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Aziende cessate: salvaguardia negata per chiusura parziale

La Corte di Cassazione ha stabilito che il beneficio della c.d. “settima salvaguardia” pensionistica, previsto per i lavoratori di “aziende cessate”, non si applica in caso di chiusura di una sola unità operativa. Il caso riguardava un lavoratore il cui datore di lavoro aveva perso un appalto, cessando l’attività solo in quella specifica sede. La Corte ha chiarito che l’interpretazione del termine deve essere restrittiva: l’azienda deve aver cessato completamente e definitivamente la propria attività, non solo una sua parte. Pertanto, ha annullato la decisione della Corte d’Appello che aveva concesso il beneficio al lavoratore, rigettando la sua domanda originaria.

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Aziende cessate e salvaguardia: la Cassazione chiarisce

Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha fornito un’interpretazione restrittiva del concetto di aziende cessate ai fini dell’accesso alla cosiddetta “settima salvaguardia” pensionistica. Questa misura, introdotta per tutelare i lavoratori prossimi alla pensione dalle riforme più severe, non si applica se l’azienda ha chiuso solo una parte della sua attività, come una singola sede o un appalto, pur continuando a operare altrove. La decisione sottolinea la natura eccezionale delle norme di salvaguardia e i limiti della loro applicazione.

I Fatti di Causa

Il caso nasce dalla richiesta di un lavoratore, dipendente di una grande società di ristorazione, di accedere alla pensione anticipata tramite la “settima salvaguardia”. Il suo rapporto di lavoro era cessato a seguito della perdita, da parte del datore di lavoro, dell’appalto per il servizio di ristorazione presso l’azienda cliente dove egli prestava servizio.

Mentre il datore di lavoro aveva chiuso quella specifica unità operativa, aveva però continuato a svolgere la sua attività in numerose altre sedi e appalti su tutto il territorio nazionale. L’ente previdenziale aveva negato la prestazione, sostenendo che non si configurasse l’ipotesi di “azienda cessata” richiesta dalla legge.

Il Tribunale di primo grado aveva dato ragione all’ente, ma la Corte d’Appello aveva ribaltato la decisione. Secondo i giudici di secondo grado, la norma andava interpretata estensivamente, ritenendo sufficiente la cessazione dell’attività nella struttura specifica in cui il lavoratore era impiegato. Contro questa sentenza, l’ente previdenziale ha proposto ricorso in Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’ente previdenziale, cassando la sentenza d’appello e rigettando definitivamente la domanda del lavoratore. Gli Ermellini hanno stabilito che l’interpretazione corretta della norma non consente di equiparare la chiusura di una singola unità produttiva alla cessazione totale dell’azienda.

Le motivazioni

La Corte ha fondato la sua decisione su un’analisi rigorosa della natura e della portata della norma sulla salvaguardia.

In primo luogo, ha ribadito che le disposizioni di salvaguardia costituiscono un’eccezione alle regole generali del sistema pensionistico. In quanto tali, esse sono soggette a un’interpretazione restrittiva e non possono essere applicate per analogia a casi non espressamente previsti. Il legislatore, utilizzando il sintagma aziende cessate, ha inteso riferirsi a un evento specifico e univoco: la chiusura definitiva e completa di tutte le attività aziendali.

La Cassazione ha spiegato che un’interpretazione estensiva, come quella adottata dalla Corte d’Appello, si tradurrebbe in un’inammissibile interpretazione analogica. Creerebbe infatti una nuova eccezione non prevista dalla legge, estendendo il beneficio a situazioni (la cessazione parziale) che il legislatore non ha contemplato. Il concetto di “cessazione parziale” non è contenuto, neanche implicitamente, nel testo normativo. L’azienda “cessata” è, per definizione, un’azienda che non opera più.

Inoltre, la Corte ha sottolineato la ratio legis della norma. La salvaguardia è uno strumento di ultima ratio, volto a proteggere lavoratori che perdono il posto in un contesto di crisi aziendale definitiva, che preclude ogni possibilità di ricollocazione interna. Nel caso di specie, invece, il datore di lavoro continuava ad operare, e la mancata ricollocazione del lavoratore era attribuibile a una specifica scelta aziendale, non alla scomparsa dell’azienda stessa.

Le conclusioni

La pronuncia della Corte di Cassazione stabilisce un principio chiaro: per accedere ai benefici della salvaguardia previsti per i dipendenti di aziende cessate, è indispensabile che il datore di lavoro abbia cessato la propria attività in modo totale e definitivo. La chiusura di un singolo ramo d’azienda, di una sede o la perdita di un appalto non sono sufficienti a integrare il requisito di legge. Questa decisione rafforza il principio di stretta interpretazione delle norme eccezionali e derogatorie in materia previdenziale, limitandone l’applicazione ai soli casi esplicitamente e inequivocabilmente previsti dal legislatore.

Ai fini della salvaguardia pensionistica, cosa si intende per “aziende cessate”?
Per “aziende cessate” si intendono esclusivamente le aziende che hanno cessato in modo definitivo e completo la totalità della loro attività. La norma non si applica a chiusure parziali.

La chiusura di una singola sede o la perdita di un appalto dà diritto alla salvaguardia?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la chiusura di una singola unità produttiva, di una struttura o la cessazione di un appalto, mentre l’azienda continua a operare altrove, non è sufficiente per accedere al beneficio della salvaguardia previsto per i dipendenti di aziende cessate.

È possibile un’interpretazione estensiva delle norme sulla salvaguardia?
No, in questo caso non è possibile. La Corte ha stabilito che, trattandosi di norme eccezionali che derogano alla regola generale, devono essere interpretate in modo restrittivo. Un’interpretazione estensiva che includa la cessazione parziale equivarrebbe a un’applicazione analogica vietata dalla legge.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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