Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 2121 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 2121 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. R.NUMERO_DOCUMENTO. 25541 anno 2019 proposto da:
COGNOME NOME e COGNOME NOME , rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME , domiciliati presso l’avvocato NOME COGNOME;
ricorrente contro
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE Uno ;
intimata avverso la sentenza n. 331/2019 depositata il 30 gennaio 2019 della Corte d’Appello di Bologna.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 1 dicembre 2023 dal consigliere relatore NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno proposto opposizione avverso un decreto ingiuntivo pronunciato dal Tribunale di Bologna su ricorso del RAGIONE_SOCIALE: decreto con cui era stato loro intimato il pagamento della somma di euro 8.163,90. Con la citazione in opposizione gli ingiunti hanno altresì proposto domanda riconvenzionale.
La vicenda dedotta in giudizio concerneva l’associazione in partecipazione conclusa tra gli ingiunti e l’intimante per un’attività d’impresa consistente nella gestione di un punto di ristoro di cui era titolare l’ associante RAGIONE_SOCIALE.
Il Tribunale, nella resistenza d i quest’ultima, ha condannato gli opponenti al pagamento della somma di euro 42.249,64.
La Corte d’Appello di Bologna ha respinto il gravame proposto da NOME COGNOME e NOME COGNOME.
Questi ultimi ricorrono per cassazione facendo valere quattro mezzi di censura. RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE Uno non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Col primo motivo si deduce la violazione dell’art. 111, comma 6, Cost. e dell’art. 132 , comma 2, c.p.c. per totale illogicità e incongruità della decisione.
La censura investe la decisione resa con riguardo al primo motivo di appello, con cui gli odierni ricorrenti avevano lamentato che il Tribunale, dopo aver riconosciuto in loro favore un credito per esborsi pari ad euro 17.756,81, non ne aveva poi tenuto conto in dispositivo. Ha osservato la Corte d’Appello che il Giudice di primo grado aveva evidenziato come gli associati, in base alle risultanze della consulenza tecnica, avevano «prelevato e gestito autonomamente la cassa che non poteva corrispondere con il denaro effettivamente presente in cassa»: da ciò poteva evincersi, secondo la Corte di merito, «il convincimento del primo Giudice di non poter porre in compensazione il credito degli associati, non essendovi prova che i detti importi non siano stati poi
recuperati dagli incassi che il c.t.u. aveva accertato fossero disponibili in cassa, e ciò non poteva essere escluso, data l’infedele contabilità tenuta dagli associati».
Il passaggio motivazionale non brilla per chiarezza, ma il pensiero della Corte di merito può ragionevolmente sintetizzarsi in questi termini: il Tribunale ha ritenuto di ricavare, dalla scorta della consulenza tecnica, un ammanco di cassa, di entità imprecisata, il quale non era provato fosse stato ripianato.
Poiché, però, a pag. 4 della sentenza si ricorda come il Tribunale avesse dato atto che «al termine del contratto la cassa registrava un attivo di euro 15.527,32» che non era stato versato all’associante , la pronuncia impugnata appare carente sul piano argomentativo. Infatti, delle due l’una: o l’ammanco era di quell’entità, e allora il credito di euro 17.756,81 andava portato in compensazione, in quanto agli odierni ricorrenti fu addebitato anche l’importo di euro 15.527,32 (che era ricompreso nella somma di euro 42.249,64, oggetto della condanna); oppure l’ammanco conglobava la somma di euro 15.527,32 e quella di euro 17.756,81: ma quest’ultima evenienza non è nemmeno espressamente riconosciuta dalla Corte di merito, la quale, correlativamente, non si dà pena di motivare un ipotetico suo convincimento in tal senso e di spiegare, quindi, la ragione per cui il disavanzo di cassa avrebbe dovuto ricomprendere anche la somma di euro 17.756,81. La Corte distrettuale si limita a evocare il ragionamento del Giudice di primo grado: tale convincimento deve ritenersi tuttavia viziato, in quanto né la gestione della cassa da parte degli associati, né « l’ infedele contabilità» tenuta da questi è in grado di giustificare, sul piano logico, la conclusione circa l’esistenza di un prelievo di tale ammontare da parte degli odierni ricorrenti.
In tal senso, la motivazione della sentenza risulta obiettivamente incomprensibile.
Il motivo merita quindi accoglimento.
2. – Il secondo mezzo oppone la violazione degli artt. 2549, 2552 e 2553 c.c., nonché la falsa applicazione dell’art. 8, commi 2 e 3 , del contratto di associazione in partecipazione.
I ricorrenti contestano la pronuncia impugnata nella parte in cui ha disatteso il secondo motivo di appello: gli stessi avevano lamentato di essere stati condannati a pagare, a titolo di partecipazione alle perdite, un importo superiore al loro apporto lavorativo, da quantificarsi nella misura corrispondente alle retribuzioni medie previste dai contratti collettivi nazionali di categoria; la Corte d’Appello ha rilevato, in primo luogo, che il contratto di associazione in partecipazione prevedeva un apporto degli associati in termini sia di attività lavorativa che di capitale (per il che il rapporto tra le perdite e l’apporto dell’associato doveva tener conto anche delle contribuzioni patrimoniali) e ha osservato, inoltre, che, «se pure si aderisse alla tesi sostenuta dagli appellanti, l’importo di cui alla condanna sarebbe comunque inferiore al 70% del loro apporto lavorativo, da quantificarsi come la somma di tre retribuzioni medie, atteso che tre erano gli associati, anche se solo due di loro hanno opposto il decreto ingiuntivo».
I ricorrenti deducono, per un verso, che l’apporto di capitale degli associati era limitato, in base alla regolamentazione negoziale, esclusivamente al periodo dei primi sei mesi di attività; assumono, per altro verso, che, essendo tre gli associati, l’importo dovuto da essi istanti in ragione della partecipazione alle perdite doveva essere inferiore alla somma che la Corte d’Appello aveva riconosciuto come dovuta (somma che, in base al contratto, era pari al 70% delle perdite accertate, ammontanti, secondo il c.t.u., a euro 38.163,40).
Il motivo è inammissibile.
Esso investe accertamenti di fatto e un supposto errore di calcolo, quanto all’effettivo ammontare dell’obbligazione avente ad oggetto la partecipazione alle perdite, che nulla hanno a che fare con la denunciata violazione o falsa applicazione di norme giuridiche.
Come è noto, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. Sez. U. 5 maggio 2006, n. 10313; in senso conforme, ad es.: Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315).
E’ da considerare, poi, che l ‘onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, n. 4), c.p.c., impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, n. 3), c.p.c., di indicare, a pena d’inammissibilità della censura, le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare ─ con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni ─ la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U. 28 ottobre 2020, n. 23745).
Ebbene, nello svolgimento del motivo i ricorrenti si limitano a richiamare la regola, posta dall’art. 2553 c.c., seco ndo cui le perdite che colpiscono l’associato non possono superare il valore del suo apporto, ma non individuano passaggi del provvedimento che smentiscano tale disposizione: e in realtà la Corte d’Appello non ha affatto negato che questa trovasse applicazione nella fattispecie sottoposta al suo esame.
Gli istanti non possono nemmeno dibattere, nella presente sede, della violazione di una disposizione contrattuale (l’art. 8, commi 2 e 3, del contratto di associazione in partecipazione), visto che questa non è una norma di diritto e non rientra, quindi, nella previsione dell’art. 360, n. 3, c.p.c.. Avrebbero potuto porre, semmai, una questione interpretativa intorno alla nominata disposizione: e tuttavia, poiché l ‘accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c., al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente avrebbe dovuto non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma avrebbe dovuto precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si fosse discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 9 aprile 2021, n. 9461; Cass. 16 gennaio 2019, n. 873; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. 31 maggio 2010, n. 13242; Cass. 9 agosto 2004, n. 15381).
3. – Col terzo motivo si denuncia la violazione dell’art. 86, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003 , dell’art. 4 del contratto di associazione in partecipazione, degli artt. 324 e 329 c.p.c.; si lamenta altresì l’illo gicità e incongruità della motivazione.
I ricorrenti censurano la pronuncia impugnata laddove ha escluso che gli associati avessero diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi, secondo quanto disposto dall’art. 86 d.lgs. n. 276/2003. Sostengono: che tale norma doveva trovare applicazione in forza dell’espresso richiamo che sarebbe
stato operato dall’art. 4 del contratto di associazione in partecipazione ; che in nessuna clausola del contratto era escluso che gli associati avessero titolo a una retribuzione; che tale affermazione non era contenuta nemmeno nella sentenza di primo grado, onde la Corte d’Appello sarebbe incorsa in una violazione del giudicato interno; che ulteriori affermazioni del Giudice distrettuale integravano mere illazioni.
Il motivo è nel complesso infondato.
A proposito del vizio di violazione di legge vale quanto in precedenza osservato trattando del secondo motivo di ricorso. Per certo non può in questa sede denunciarsi la violazione dell’art. 4 del contratto di associazione in partecipazione (il cui contenuto non è, d’altro canto, nemmeno riprodotto all’interno del mot ivo). Né si vede come la sentenza impugnata collida con l ‘a rt. 86, comma 2, d.lgs. n. 276/2003; tale norma non ha introdotto nel nostro ordinamento una forma di conversione legale del contratto di associazione in partecipazione in contratto a lavoro subordinato, ma ha soltanto previsto -in funzione integrativa della disciplina dell’associazione in partecipazione -che, ove detto contratto sia stato stipulato con finalità elusive delle norme di legge e di contrattazione collettiva a tutela del lavoratore, all’associato si applichino le più favorevoli disposizioni previste per il lavoratore dipendente (Cass. 9 febbraio 2015, n. 2371): ma il tema dello scopo elusivo del contratto per cui è causa risulta del tutto estraneo al giudizio di merito.
L’eccezione di giudicato interno è poi carente di autosufficienza, visto che i ricorrenti si limitano a richiamare la sentenza di primo grado, senza nemmeno indicare la statuizione del Tribunale con cui sarebbe stato affermato che il contratto prevedeva una retribuzione ( sull’applicabilità del principio di autosufficienza al giudicato: Cass. 19 agosto 2020, n. 17310; con riferimento ai casi in cui si faccia questione del rilievo officioso del giudicato: Cass. 31 maggio 2018, n. 13988; Cass. 23 giugno 2017, n. 15737).
La deduzione del vizio motivazionale è infine priva di fondamento, visto che sul terzo motivo di appello (quello di cui si è occupata la sentenza impugnata, per la parte che qui interessa) non si ravvisa alcuna delle radicali carenze argomentative che possono essere oggi fatte valere col ricorso per cassazione: segnatamente non si configura né il «contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili», né la fattispecie della «motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile» (cfr.: Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054).
4. Il quarto motivo prospetta la violazione degli artt. 2709 e 2697 c.c., oltre che la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c..
La censura ha ad oggetto l’affermazione della Corte d’Appello , resa con riguardo al tema della prova dell’ammanco di cassa di euro 15.527,32, secondo cui il Tribunale aveva «accolto la domanda per averla considerata provata in assenza di tempestive contestazioni».
I ricorrenti osservano che il RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto dare dimostrazione dell’esistenza di una rimanenza di cassa per tale importo al termine dell’esercizio 2008 e provare, inoltre, che tale rimanenza era rimasta nella disponibilità degli associati; gli istanti richiamano poi le plurime deduzioni critiche sollevate in relazione alla consulenza tecnica d’ufficio disposta per addivenire alla ricostruzione della contabilità.
Il motivo è fondato.
La sentenza impugnata reputa, a torto, che il Tribunale abbia definito la questione relativa all’ammanco di cassa sulla scorta del principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. : non pare potersi attribuire un diverso significato all’e nunciato per cui il Giudice di primo grado ebbe a ritenere provata la domanda in assenza di tempestive contestazioni.
Nondimeno, si legge nella stessa sentenza impugnata (pag. 5) che il Tribunale ebbe ad eseguire un vero e proprio accertamento
contabile che portò a reputare non ragionevoli le operazioni riportate nei registri e a individuare un saldo attivo di cassa, alla data del 31 dicembre 2008, che non era stato « consegnato all’associante »; L’esistenza, al riguardo, di un vero e proprio accertamento probatorio è confermato dal rilievo per cui, secondo la Corte d’Appello , venne espletata una consulenza tecnica d’ufficio la quale diede conto della presenza di ricavi effettivamente affluiti in cassa e non registrati in contabilità (pag. 7 della sentenza impugnata).
A fronte di ciò , l’applicazione del principio di non contestazione appare ingiustificata e la statuizione adottata è da ritenere fondata su di un dato processuale estraneo alla decisione di primo grado.
Ma il motivo in esame sarebbe da accogliere ove pure si reputasse che la Corte d’Appello abbia inteso riferire la mancata contestazione all’indagine del c.t.u. Assumono infatti rilievo, in tale prospettiva, i rilievi critici formulati dagli odierni ricorrenti all’indirizzo della consulenza (di cui si è detto) e il principio per cui ove alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate, sia dai consulenti di parte che dai difensori, il giudice del merito è tenuto a spiegare in maniera puntuale e dettagliata le ragioni della propria adesione all’una o all’altra conclusione (Cass. 6 maggio 2021, n. 11917; cfr. pure: Cass. 11 giugno 2018, n. 15147; Cass. 21 novembre 2016, n. 23637).
5. ─ In conclusione, vanno accolti il primo e il quarto motivo .
La sentenza è cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata, anche per le spese, alla Corte di Bologna, che statuirà in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte
accoglie il primo e il quarto motivo; dichiara inammissibili i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e
rinvia la causa alla Corte d’Appello di Bologna che giudicherà in diversa composizione statuendo pure sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione