Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 13430 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 13430 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 20/05/2025
SENTENZA
sul ricorso 20379-2019 proposto da:
NOME COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
-controricorrenti –
avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di NAPOLI depositata il 17 maggio 2019;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15 maggio 2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
lette le memorie del ricorrente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’avvocato NOME COGNOME per il ricorrente e l’avvocato NOME COGNOME COGNOME per la controricorrente;
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. la società RAGIONE_SOCIALE (di seguito ‘RAGIONE_SOCIALE‘), conveniva in giudizio l’avv. NOME COGNOME chiedendo al Tribunale di Napoli di accertare l’intervenuta prescrizione ex art. 2946 c.c. per tutti i diritti di credito nascenti dalle attività svolte dal professionista per 614 posizioni sinistro, indicate nelle diffide dallo stesso trasmesse in data 4 gennaio 2017, e relativi ad incarichi professionali svolti tra il 1989 e il 1997 in assenza di atti interruttivi o, in via subordinata, di accertare quanto dovuto in base all’attività effettivamente compiuta relativamente ai predetti incarichi; chiedeva altresì di accertare e dichiarare che, al di fuori dei 1079 incarichi professionali ricevuti, nessun altro incarico
risultava conferito allo stesso avvocato per il quale fossero dovuti compensi professionali.
Si costituiva in giudizio il convenuto che, nell’eccepire l’inammissibilità della domanda di accertamento negativo, spiegava domanda riconvenzionale al fine di ottenere il pagamento dei compensi per l’attività professionale oggetto di causa deducendo la sussistenza di atti interruttivi inviati periodicamente alla compagnia assicurativa.
Disposto il mutamento del rito in quello sommario speciale di cui all’art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011, avendo il resistente chiesto in via riconvenzionale la liquidazione dei propri compensi professionali per l’attività svolta in favore della compagnia, il Tribunale in composizione collegiale, con ordinanza n. 7591 del 17 maggio 2019, in accoglimento del ricorso, accertava l’intervenuta prescrizione del diritto al compenso professionale del professionista, dichiarava inammissibile la domanda di accertamento negativo relativa al mancato conferimento di ulteriori incarichi in quanto relativa all’accertamento di un fatto storico e non di un diritto di credito, e rigettava la domanda riconvenzionale.
In particolare, il Tribunale, nel richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sull’idoneità dell’atto di costituzione in mora di cui all’art. 1219 c.c. ad interrompere la prescrizione ex art. 2943, ultimo comma, c. c., -secondo il quale con l’atto interruttivo deve manifestarsi chiaramente in forma scritta al debitore la volontà di ottenere il soddisfacimento di un credito, determinato o determinabile, al fine di portare a conoscenza del destinatario la volontà del
creditore di ottenere il soddisfacimento delle proprie pretese -escludeva che le lettere inviate dal professionista alla compagnia, per la loro genericità, potessero essere valutate come una valida intimazione o una richiesta di pagamento, non essendo determinati o determinabili con esattezza, non solo l’oggetto della pretesa ed il relativo debitore, ma neppure l’incarico professionale per il quale era richiesto il compenso (difettando ad esempio il nominativo della parte, il numero di sinistro, l’Autorità giudiziaria adita e la compagnia assicuratrice che aveva conferito l’incarico).
In particolare, secondo il giudice di prime cure il parametro della valenza interruttiva di un atto di messa in mora risiede nella concreta possibilità che il suo destinatario individui con esattezza l’oggetto della pretesa, e ciò anche in considerazione di un eventuale adempimento spontaneo ovvero di un riconoscimento del debito ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1988 e 2944 c.c. La specifica indicazione delle posizioni sinistro relative agli incarichi professionali ricevuti con la individuazione della relativa compagnia assicurativa conferente era, infatti, rinvenibile solo nelle pec del 4 gennaio 2017 indirizzate alla compagnia assicuratrice ricorrente.
Inoltre, il Tribunale escludeva la natura di riconoscimento del debito nella richiesta di dilazione di pagamento, proveniente da un supposto e non ben individuato appartenente alla compagnia assicurativa, contenuta in alcune missive prodotte dal professionista, trattandosi di missive provenienti dallo stesso resistente, e ciò in contrasto con il disposto dell’art. 2944 c.c., secondo cui la prescrizione è interrotta dal riconoscimento del
diritto da parte di colui contro il quale il diritto stesso può essere fatto valere, e cioè da un soggetto titolare dei poteri dispositivi del diritto.
Per la cassazione di tale ordinanza l’avv. NOME COGNOME ha proposto ricorso sulla base di due motivi.
UnipolSai RAGIONE_SOCIALEp.RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.
Il ricorrente ha depositato memorie in prossimità dell’udienza.
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1219, co. 1, 2943, co. 4 e 2967 c.c. nel loro combinato disposto in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver il Tribunale erroneamente ritenuto che le lettere depositate per la loro genericità non possano essere equiparate ad una intimazione o richiesta di pagamento, non essendo determinati o determinabili, non solo l’oggetto della pretesa ed il relativo debitore, ma anche l’incarico professionale per il quale l’istante richiede il pagamento ed il soggetto conferente l’incarico. A parere del ricorrente le missive invocate, nel contenere tutti gli elementi necessari a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto nei confronti delle compagnie assicurative, avrebbero invece determinato l’interruzione della prescrizione.
Il motivo è inammissibile.
Giova innanzitutto ricordare che l’atto di costituzione in mora, come delineato dall’art. 1219 c.c., consiste nella manifestazione di volontà del creditore rivolta al debitore di pretendere subito l’adempimento o, più in generale, di non voler tollerare ulteriore ritardo o indugio da parte dell’obbligato.
In questo senso la giurisprudenza di questa Corte, di cui la sentenza impugnata ha fatto puntuale applicazione, ha affermato che, anche se non è necessaria una particolare formula solenne, affinché un atto possa acquisire efficacia interruttiva deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo), l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora (elemento oggettivo) (cfr. Cass. n. 18546/2020; Cass. n. 15714/2018; Cass. n. 16465/2017; Cass. n. 3371/2010; Cass. n. 24656/2010), essendo sufficiente a tal fine la mera comunicazione del fatto costitutivo della pretesa (cfr. Cass. n. 24054/2015; Cass. n. 5681/2006; Cass. n. 4464/2003).
Tale effetto non è ravvisabile in semplici sollecitazioni prive della presenza di una intimazione e di una espressa richiesta di adempimento al debitore, risultando altresì priva di efficacia interruttiva la riserva, anche se contenuta in un atto scritto, di agire per il risarcimento di danni diversi e ulteriori rispetto a quelli effettivamente lamentati, trattandosi di espressione che, per genericità ed ipoteticità, non può in alcun modo equipararsi ad una intimazione o ad una richiesta di pagamento (cfr. Cass. n. 279/2024).
L’atto di interruzione della prescrizione non deve necessariamente consistere “in una richiesta o intimazione” (essendo questa una caratteristica riconducibile all’istituto della costituzione in mora), ma può anche emergere da una
dichiarazione che, esplicitamente o per implicito, manifesti, puramente e semplicemente, l’intenzione di esercitare il diritto spettante al dichiarante, in tal guisa dovendosi interpretare estensivamente il disposto dell’art. 2943, co. 4, c.c., in sinergia con la più generale norma dettata, in tema di prescrizione, dall’art. 2934 c.c. (cfr. Cass. n. 15766/2006).
In altri termini, perché sia interruttivo, basta che l’atto sia uno strumento di esercizio del diritto e, al contempo, un percepibile richiamo all’adempimento.
L’accertamento in ordine alla sussistenza dei predetti presupposti, onde identificare e qualificare l’atto interruttivo e quindi l’attività interpretativa dell’atto di costituzione in mora nel suo complesso, finalizzata non alla ricerca dell’intento perseguito dal suo autore, bensì all’oggettiva riconoscibilità dell’atto medesimo da parte del destinatario (cfr. Cass. n. 3380/1983), si traduce in un’indagine di fatto istituzionalmente riservata all’apprezzamento del giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei soli casi di inadeguatezza della motivazione – tale cioè, da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito dal giudice per giungere all’attribuzione di un certo contenuto e significato all’atto -ovvero di inosservanza delle norme ermeneutiche compatibili con gli atti giuridici in senso stretto (cfr. Cass. n. 11579/2014; Cass. n. 7524/2006).
Invero la doglianza nel caso di specie non incentrandosi sulla correttezza dell’iter logico del giudice di prime cure non avendo il ricorrente censurato la motivazione della sentenza ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. -cela piuttosto un tentativo di ottenere una diversa ricostruzione dei fatti di causa.
Una simile censura, volta a riproporre una riqualificazione della fattispecie posta alla base della decisione e quindi a riproporre un’indagine tipicamente di merito, non è ammessa innanzi alla Corte di legittimità, il cui giudizio non può essere piegato all’anelito di offrire una nuova occasione di esame del merito ed in particolare un’ulteriore valutazione dei fatti posti alla base della decisione, con cui, nella fattispecie, si è negata alle lettere prodotte dal ricorrente l’efficacia interruttiva della prescrizione del diritto vantato nei confronti del resistente, affermandosi la loro genericità ed indeterminabilità dell’oggetto della pretesa.
A tal proposito va ribadito il principio generale in virtù del quale la Suprema Corte non è legittimata a compiere una rivalutazione degli atti processuali, dei fatti o delle prove, potendo soltanto controllare che la motivazione della sentenza oggetto di impugnazione sia lineare e scevra da vizi logico giuridici (cfr. Cass. n. 20753/2021).
È pertanto inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr. Cass. Sez. Un. n. 34476/2019).
Com’è noto, infatti, il compito del giudice di legittimità non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione.
Poiché la sentenza impugnata si è conformata all’orientamento giurisprudenziale in tema di efficacia di un atto interruttivo della prescrizione, avendo accertato insindacabilmente che il contenuto delle missive inviate era del tutto privo delle caratteristiche anche minime che avrebbero potuto consentirne la qualificazione giuridica come atto interruttivo della prescrizione, il motivo va disatteso.
Il Tribunale adito ha negato alle missive in esame l’idoneità ad interrompere la prescrizione del diritto di credito, ai sensi dell’art. 2943, co. 4, c.c. sulla base del rilievo che l’atto di costituzione in mora debba manifestare la volontà di ottenere il soddisfacimento di un credito che -sebbene non quantificato -deve essere determinato o determinabile, nel mentre nelle lettere in questione il ricorrente aveva fatto ricorso solo ad espressioni generiche.
Il ragionamento così svolto appare corretto nelle premesse e certamente coerente ed immune da ogni censura in punto di illogicità nella conclusione.
In ragione della conformità, come detto, della sentenza all’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità il motivo non supera lo scrutinio ex art. 360-bis, n. 1, c.p.c. e la doglianza non offre elementi per mutare l’orientamento della stessa.
Il ricorrente non ha, infatti, fornito alcun idoneo elemento di critica, limitandosi in sostanza a sollecitare una rivalutazione dei medesimi fatti già valutati dal giudice di merito.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1988, 2944 e 2697 c.c. in relazione all’art.
360, co. 1, n. 3, c.p.c. per aver il Tribunale erroneamente ritenuto che l’atto di costituzione in mora possa interrompere la prescrizione solo laddove sia idoneo e strumentalmente indirizzato ad ottenere una ricognizione di debito da parte del debitore atteso che gli artt. 2943 e 2944 c.c. prevedono due distinte e autonome fattispecie idonee ad interrompere il decorso della prescrizione.
Inoltre, secondo il ricorrente, il giudice di merito, nel rigettare la domanda riconvenzionale volta ad ottenere il pagamento dei compensi professionali, avrebbe altresì erroneamente valutato le risultanze probatorie a sostegno della sussistenza di un rapporto professionale valido e permanente tra le parti.
Il motivo risulta in parte manifestamente infondato ed in parte inammissibile.
Si palesa l’infondatezza della censura con riferimento all’asserita errata interpretazione delle fattispecie interruttive della prescrizione in quanto, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente , il Tribunale, nell’affermare la necessità che dall’atto debba emergere l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto con lo scopo di portare a conoscenza del debitore la volontà del creditore di ottenere il soddisfacimento delle proprie pretese, ha inteso evidenziare la rilevanza di tale requisito -e la conseguente possibilità del destinatario di individuare con esattezza l’oggetto della pretesa – non solo per l’operatività del comma 4 dell’art. 2943 c.c., ma anche ai fini di un eventuale adempimento spontaneo da parte del debitore o per una dichiarazione con cui il soggetto riconosce l’altrui diritto ex art. 2944 c.c.
Il requisito della esplicitazione della pretesa creditoria -e quindi la determinatezza o determinabilità del suo oggetto -risponde all’esigenza di rendere il debitore pienamente consapevole dell’esistenza del credito tramite un atto che funge da strumento di esercizio del diritto. Si tratta di un’esigenza sottesa al generale istituto dell’interruzione della prescrizione e quindi non esclusiva del solo atto di costituzione in mora. La piena consapevolezza del debito data dalla conoscenza degli elementi necessari alla sua individuazione è fattore comune alle diverse modalità di interruzione della prescrizione, pena l’incertezza del diritto la cui prescrizione si mira ad evitare. Conferma di ciò può rinvenirsi anche nelle pronunce della giurisprudenza di legittimità che, in merito alla ricognizione del debito, hanno affermato che per l’interruzione della prescrizione è sufficiente un comportamento volontario del debitore purché lo stesso possa essere considerato, anche implicitamente, come espressione della consapevolezza del suo autore in ordine all’esistenza del diritto altrui quindi dei suoi elementi identificativi (cfr. Cass. n. 19253/2004; Cass. n. 6651/2003).
Ciò vuol dire che l’autore dell’atto interruttivo, sia esso il creditore con la costituzione in mora, sia il debitore con il riconoscimento del debito, debbono far emergere nella manifestazione dei loro intenti i tratti identificativi del diritto cui fa riferimento la loro espressione di volontà, non potendo considerarsi sufficiente un generico riferimento ad un rapporto fondamentale non puntualmente individuato.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, il giudice di prime cure non ha in alcun modo preteso che l’atto di
costituzione in mora, per avere efficacia interruttiva, debba essere al contempo finalizzato a permettere il riconoscimento del debito, riconducendo in tal modo l’operatività dell’atto di cui all’art. 2943, ultimo comma, c.c. alla esperibilità della ricognizione del debito di cui all’art. 2944 c.c.
Il Tribunale ha più semplicemente individuato il contenuto minimo dell’atto di costituzione in mora capace di produrre l’effetto interruttivo, negli elementi del diritto di credito che permetterebbero eventualmente di operare un adempimento spontaneo o un riconoscimento del debito da parte del soggetto passivo e di produrre un valido atto di costituzione in mora da parte del creditore.
In merito, poi, alla censura relativa all’erroneo rigetto della domanda riconvenzionale, trattasi di critica ad una conseguenza necessitata, una volta che il Tribunale, con decisione immune alle critiche mosse, ha ritenuto che i diritti il cui accertamento era chiesto in via riconvenzionale risultavano ormai prescritti.
Il ricorso è rigettato ed al rigetto consegue la condanna del ricorrente al rimborso delle spese in favore di parte controricorrente, che si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi € 7.700,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore somma pari al contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda