1 Num. 11071 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 27/04/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 3116 R.G. anno 2019 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME presso cui è domiciliato , unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
ricorrente
contro
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME NOME , rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
contro
ricorrenti
nonché contro
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Luciano e COGNOME NOME;
intimati
avverso la sentenza n. 1853/2017 depositata il 14 dicembre 2017 della Corte di appello di Ancona.
Udita la relazione svolta all’udienza del 13 marzo 2025 dal consigliere relatore NOME COGNOME
Udito il Pubblico Ministero nella persona del dott. NOME COGNOME. Udit a l’avv. NOME COGNOME per i controricorrenti.
FATTI DI CAUSA
1. NOME COGNOME ha convenuto avanti al Tribunale di Pesaro Loretta, NOME e NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME e NOME COGNOME onde sentir dichiarare la loro responsabilità per il dissesto finanziario della società RAGIONE_SOCIALE di cui era socio, oltre che la condanna dei medesimi al risarcimento del danno quantificato, per la sola sorte capitale, in lire 2.031.000.000.
Nella resistenza dei convenuti (che hanno proposto domande riconvenzionali che più non rilevano nella presente sede), il Tribunale ha respinto le domande attrici.
– La Corte di appello di Ancona, con sentenza del 14 dicembre 2017, ha disatteso il gravame proposto da COGNOME. Ha rilevato, in sintesi, e per quel che qui conta: che la domanda risarcitoria risultava fondata sull’art. 2395 c.c. e in via subordinata sull’art. 2043 c.c.; che, a prescindere dalla qualificazione della pretesa operata dall’attore, la domanda di risarcimento del danno riguardava la diminuzione di valore della quota sociale dallo stesso posseduta; che tale danno non rientrava nel campo di applicazione del cit. art. 2395 c.c., rappresentando un effetto mediato e indiretto del danno da questi arrecato al patrimonio sociale; che il diritto alla conservazione del patrimonio sociale e la tutela del medesimo rientravano nella disponibilità esclusiva della società; che era irrilevante lo stato di
liquidazione della società al momento della proposizione dell’azione in quanto, anche a voler seguire il ragionamento dell’attore, secondo cui gli atti di mala gestio compiuti dai liquidatori dopo la messa in liquidazione della società integrerebbero dei danni diretti al diritto del socio alla liquidazione della sua quota, gli atti in questione erano stati imputati agli amministratori, e non ai liquidatori, che non erano stati nemmeno evocati in giudizio; che era infondato il motivo di gravame con cui si era lamentato il mancato accoglimento delle domande proposte sulla base della norma di cui all’art. 2043 c.c.; che, infatti, la responsabilità di cui all’art. 2395 c.c. configurava un’ipotesi specifica di responsabilità aquiliana; che, peraltro, i fatti dedotti a fondamento della responsabilità degli amministratori non potevano considerarsi estranei alla gestione sociale; che mancava, pertanto, il presupposto di fatto prospettat o dall’appellante – appunto l’estraneità dell’attività degli amministratori alla gestione sociale – att o a fondare, in tesi, la responsabilità di cui all’art. 2043 c.c..
– Avverso la sentenza della Corte marchigiana ricorre per cassazione, con quattro motivi, COGNOME. Resistono con controricorso NOME e NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
La causa, avviata alla trattazione camerale, è stata rimessa in pubblica udienza con ordinanza interlocutoria n. 16049 del 7 giugno 2023.
Sono state depositate memorie.
Il Procuratore Generale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2395 e dell’art. 2043 c.c., nonché «omesso esame e considerazione dell’importanza dell’evasione, per travisamento dei fatti». Si spiega che la Corte di appello aveva negato fossero provate le condotte dolose degli amministratori che,
attraverso vendite non fatturate – e quindi mediante l’attuazione di una vera e propria evasione fiscale avevano sottratto capitali e risorse alla società. Si osserva che tali comportamenti avevano causato l’azzeramento del capitale sociale, la mancata percezione, da parte di COGNOME, di dividendi e la perdita di valore della quota dello stesso ricorrente. Viene dedotto che la Corte di appello aveva erroneamente negato che tali danni – segnatamente quelli integrat i dalla mancata distribuzione dei dividendi e dal diminuito valore della quota – fossero danni diretti, quindi risarcibili. Si deduce, altresì, essere stato accertato che i bilanci erano stati redatti sulla base di dati non veridici e che avrebbe dovuto ritenersi risarcibile il danno derivato dall’aver il socio «incolpevolmente confidato in una raffigurazione dello stato contabile della società del tutto non rispondente al vero».
Col secondo mezzo ci si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2395 e dell’art. 2043 c.c., di un travisamento dei fatti e dell’«omesso esame e considerazione del fatto che gli atti di mala gestio , che in realtà erano attività extracontabili ed extrasocietarie, condotto la ditta RAGIONE_SOCIALE al fallimento». Si evoca giurisprudenza di questa Corte secondo cui il socio di una società di capitali è titolare, già prima che divenga esigibile il suo diritto alla quota di liquidazione, di una situazione giuridica direttamente tutelata, avente ad oggetto innanzi tutto il diritto alla durata tendenzialmente illimitata della società e alla partecipazione al libero svolgimento dell’attività negoziale di essa e delle operazioni sociali.
Il terzo motivo di ricorso oppone una ulteriore violazione e falsa applicazione degli artt. 2395 e 2043 c.c.. Si rileva che, ove il danno sia stato procurato dagli amministratori nello svolgimento di un’attività estranea alla gestione sociale, l’art. 2043 c.c. deve trovare applicazione; si aggiunge e che in tale evenienza l’azione risarcitoria si estende ai danni indiretti. Si rileva, in proposito, che la vendita di
prodotti «in nero» e la conseguente distrazione di fondi occulti da parte dell’organo amministrativ o, oltre che di alcuni soci, costituirebbe un’attività estranea alla gestione ordinaria della società. Secondo l’istante , la Corte di merito avrebbe dovuto dunque affermare che sussistevano le condizioni per l’accoglimento dell’azione risarcitoria ex art. 2043 c.c.: azione «proposta in via autonoma e svincolata rispetto all’ipotesi delineata dall’art. 2395 c.c.».
Col quarto motivo sono sempre denunciate la violazione e falsa applicazione degli artt. 2395 e 2043 c.c.. Si contesta la decisione impugnata nella parte in cui ha reputato irrilevante la falsità dei bilanci, trascurando di considerare che detta evenienza impediva all’odierno ricorrente di rendersi conto del danno che stava subendo, e quindi di esercitare le opportune azioni a tutela dei suoi diritti.
– I motivi svolti non sono meritevoli di accoglimento.
3 . – Il ricorrente incorre in un evidente fraintendimento della pronuncia impugnata allorquando deduce che la Corte di appello ha negato l’esistenza delle operazioni che avrebbero «sottratto risorse e capitali alla società». Il Giudice distrettuale ha piuttosto escluso, come si è detto, che il danno di cui era stato domandato il risarcimento potesse rappresentare, per esso COGNOME, conseguenza immediata e diretta della denunciata condotta illecita degli amministratori.
4 . – Ora, nella presente sede il ricorrente contesta, col primo motivo, che la perdita di valore della propria quota e la mancata riscossione, da parte sua, dei dividendi societari rappresentino voci di un danno indiretto, come tale irrisarcibile.
La giurisprudenza di questa S.C. è invece assolutamente ferma nel ritenere che l’azione individuale del socio nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 c.c. esige che il singolo socio sia stato danneggiato «direttamente» dagli atti colposi o dolosi
dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società: la mancata percezione degli utili e la diminuzione di valore della quota di partecipazione non costituiscono danno diretto del singolo socio, poiché gli utili fanno parte del patrimonio sociale fino all’eventuale delibera assembleare di distribuzione e la quota di partecipazione è un bene distinto dal patrimonio sociale la cui diminuzione di valore è conseguenza soltanto indiretta ed eventuale della condotta dell’amministratore (Cass. 28 aprile 2021, n. 11223; Cass. 22 marzo 2012, n. 4548; in tema cfr. pure: Cass. 22 marzo 2011, n. 6558; Cass. 19 aprile 2010, n. 9295; Cass 13 luglio 2007, n. 16416; Cass. 3 aprile 2007, n. 8359; Cass. 28 maggio 2004, n. 10271).
Il principio è da condividere ed è del resto necessitato dalla distinzione esistente tra società e socio nelle società di capitali, ma anche in quelle di persone (cfr. Cass. 25 gennaio 2016, n. 1261, sempre con riguardo al disposto dell’art. 2395 c.c., applicato a queste ultime in via di analogia); tale dato esclude, come è evidente, la possibilità di ammettere che il socio stesso possa ottenere il risarcimento del pregiudizio che investe la sfera giuridica della società e, di conseguenza, che possa farsi luogo a un doppio ristoro del medesimo danno. Ciò è quanto accadrebbe se, in ipotesi, si consentisse al socio di ottenere il risarcimento del danno per la mancata percezione degli utili in assenza di una delibera di distribuzione dei medesimi; il fatto illecito degli amministratori, consistente, ad esempio, nella distrazione dei medesimi, cesserebbe di essere un fatto produttivo del solo pregiudizio al patrimonio sociale, privato di quegli incrementi, per divenire anche un fatto generatore del danno del socio: conclusione, questa, non coerente col fenomeno societario, nell’abito del quale le posizioni soggettive della società e dei soci restano nettamente distinte, a differenza di quanto si verifica all’interno di altri istituti, come in quello della comunione, ove una tale
separazione delle sfere soggettive non è invece presente.
Come questa Corte ha avuto modo di rilevare, la partecipazione sociale riflette l’insieme di facoltà e poteri, da esercitarsi all’interno della struttura societaria, strumentali al suo funzionamento e al perseguimento dello scopo sociale costituito dal conseguimento di utili e, in caso di scioglimento della società, della quota di liquidazione. Essa ha, specie nelle società di capitali, una spiccata autonomia giuridica rispetto al patrimonio sociale: autonomia che le consente di avere un suo proprio valore; il che appunto « dimostra come essa sia un bene giuridicamente distinto dal patrimonio sociale e quindi, anche sotto tale aspetto, inidoneo a venire direttamente danneggiato da vicende che riguardino quest’ultimo, le quali potranno avere su di essa effetti solo indiretti e riflessi » (Cass. 14 febbraio 2012, n. 2087, in motivazione; la pronuncia rileva pure come per la disciplina economica il valore di mercato della partecipazione non è dato solo dalla frazione di valore del patrimonio sociale che essa rappresenta, ma è influenzato da molteplici fattori ulteriori, che rendono limitatamente correlabili i due valori, cosicché non ad ogni diminuzione patrimoniale della società corrisponde una diminuzione di valore delle azioni e delle quote e, viceversa, non ad ogni incremento di detto patrimonio si rapporta un simmetrico aumento del valore di mercato delle azioni e delle quote).
In definitiva, il socio ha titolo ad ottenere il risarcimento dei soli danni che investono, in modo immediato, la sua situazione soggettiva: danni che sono stati ritenuti ad esempio esistenti nel caso di non veritiera rappresentazione della società, che abbia indotto all’acquisto di azioni a un prezzo difforme da quello reale (Cass. 12 giugno 2007, n. 13766, non massimata in CED ), nell’ipotesi del liquidatore di una società cooperativa edilizia che storni a copertura del debito di un socio inadempiente il versamento effettuato da altro socio per il pagamento della sua rata (Cass. 17 novembre 1982, n. 6154), o
ancora nel caso della mancata consegna, ai sottoscrittori, delle azioni corrispondenti al valore nominale delle somme versate (Cass. 10 aprile 1979, n. 2055).
Del resto, e per le stesse ragioni, la non configurabilità del diritto del socio al risarcimento del danno determinato dall’illecito che colpisce il patrimonio della società viene proclamata anche ove l’atto lesivo sia posto in essere non già dall’amministratore, ma da un terzo: infatti, qualora una società di capitali subisca, per effetto dell’illecito commesso da un terzo, un danno, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di questa, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non anche a ciascuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio, obbligando il responsabile al relativo risarcimento, mentre l’incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto indiretto di detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta dell’illecito (per tutte: Cass. Sez. U. 24 dicembre 2009, n. 27346).
5 . – Col quarto motivo, ma anche col primo, il ricorrente oppone, come si è visto, che la Corte territoriale abbia mancato di valorizzare le false attestazioni presenti nei bilanci.
Il ricorrente fa però questione della diminuzione del valore della propria quota (ricorso, pag. 33; cfr. pure sentenza, pag. 7): sicché la mancata rappresentazione di dati veridici è posta in relazione a un pregiudizio (quello relativo alla quota) che, per quanto detto, non è suscettibile di risarcimento. È sintomatico, al riguardo, che l’istante si dolga di «un danno conseguente alla diminuzione di valore del capitale sociale e della propria quota», per capitale sociale egli evidentemente intendendo il patrimonio della società: con ciò è prospettata un’assimilazione tra elementi (la quota e il patrimonio sociale) che, come si è visto, non possono confondersi, ma devono restare
giuridicamente distinti.
Il primo e il quarto mezzo sono dunque infondati.
6 . – Col secondo motivo è evocato il principio, affermato da questa Corte, per cui il socio di una società di capitali è titolare, già prima che divenga esigibile il suo diritto alla quota di liquidazione, di una situazione giuridica direttamente tutelata, avente ad oggetto innanzi tutto il diritto alla durata tendenzialmente illimitata della società ed alla propria partecipazione al libero svolgimento dell’attività negoziale di essa e delle operazioni sociali (così: Cass. 17 maggio 2010, n. 11959; Cass. 27 luglio 2005, n. 15721).
Il rilievo non è tuttavia conferente: la menzionata giurisprudenza assume che il diritto del socio alla quota, prima che divenga esigibile con l’approvazione del bilancio finale di liquidazione e il soddisfacimento dei creditori sociali, abbia una consistenza diversa da quella di una mera aspettativa sfornita di tutela. Ma ciò non significa che il detto soggetto, nel corso della vita sociale, possa ottenere il risarcimento di danni che investono, in via diretta, la sfera patrimoniale della società, e non la sua. Il diritto del socio a partecipare alla vita associativa, e quindi la spettanza, in capo a lui, dei diritti sociali, corporativi e patrimoniali, non va confuso col diritto alla conservazione del patrimonio sociale: tale diritto, come si è detto, spetta alla società e il socio è portatore, al riguardo, di una posizione di mero interesse, la cui eventuale lesione non può concretare per lui un danno diretto, necessario perché possa efficacemente esperire l’azione individuale di responsabilità ex art. 2395 c.c..
Anche il secondo motivo va dunque disatteso.
7 . – È inammissibile, da ultimo, il terzo mezzo.
La responsabilità degli organi sociali, derivante dall’azione proposta dal socio ex art. 2395 c.c. ha per certo natura extracontrattuale (per tutte: Cass. 8 febbraio 2019, n. 3779). Peraltro, ai fini della sussistenza di tale responsabilità non rileva che il
danno sia stato arrecato al socio o al terzo dagli amministratori nell’esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze (Cass. 3 aprile 2007, n. 8359, cit.; Cass. 28 marzo 1996, n. 2850).
La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso che in caso di danni procurati dagli amministratori nel corso di attività estranee alla gestione sociale troverebbe applicazione l’art. 2043 c.c.. Non si vede, però, come la questione qualificatoria prospettata dall’istante possa dirsi concludente. Se la fattispecie di cui all’art. 2395 c.c. copre tutti i casi di danni arrecati dagli amministratori al socio, indipendentemente dal fatto che essi siano cagionati nell’esercizio delle incombenze dei detti amministratori o al di fuori di tale ambito, la censura svolta dal ricorrente risulterebbe fondata solo ove la Corte di merito avesse escluso la tutela risarcitoria per la non inerenza delle condotte illecite dannose alla sfera di competenza degli amministratori. Di contro, la Corte di merito ha accertato che i fatti dedotti a fondamento della responsabilità degli amministratori non potevano considerarsi estranei alla gestione sociale condotta da questi ultimi.
8 . – Il ricorso è dunque respinto .
9 . – Segue la condanna del ricorrente, che è soccombente, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione