Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 16247 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 16247 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 17/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9952/2022 R.G., proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME domiciliata ex lege come da indirizzo pec indicato,
–
ricorrente –
contro
COGNOME NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME domiciliata ex lege come da indirizzo pec indicato,
-controricorrente – per la cassazione della sentenza n. 602/2021 della CORTE d’APPELLO di Lecce pubblicata il 23.9.2021;
udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del l’11.3.2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza pubblicata l’ 8.10.2019 il Tribunale di Lecce, dichiarata cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di rilascio dell’immobile sito in
Locazione uso diverso
Lecce, INDIRIZZO, locato ad RAGIONE_SOCIALE condannava quest’ultima al pagamento in favore di NOME COGNOME di euro 35.270,32, oltre gli interessi dalla data della decisione al saldo.
NOME COGNOME aveva intimato sfratto per morosità nei confronti della conduttrice , per essersi quest’ultima resa morosa nel pagamento dei canoni dovuti in base al contratto del 28.1.1991, nel quale era subentrata per essere divenuta proprietaria in data 28.4.2011. In particolare, la locatrice lamentava che la conduttrice, oltre al mancato pagamento dell’aggiornamento istat a far tempo d all’1.7.2014 pari ad euro 40,62 al mese sul canone di euro 699,38, si era autoridotto il canone ad euro 551,60.
RAGIONE_SOCIALE si costituiva, contestava la morosità e spiegava domanda per il pagamento di euro 5.937,48 per effetto dell’erroneo calcolo dell’aggiornamento istat richiesto. In particolare, p recisava la conduttrice che il 28.6.1991 la società RAGIONE_SOCIALEoggi RAGIONE_SOCIALE) stipulava con NOME COGNOME e NOME COGNOME il contratto di locazione avente ad oggetto l’immobile di INDIRIZZO in Lecce per un canone mensile di euro 490,64 con rivalutazione pari al 75% della variazione Istat; che nell’agosto 1995, risolto consensualmente il primo contratto, aveva stipulato con gli stessi locatori altro contratto ma con un canone minore di euro 480,30, che per effetto dell’aggiornamento istat al mese di aprile del 2011 ammontava a euro 525,00; una volta acquistato l’immobile NOME COGNOME formula va richiesta di aggiornamento del canone a far tempo dal maggio 2011, alla quale aveva replicato che il canone dovuto era di euro 525,00 ; ciononostante ‘al solo fine di evitare un contenzioso’ aveva provveduto al pagamento del canone mensile di euro 699,38; in data 3.6.2014 la locatrice chiedeva altro aggiornamento del canone che ascendeva a euro 740,85, alla quale aveva replicato che erroneamente era stata presa a base di calcolo il canone (risalente al primo contratto) di euro 490,63, e non quello di euro 480,30 (previsto nel contratto del 1995), con conseguente sfalsamento della data di decorrenza per il computo; a decorrere dalla mensilità di ottobre effettuava il pagamento del canone di euro 551,69 mediante vaglia postali tutti rifiutati dalla locatrice.
Il Tribunale di Lecce non convalidava lo sfratto e, disposto il mutamento del rito, nel corso del procedimento ammetteva una C.T.U. contabile. Nel corso del giudizio l’offerta di pagamento dei canoni do vuti, effettuata dalla conduttrice banco iudicis mediante assegno circolare, era rifiutata dalla locatrice.
La Corte d’Appello di Lecce con sentenza pubblicata il 23.9.2021, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla conduttrice , determinava in euro 26.190,00 l’importo dalla stessa dovuto , compensando per la metà le spese di lite di entrambi i gradi.
Osservò la Corte d’appello che NOME COGNOME per essere divenuta proprietaria dell’immobile nel 2011 , pur essendo subentrata nel contratto di locazione, non avrebbe potuto rimettere in discussione quanto concordato tra le parti del medesimo contratto, le quali nel 1995 avevano ridotto il canone da euro 490,64 a euro 480,30 , sì che il riferimento al contratto del 1991 nell’atto di compravendita non avrebbe potuto attribuire all’acquirente diritti maggiori di quelli spettanti all’alienante.
La Corte d’appello, nondimeno, notò che la conduttrice era inadempiente . In particolare, dall’1.7.2014 al 30.7.2015 aveva corrisposto il canone autoridotto di euro 551,00 a fronte del dovuto di euro 613,33; aveva omesso di corrispondere il canone nel trimestre agosto/settembre/ottobre 2014; non aveva più corrisposto il canone fino al 30.6.2019 (data del rilascio), poiché da quel momento si era limitata a inviare il canone autoridotto mediante vaglia postali e, a fronte del rifiuto della locatrice di incassarli, non aveva provveduto a formalizzare l’offerta o a provvedere al deposito delle somme effettivamente a sua disposizione.
Aggiunse la Corte d’appello, in disparte il rilievo che la locatrice aveva dichiarato di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa prevista in contratto, che l’inadempimento sussisteva per il solo dato dell’autoriduzione del canone in modo non proporzionato, e quindi contrario alla buona fede, rispetto alla condotta della locatrice: l’inadempimento si era protratto per anni per aver la conduttrice continuato a offrire il pagamento del canone autoridotto mediante vaglia postali, rifiutati dalla Panico, il cui comportamento non lo si sarebbe potuto considerare contrario a buona fede , data l’insufficienza della somma offerta.
Aggiunse ancora la Corte d’appello che l’offerta non formale della prestazione è idonea a escludere la mora del debitore soltanto se seria, tempestiva e completa, e ove consista nell’effettiva introduzione dell’oggetto integrale della prestazione nella disponibilità del creditore, sì che per la costituzione in mora del creditore è necessario che essa comprenda la totalità della somma dovuta, degli interessi e delle spese liquide, con la conseguenza che il rifiuto del creditore fondato sull’inidoneità della somma offerta a coprire l’intero ammontare del credito non vìola il disposto dell’art. 1220 cod. civ., risultando lo stesso legittimamente formulato. Nessuna di tali condizioni ricorreva, perché le somme mensilmente offerte erano significativamente inferiori al dovuto, l’offerta informale era incompleta e le somme, irritualmente offerte mediate vaglia postali, non erano state poste nella disponibilità della locatrice.
La Corte d’appello, tuttavia, con riferimento al triennio 1.7.2011/30.6.2014, sulla base del metodo di calcolo adottato dal Tribunale, non contestato se non quanto alla base di partenza, determinava in euro 3. 981,96 l’importo oggetto di ripetizione, perché non dovuto dalla conduttrice, che poneva in compensazione con il credito della locatrice per canoni non versati dall’1.8.2015 al 30.6.2019 di euro 29.424,00.
Per la cassazione della sentenza della Corte ricorre RAGIONE_SOCIALE sulla base di cinque motivi. Risponde con controricorso NOME COGNOME
La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, ai sensi dell’art.380bis .1. cod. proc. civ..
Il Pubblico Ministero presso la Corte non ha presentato conclusioni scritte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n . 3, 4 e 5, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per l’omessa pronuncia sulla mancata applicazione dell ‘art. 1, comma 346, l. 311/2004. ‘Omessa statuizione conseguente alla non vigenza del contratto dedotto in giudizio (1991), inammissibilità ed improcedibilità della domanda’ .
Lamenta la ricorrente che la Corte d’appello, pur ritenendo fondato il primo motivo d’appello in relazione al contratto vigente tra le parti (quello del 1995), a
fronte di una azione promossa dalla locatrice sulla base del contratto del 1991, nulla aveva statuito in ordine alla sua «inesistenza» e alla conseguente inammissibilità della domanda . Detta azione, inoltre, in base all’art. 1, comma 346, l. 311/2004, stabilente la nullità dei contratti non registrati, era inammissibile per le annualità successive alla data di entrata in vigore della indicata disposizione.
1.1. Il motivo è inammissibile.
Il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito, che integra una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 cod. proc. civ., si ha quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (v., Cass., Sez. I, 13 giugno 1972, n. 1853; Cass., Sez. V, 16 maggio 2012, n. 7653; Cass., Sez. VI-5, 27 novembre 2017, n. 28308; sez. 6-I, 16 luglio 2018, n. 18797), e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della «domanda» di appello (v. Cass., sez. II, 22 gennaio 2018, n. 1539).
Poiché, dunque, il vizio di mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 cod. proc. civ., riguarda soltanto l’ambito oggettivo della pronunzia e non anche le ragioni di diritto e di fatto assunte a sostegno della decisione (v. Cass., Sez. II, 21 aprile 1976, n. 1397; più di recente Cass., sez. II, 12 luglio 2024, n. 19241), non ricorre la violazione di tale disposizione allorché si lamenti che il giudice del merito non abbia pronunciato su una determinata prospettazione fatta da una delle parti.
1.2. Il motivo è peraltro privo di specificità per essere affetto da una palese violazione dell’art. 366, comma primo, n. 6, cod. proc. civ., giacché esso allude -sebbene poi non specifichi alcunché di pertinente -ad un primo motivo di appello, cui si dovrebbe riferire il vizio, ma omette di individuarne il contenuto, che nemmeno è riferito nell’esposizione del fatto. Questo rilievo giustifica pure
l’inammissibilità della seconda censura, quella indicata come ‘Omessa statuizione conseguente alla non vigenza del contratto dedotto in giudizio (1991), inammissibilità ed improcedibilità della domanda ‘ . In pratica, il motivo nella sua interezza risulta inidoneo ad integrare una censura alla sentenza, dato che omette di individuare come devoluto in appello quello di cui la sentenza doveva occuparsi e di cui non si sarebbe occupata (v. Cass., sez. un., 27 dicembre 2019, n. 34469 e ribadito più di recente da Cass., sez. III, 1° luglio 2021, n. 18695).
La Corte d’appello a pagina 4 (da riga 20), nell’esame del primo motivo d’appello, ha osservato che NOME COGNOME per essere divenuta proprietaria dell’immobile nel 2011, pur essendo subentrata nel contratto di locazione, non avrebbe potuto rimett ere in discussione ‘le negoziazioni intercorse tra i contraenti originari del rapporto locativo, che pacificamente, avevano pattuito nel 1995 -con contratto debitamente registrato e, perciò, munito di data certa -di ridurre il canone locatizio mensile da ll’originario importo di euro 490,64 a euro 480,30’, sì che il riferimento al contratto del 1991 nell’atto di compravendita non avrebbe potuto attribuire all’acquirente diritti maggiori di quelli spettanti all’alienante. Ha poi aggiunto la Corte d’appello che ‘la riduzione del canone, operata con il contratto perfezionato nel 1995 … si connota come legittima espressione dell’autonomia privata e, perciò, non potrebbe ritenersi inficiata da nullità per violazione di cui all’art.79 l. 392/1978 …’
Non è revocabile in dubbio che la Corte d’appello si sia pronunciata sulle ragioni esposte nel primo motivo d’appello, per come riportate nella sentenza, avendo rilevato la mutua risoluzione del contratto del 1991 e la successiva stipulazione di un nuovo contratto, debitamente registrato. Risulta così non pertinente il richiamo all’omessa registrazione del contratto del 1991, posto che per le annualità succ essive all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 346, l. 311/2004, come già detto, il contratto del 1995 era stato registrato con statuizione non censurata in questa sede.
La ricorrente nello sviluppo del motivo non ha neppure debitamente considerato la ratio decidendi espressa dalla Corte d’appello. Di qui il difetto di decisività del motivo. La ricorrente ha prospettato la censura in termini non
aderenti alla sentenza impugnata, di qui l’inammissibilità del motivo dovendosi senz’altro dare seguito ai consolidati principi di diritto, in base ai quali ‘La proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al «decisum» della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366, comma primo, n.4, cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio’ (v. Cass., sez. III, 7 novembre 2005, n. 21490; sez. 6-I, 7 settembre 2017, n. 20910; in motivazione, Cass., sez. un., 20 marzo 2017, n. 7074, che ribadisce il principio di diritto similare affermato da Cass. n. 359 del 2005, nel senso che <>; sez. 6-III, 3 luglio 2020, n. 13735).
Con il secondo motivo viene denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4 e n. 5, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 112 e 167 cod. proc. civ. per aver la Corte d’appello deciso la causa sulla base di una questione mai allegata in giudizio.
La locatrice -si assume mai aveva formulato una reconventio recoventionis tesa all’accertamento della pretesa morosità e aveva continuato a sostenere la validità ed efficacia del contratto del 1991 : ‘sia il giudice di prime cure, che la Corte d’appello hanno, per contro, delibato sulla situazione di morosità, in assenza di espressa domanda in tal senso’.
2.1. Il motivo è inammissibile.
La ricorrente non solo assume come oggetto di critica un breve passo motivazionale della sentenza di appello ( ‘ va rilevato che le considerazioni innanzi svolte non travolgono la valutazione del Tribunale, che ha individuato nell’odierna appellante la parte inadempiente ‘, pagina 13 della sentenza, da riga 13 a riga 16), che si riferisce alla sentenza di primo grado, ma nell’imputare la decisione in mancanza di domanda sia al primo giudice che al secondo, nuovamente omette di identificare il devolutum di appello che renderebbe pertinente la pur generica doglianza, ma anche a monte il decisum della sentenza di primo grado, di quest’ultima non fornendo l’indicazione specifica né contenutistica né quoad localizzazione.
Anche a voler prescindere dal fatto che l’odierno procedimento trae origine dall’intimazione di sfratto per morosità della conduttrice denunciato dalla locatrice (v. altresì i punti 4 e 5 a pagina 3 del ricorso), l a Corte d’appello ha evidenziato come la conduttrice nell’esplicita opposizione della locatrice ‘per il periodo 1/7/2014 -30/7/2015 ha corrisposto il canone autoridotto nella misura di euro 551,00, a fronte del canone dovuto di euro 633,33 (v. relaz. C.T.U., tabella B2, pagg. 9-10); ha omesso di corrispondere il canone nel trimestre agosto/settembre/ottobre 2014; non ha più corrisposto il canone fino al 30/6/2019, data del rilascio dell’immobile, posto che si è limitata ad inviare il canone autoridotto alla locatrice mediante vaglia postale e, a fronte del sistematico rifiuto della COGNOME ad incassare i vaglia, non ha poi provveduto a formalizzare l’offerta o, quanto meno, a provvedere al deposito delle somme, lasciandole effettivamente a disposizione della locatrice’ (da pagina 13 della sentenza, ultimo capoverso, a pagina 14, prima riga).
Si aggiunga che a pagina 6 della sentenza impugnata la Corte d’appello , senza per questo integrare una autonoma ratio decidendi , ha rilevato che la Panico aveva dichiarato nel corso del giudizio che intendeva far valere la clausola risolutiva espressa prevista in contratto. Con il che va evidenziato, e tanto rileva ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., con riferimento alla sezione «esposizione sommaria dei fatti», quanto ai fini della specificità del motivo ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 6, cod. proc. civ., che la ricorrente
ha omesso di riprodurre il contenuto delle difese e delle domande svolte dalla COGNOME e di provvedere alla debita localizzazione, ai fini dell’esame da parte di questa Corte.
Con il terzo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., la violazione degli artt. 1220 e 1218 cod. civ. , ‘per aver il giudice di merito attribuito rilevanza determinante alla morosità, senza tenere nella giusta valutazione il comportamento processuale tenuto dalla controparte nel rifiutare la prestazione’.
La ricorrent e si duole dell’erronea affermazione in ordine al suo inadempimento, poiché la mancata percezione dei canoni di locazione, sia di quelli posti a fondamento della intrapresa azione di sfratto, sia di quelli successivi in corso di giudizio, è dipesa dalla «volontà lucida» dell’attrice di rifiuto dei vaglia postali, dell’offerta fatta banco iudicis e del ritiro presso il legale (della conduttrice), dove erano stati depositati fiduciariamente e messi a disposizione per l’incasso. Se è vero che l ‘offerta mediante vaglia posta le, per quanto non concordata, costituisce ‘inesatto adempimento’ , essa era indicativa della seria volontà di adempiere: una volta effettuato il vaglia postale la disponibilità dell’importo esce dall a sfera dell ‘ordinante, così equivalendo ad una offerta non formale ex art. 1220 cod. civ. atta a paralizzare anche la stessa possibilità di far valere la clausola risolutiva espressa.
3.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 366, comma primo, n. 4, cod. proc. civ.
Si deve richiamare il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte per come enunciato da Cass. 359/2005 citata a proposito del modo di enunciazione del motivo in relazione all’errore contenuto nella decisione impugnata (v. anche ex aliis Cass., sez. un., 20 marzo 2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; 5 agosto 2016, n. 16598; 3 novembre 2016, n. 22226; Cass. 12 gennaio 2024, n. 1341; 15 aprile 2021, n. 9951; 5 luglio 2019, n. 18066; 13 marzo 2009, n. 6184; 10 marzo 2006, n. 5244; 4 marzo 2005, n. 4741).
A tanto la ricorrente non ha provveduto in relazione alla dedotta violazione degli artt. 1220 e 1218 cod. civ., i due brevi periodi di motivazione, censurati, il primo nella penultima proposizione della pagina 6, il secondo nell’ultima che termina nella pagina successiva, rappresentano la risultante delle diffuse considerazioni svolte dalla sentenza nella pagina 5 e nella stessa pagina 6. Esse sono ignorate. Inoltre, al primo stralcio di motivazione, che, peraltro richiama un principio di diritto, ne segue un altro, pure richiamante altro principio, che è del tutto ignorato.
La ricorrente in modo assertorio ha contestato la propria inadempienza e ha svolto deduzioni afferenti essenzialmente al riesame del giudizio di merito fatto, ma senza tenere nel debito conto le deduzioni svolte dalla Corte d’appello salentina in merito:
-alla non conformità al canone della buona fede ex art. 1460, comma secondo, della condotta posta in essere e sopra riportata ( la conduttrice ‘per il periodo 1/7/2014 -30/7/2015 ha corrisposto il canone autoridotto nella misura di euro 551,00, a fronte del canone dovuto di euro 633,33 (v. relaz. C.T.U., tabella B2, pagg. 9-10); ha omesso di corrispondere il canone nel trimestre agosto/settembre/ottobre 2014; non ha più corrisposto il canone fino al 30/6/2019, data del rilascio dell’immobile, posto che si è limitata ad inviare il canone autoridotto alla locatrice mediante vaglia postale e, a fronte del sistematico rifiuto della Panico ad incassare i vaglia, non ha poi provveduto a formalizzare l’offerta o, quanto meno, a provvedere al deposito delle somme, lasciandole effettivamente a disposizione della locatrice’ );
-alla non adeguatezza dell’offerta informale fatta dalla conduttrice , là dove la Corte d’appello ha affermato che essa rileva soltanto se seria, tempestiva e completa, e consista nell’effettiva introduzione dell’oggetto integrale della prestazione nella disponibilità del creditore, sì che per la costituzione in mora del creditore è necessario che essa comprenda la totalità della somma dovuta, degli interessi e delle spese liquide, con la conseguenza che il rifiuto del creditore fondato sull’inidoneità della somma offerta a coprire l’intero ammontare del credito non vìola il disposto dell’art. 1220 cod. civ., risultando
lo stesso legittimamente formulato (con il richiamo di Cass. 6 luglio 2006, n. 15352 e Cass. 16 novembre 2017, n. 27255).
La ricorrente, pertanto, ha prospettato la censura in termini non aderenti alla effettiva motivazione della sentenza impugnata, di qui l’inammissibilità del motivo sulla base del già ricordato principio di diritto enunciato da Cass. 359/2005, Cass. 21490/2005, Sez. Un. 7074/2017, 13735/2020 citate.
Con il quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. ‘erroneità della condanna al pagamento delle spese di lite’.
Secondo la ricorrente le errate valutazioni sopra esposte investono la sentenza impugnata nella parte in cui è stata disposta la condanna al pagamento di parte delle spese di lite e di quelle di C.T.U.
4.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell ‘art. 366, comma primo, 4. Cod. proc. civ.: si tratta di un ‘non motivo’.
Di là dall’improprio richiamo all’art. 112 cod. proc. civ., posto che la ricorrente si duole per la disposta condanna al pagamento parziale delle spese di lite e di una parte di quelle di C.T.U., la statuizione impugnata sarebbe stata caducata in forza dell’art. 336, comma secondo, cod. proc. civ. se qualcuno dei prospettati motivi di impugnazione fosse risultato accoglibile, ma così non è alla luce di quanto indicato nell’esame complessivo dei motivi di impugnazione.
Con il quinto motivo viene denunciata, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ.
La ricorrente con riferimento all’importo oggetto di condanna di pagamento in suo danno, previa compensazione con il proprio contro credito di euro 3.981,96, lamenta che l’applicazione della rivalutazione istat sia stata fatta in assenza di una specifica richiesta della locatrice. Per contro, la locatrice solo nel 2011 formulò tale richiesta e, quindi, il canone non lo si sarebbe potuto rivalutare annualmente ed automaticamente.
5.1. Il motivo è inammissibile.
Preliminarmente, deve rilevarsi il carattere meramente assertorio della censura in ordine all’applicazione della rivalutazione istat nell’ambito de lla disposta compensazione giudiziale tra crediti.
Ad ogni modo, n ell’ambito di un ricorso per cassazione per dedurre la violazione del paradigma dell’articolo 115 cod. proc. civ. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma (v. Cass. 10 giugno 2016, n. 11892, il cui principio di diritto trovasi ribadito anche dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 20867 del 2020 e già da Cass., sez. un., 5 agosto 2016, n. 16598, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto; Cass., VI-3, 23 ottobre 2018, n. 26769; sez. lav., 19 agosto 2020, n. 17313). Ciò significa che per realizzare la violazione deve aver giudicato, o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso articolo 115 cod. proc. civ.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’articolo 116 cod. proc. civ. , rubricato per l’appunto “valutazione delle prove” (v. Cass. 11892/2016, cit.).
5.2. Il motivo, inoltre, è inammissibile, poiché verte su una questione non menzionata nella sentenza impugnata, ponendo la ricorrente una questione di carattere fattuale avendo prospettato il problema dell’assenza di richiesta di aggiornamento istat del canone da parte della locatrice se non dal 2011.
Secondo un indirizzo costante di questa Corte (v., indicativamente, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. 1° luglio 2024, n. 18018; Sez. Un., 29 gennaio 2024, n. 2607; 17 febbraio 2023, n. 5131; 23 settembre 2021, n. 25909; 24 gennaio 2019, n. 2038; 13 giugno 2018, n. 15430; 28 luglio 2008, n. 20518),
qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso. I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio (v. Cass. 13 dicembre 2019, n. 32804; 24 gennaio 2019, n. 2038; 9 agosto 2018, n. 20694; 18 ottobre 2013, n. 23675). In quest’ottica, la parte ricorrente ha l’onere -nella specie rimasto assolutamente inadempiuto -di riportare, a pena d’inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta in primo e secondo grado (cfr. Cass. 10 maggio 2005, n. 9765; 12 settembre 2000, n. 12025). Nel giudizio di cassazione, infatti, è preclusa alle parti la prospettazione di nuovi questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito (v. Cass. 13 settembre 2007, n. 19164; 9 luglio 2013, n. 17041; 25 ottobre 2017, n. 25319; 20 maggio 2018, n. 20712; 6 giugno 2018, n. 14477).
Nella specie, essendo la prospettazione indicata basata su circostanze fattuali, è palese che si sarebbe dovuto indicare se, dove e come il giudice di appello ne fosse stato investito, non senza rimarcare come la questione afferisca al computo effettuato dal C.T.U., ossia a una questione estranea al presente ricorso.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, se dovuto, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (Cass., sez. un., 20 febbraio 2020, n. 4315).
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 2.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso forfetario del 15%, Iva e cpa se dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Terza sezione civile della Corte