LexCED: l'assistente legale basato sull'intelligenza artificiale AI. Chiedigli un parere, provalo adesso!

Attività extra lavorativa in malattia: quando è lecita?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 31963/2024, ha stabilito che non è legittimo il licenziamento del dipendente che svolge un’attività extra lavorativa in malattia se il datore di lavoro non prova che tale attività pregiudica o ritarda la guarigione. Nel caso specifico, un infermiere licenziato per aver svolto attività presso un’associazione durante l’assenza per malattia è stato reintegrato, poiché l’azienda non ha fornito la prova né della simulazione della malattia né della sua incompatibilità con la guarigione.

Prenota un appuntamento

Per una consulenza legale o per valutare una possibile strategia difensiva prenota un appuntamento.

La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Attività extra lavorativa in malattia: la Cassazione chiarisce i limiti

Svolgere un’altra attività durante il periodo di malattia è una questione delicata che può portare a conseguenze serie, incluso il licenziamento. Tuttavia, non ogni attività extra lavorativa in malattia costituisce una violazione dei doveri del dipendente. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: l’onere di provare l’incompatibilità tra l’attività svolta e lo stato di malattia spetta al datore di lavoro. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I fatti del caso: un licenziamento controverso

Il caso riguardava un infermiere professionale, dipendente di una struttura sanitaria privata, licenziato per giusta causa. L’addebito disciplinare si basava sul fatto che il lavoratore, durante un periodo di assenza per malattia e in fascia oraria di reperibilità per la visita fiscale, era stato sorpreso a svolgere attività presso la sede di un’associazione sportiva di cui era presidente. La società datrice di lavoro, ritenendo tale condotta una violazione dei doveri di correttezza e buona fede, aveva proceduto al licenziamento.

La decisione della Corte d’Appello

In riforma della sentenza di primo grado, la Corte d’Appello aveva annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore e condannando la società al risarcimento del danno. Secondo i giudici di secondo grado, la società non aveva fornito prove sufficienti a dimostrare né una simulazione della malattia da parte del dipendente, né che l’attività svolta fosse di per sé idonea a pregiudicare o ritardare la sua guarigione. La malattia era stata peraltro confermata da una visita fiscale.

L’onere della prova nell’attività extra lavorativa in malattia

La struttura sanitaria ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando, tra le altre cose, che la Corte d’Appello avesse errato nel non addossare al lavoratore l’onere di dimostrare la compatibilità dell’attività extra lavorativa con il suo stato di salute. La Suprema Corte ha rigettato questo motivo, confermando un orientamento consolidato.

Gli Ermellini hanno chiarito che, secondo l’art. 5 della legge n. 604 del 1966, grava sul datore di lavoro l’onere di provare tutti i fatti che giustificano il licenziamento. Questo include la dimostrazione che l’attività esterna svolta dal dipendente in malattia sia tale da far presumere l’inesistenza della malattia stessa, oppure che, per le sue caratteristiche, possa concretamente pregiudicare o ritardare il recupero psico-fisico e il rientro in servizio.

Le motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati tutti i motivi di ricorso presentati dalla società. In primo luogo, ha respinto le eccezioni procedurali, affermando che la costituzione in giudizio della società aveva sanato qualsiasi vizio relativo alla notifica del ricorso.

Nel merito, la Corte ha sottolineato che l’accertamento sulla compatibilità tra malattia e attività esterna è una quaestio facti, ovvero una valutazione di fatto riservata ai giudici di merito e non sindacabile in sede di legittimità, se non per vizi logici o omissioni gravi che qui non sono state riscontrate. La Corte d’Appello aveva correttamente applicato i principi di diritto, valutando le prove (tra cui i dati raccolti da un investigatore) e concludendo che l’attività del dipendente non implicava sforzo fisico e non era tale da ritardare la guarigione o da dimostrare una mancanza di cautela.

Le conclusioni

Questa ordinanza riafferma un principio cruciale a tutela del lavoratore: l’assenza per malattia non implica una reclusione forzata. Il dipendente può svolgere altre attività, anche ludiche o di intrattenimento, a condizione che queste non siano incompatibili con il suo stato di salute e non compromettano una rapida guarigione. Il datore di lavoro che intende procedere a un licenziamento per questo motivo deve essere in grado di fornire una prova rigorosa dell’incompatibilità o della simulazione. Una semplice supposizione o un sospetto non sono sufficienti per giustificare la massima sanzione disciplinare.

Chi deve provare che l’attività svolta durante la malattia è incompatibile con la guarigione?
Secondo la Corte di Cassazione, l’onere della prova grava interamente sul datore di lavoro. È l’azienda che deve dimostrare che l’attività extra lavorativa del dipendente ha effettivamente pregiudicato o ritardato il suo recupero, oppure che la malattia era simulata.

Svolgere un’attività durante la malattia è sempre motivo di licenziamento per giusta causa?
No. Il licenziamento è giustificato solo in due ipotesi: se l’attività esterna è tale da far presumere l’inesistenza della malattia (simulazione), oppure se, valutata in relazione alla patologia specifica, può concretamente pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio.

Un errore nella notifica di un atto processuale rende automaticamente nullo il procedimento?
No, non necessariamente. Secondo la Corte, se la parte che ha ricevuto l’atto in modo irregolare si costituisce comunque in giudizio (anche solo per eccepire la nullità), il vizio si considera sanato. Questo perché l’atto ha raggiunto il suo scopo, ovvero portare a conoscenza del destinatario l’esistenza del procedimento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?

Prenota un appuntamento. La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.

Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

Il costo della consulenza legale è di € 150,00.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Articoli correlati