SENTENZA CORTE DI APPELLO DI NAPOLI N. 6332 2025 – N. R.G. 00004353 2019 DEPOSITO MINUTA 09 12 2025 PUBBLICAZIONE 09 12 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte d’appello di Napoli, seconda sezione civile, in persona dei magistrati:
dr.ssa NOME COGNOME – Presidente –
dr.ssa NOME COGNOME
Consigliere-
dr.ssa NOME COGNOME
Consigliere relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al nNUMERO_DOCUMENTO, riservata in decisione, all’esito di trattazione scritta ex art. 127 ter c.p.c., con ordinanza del 23.06.2025, comunicata in pari data, con cui sono stati concessi alle parti i termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito degli scritti conclusionali, avente ad oggetto arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. e vertente
TRA
con sede in , INDIRIZZO (Cf. in persona del Sindaco legale rappresentante p.t., rapp.to e difeso, giusta procura in calce all’atto di appello e delibera n.91 del 11.9.2019, dall’AVV_NOTAIO -(C.F. n. , presso il cui studio in Aversa alla INDIRIZZO è elettivamente domiciliato P. C.F.
APPELLANTE
CONTRO
in persona del l.r.p.t., con sede in Casal di Principe (CE) alla INDIRIZZO, P.IVA rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO (C.F. ed elettivamente domiciliata presso il suo Studio in Tora e Piccilli (CE) alla INDIRIZZO, giusta procura in atti P. C.F.
APPELLATA
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con sentenza n. 2661/2019, pubblicata il 31 luglio 2019, il Tribunale di Napoli Nord ha accolto parzialmente la domanda proposta dalla
, volta ad ottenere la condanna del
al pagamento dell’importo di € 53.748,48, a titolo di arricchimento senza causa, per la prosecuzione del servizio di assistenza agli anziani, reso a vantaggio dell’ente locale da parte della società attrice, nelle more dell’espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ed al fine di evitare l’interruzione del servizio con gravi disagi per i destinatari dello stesso, come da fatture versate in atti .
Quest’ultima aveva già proposto, dinanzi al Tribunale di Napoli Nord, un giudizio di adempimento contrattuale, recante n° R.G. 293/14, ma la relativa domanda era stata rigettata, in difetto di un contratto munito della necessaria forma scritta, prescritta ad substantiam nei rapporti con la pubblica amministrazione.
Secondo quanto dedotto dalla parte attrice, l’ente appellante aveva affidato alla un servizio di assistenza domiciliare in favore degli utenti di cui all’elenco dei nominativi fornito dall’ente stesso, con apposita determina, nella quale veniva concesso di svolgere il predetto servizio per un monte ore mensile pari a 1250, per un i mporto di € 20.000,00 ,
regolarmente corrisposto nel mese di luglio 2011; per converso, tutta l’attività espletata nei mesi successivi, fino ad ottobre 2011, non era stata liquidata.
Nel pervenire al parziale accoglimento di tale domanda, condannando l’ente locale al pagamento in favore della della somma di € 32.148,48, oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo, il Giudice di prime cure in primo luogo ha evidenziato che il rigetto dell’azione contrattuale, per la nullità del titolo contrattuale su cui si fondava il diritto al corrispettivo, non preclude l’azione di ingiustificato arricchimento, caratterizzata da diversità di petitum e causa petendi rispetto all’azione preventivamente introdotta; inoltre, richiamando il principio espresso dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 10798/2015, ha ritenuto che andasse provato ed accertato il fatto oggettivo dell’arricchimento, restando irrilevante il mancato riconoscimento dell’arricchimento da parte della pubblica amministrazione.
Avverso tale sentenza ha proposto impugnazione il affidando le proprie doglianze a due motivi di appello e chiedendo la sospensione della provvisoria esecutività della sentenza di primo grado ex art. 283 c.p.c.
Con il primo motivo di gravame, l’ente locale ha denunciato la violazione del principio del ne bis in idem, ai sensi dell’art. 324 c.p.c., assumendo che la domanda proposta in primo grado avrebbe i medesimi petitum e causa petendi rispetto a quella proposta nel giudizio recante n° r.g. 293/2014, sempre incardinato dinanzi al Tribunale di Napoli Nord, in cui la cooperativa aveva agito per l’adempimento contrattuale.
Il secondo motivo di appello è fondato sulla pretesa erronea applicazione, da parte del giudice di prime cure, del disposto di cui all’art. 2041 c.c.
Secondo la ricostruzione del mancherebbe il riconoscimento dell’utilità della prestazione fornita dalla cooperativa, a fronte dell’assenza di una previsione da parte dell’ente di una copertura finanziaria per detto servizio.
Inoltre, qualora si volesse attribuire qualche valenza giuridica agli atti di proroga del servizio compiuti dai funzionari, essi non sarebbero vincolanti nei confronti del comune di , ma darebbero vita ad un rapporto esclusivamente
3.
personale tra gli stessi e coloro che hanno beneficiato della possibilità di eseguire un servizio.
Si è costituita in giudizio la la quale ha chiesto: ‘ In via preliminare, di dichiarare inammissibile, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., l’appello proposto dall’appellante per le ragioni indicate in atto; nel merito, rigettare il gravame in quanto infondato in fatto ed in diritto, per tutte le sopraesposte motivazioni, e confermare la sentenza n. 2261/19 resa dal Tribunale di Napoli Nord in data 25.07.2019, pubblicata in data 31.07.2019, oggetto di gravame e tutte le statuizioni in essa contenute; con vittoria di spese, compensi e rimborso forfettario nella misura del 15%, oltre
iva e cpa ‘.
Con l’ordinanza del 12/11/2020 è stata sospesa la provvisoria esecutività della sentenza di primo grado, in ragione della sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora richiesto dalla disposizione di cui all’art. 283 c.p.c.
Non è stata espletata alcuna attività istruttoria e, a ll’esito d el mutamento della sezione assegnataria del procedimento, la causa è stata riservata in decisione con assegnazione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. in data 2 3 giugno 2025.
Preliminarmente va rilevata la tempestività dell’appello, che risulta proposto nel termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza impugnata, come previsto dall’art. 327 c.p.c. La sentenza di primo grado è stata infatti pubblicata il 31 luglio 2019, mentre la notifica dell’atto di citazione in appello è avvenuta con atto di citazione consegnato all’ufficiale giudiziario per la notificazione il 4 ottobre 2019. L ‘impugnazione risulta altresì procedibile , essendosi costituito in giudizio il il 10 ottobre 2019, nel rispetto del termine di dieci giorni dalla notifica dell’atto di citazione richiesto dall’art. 348 c.p.c.
Ancora in via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del gravame per difetto di specificità.
Mette conto al riguardo rilevare che l’appello in esame è regolato dal regime delineato dall’art. 342 c.p.c., come modificato sia dall’art. 54 D.L. n.83 del 2012, sia dalla legge di conversione n. 134 del 2012, in vigore dall’11 settembre 2012.
In particolare, la formulazione dell’art. 342 c.p.c., applicabile ratione temporis, prevede che ‘l’appello deve essere motivato. La motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata’.
In definitiva, per effetto di tali previsioni, bisogna indicare nell’atto di appello esattamente quali parti del provvedimento impugnato si intendono sottoporre a riesame e, per tali parti, indicare quali modifiche si richiedono rispetto a quanto ha formato oggetto della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice.
Va nondimeno chiarito, al fine di evitare di ricadere in pronunce di tipo esclusivamente formalistico, che occorre che il giudice verifichi in concreto il rispetto della norma.
In particolare, secondo quanto chiarito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. SU n.27199/2017) gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.
Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado.
Sulla scorta dei criteri che precedono, l’appello deve essere dichiarato ammissibile, dovendo ritenersi, all’esito di un esame complessivo dell’atto di gravame, che la parte impugnante abbia indicato le parti della sentenza impugnate e le ragioni per cui riteneva di non condividere le argomentazioni del primo giudice.
appello proposto dal
Volgendo all’esame del merito dell’impugnazione , l’ risulta fondato per le ragioni che seguono.
7.1 Merita in primo luogo di essere disatteso il primo motivo di gravame, con cui l’appellante ha dedotto che il Giudice di prime cure, pronunciando sul merito della controversia, sarebbe incorso in una violazione del principio del ne bis in idem ; infatti, secondo quanto protestato dal , la domanda fatta valere nel presente giudizio avrebbe i medesimi petitum e causa petendi di quella proposta nel giudizio incardinato presso il Tribunale di Napoli Nord, recante n° R.G. 293/14 , in cui era stato chiesto da parte della ‘
l’adempimento delle prestazioni derivanti dal contratto, poi dichiarato nullo per difetto di forma scritta.
A dire dell’impugnante, la pretesa di ottenere a titolo di ingiustificato arricchimento le medesime somme oggetto del primo giudizio sarebbe preclusa dalla sussistenza di un precedente giudicato sul punto.
L’assunto non può essere condiviso.
Reputa infatti questa Corte distrettuale pienamente condivisibile la motivazione adottata dal Tribunale nel disattendere tale eccezione, appunto rimarcando che l’accertamento, con sentenza passata in giudicato, dell’infondatezza dell’azione contrattuale, per l’insussistenza del titolo negoziale che attribuisca all’attore il relativo diritto, non preclude alla stessa parte di chiedere, in un successivo giudizio, di essere indennizzata per l’indebito arricchimento dalla controparte conseguito, dato che tale seconda azione è diversa per petitum e causa petendi e che, inoltre, avendo funzione sussidiaria e natura residuale, trova il riconoscimento della sua esperibilità proprio nel diniego di tutela contrattuale.
Con ripetute pronunce, infatti, la Suprema Corte (Cass. sez. 1, ordinanza n. 18145 del 06/06/2022; Cass. sez. 6 – 1, ordinanza n. 3058 del 09/02/2021; Cass. sez. 3 – , sentenza n. 843 del 17/01/2020 ) ha rimarcato l’evidente diversità tra le due azioni appunto precisando che la proposizione per la prima volta in appello dell’azione di ingiustificato arricchimento è inammissibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c. quando in primo grado sia stata proposta azione contrattuale, integrando una domanda nuova, poiché le due azioni sono diverse sia per la “causa petendi”, basandosi quest’ultima
sull’obbligazione assunta e l’azione di arricchimento sull’assenza di un vincolo negoziale, sia per il “petitum” avendo l’azione contrattuale ad oggetto il corrispettivo pattuito e l’azione di ingiustificato arricchimento la corresponsione di un indennizzo equivalente alla diminuzione patrimoniale subita.
Nel caso di specie, pertanto, l’intervenuto rigetto dell’azione contrattuale, per invalidità del contratto, non preclude la proposizione del presente giudizio; con ogni evidenza, poi, tale preclusione non può derivare, come dedotto dal impugnante, dalla declaratoria di inammissibilità per tardività della domanda di ingiustificato arricchimento, che era stata proposta in via subordinata anche nel giudizio recante RG n. 293/2014.
Una tale pronuncia di inammissibilità, infatti, avendo ad oggetto una questione pregiudiziale di rito e rivestendo natura meramente processuale, è inidonea ad integrare giudicato sostanziale, ai sensi dell’art. 2909 c.c., in ordine alla domanda non esaminata nel merito, e pertanto non ne impedisce la riproposizione in un distinto e autonomo giudizio.
7.2 per converso nel segno il secondo motivo di gravame nel rimarcare che l’ente locale, oltre a non aver sottoscritto alcun contratto, ‘ non ha mai deliberato dette spese e non ha mai previsto una copertura finanziaria per detto servizio ‘; da tale circostanza discende infatti il rilievo dell’inammissibilità dell’azione proposta contro il , per difetto del requisito della sussidiarietà, accertabile peraltro anche d’ufficio (Cass. s ez. 3, Sentenza n. 843 del 17/01/2020).
Corre mente infatti osservare che l’azione disciplinata dall’art. 2041 c.c., nei confronti dell’ente pubblico, non è assistita nel caso di specie dal requisito della sussidiarietà, essendo possibile esperire l’azione prevista dall’art. 191 comma 4 d. lgs. 267/2000, nei confronti del funzionario pubblico che ha autorizzato la prosecuzione del servizio di assistenza agli anziani.
L’ azione di ingiustificato arricchimento è pacificamente considerata un rimedio residuale, in virtù del quale è possibile ristabilire un tendenziale equilibrio tra i patrimoni del soggetto che si è arricchito senza giusta causa, a danno dell’impoverito che ha effettuato la prestazione in assenza di un valido titolo.
Da ciò la previsione del requisito della sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., norma secondo cui l’azione di arricchimento non è proponibile quando il danneggiato possa esercitare un’altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito. In particolare, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con recente pronuncia (sentenza n. 33594 del 05/12/2023), sono intervenute a comporre il contrasto sulla portata applicativa di tale norma, rispondendo al quesito se il principio di sussidiarietà debba essere interpretato in astratto o in concreto. Con il citato arresto, la Corte nomofilattica ha dunque aderito al secondo orientamento, statuendo che, ai fini del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c., la domanda di ingiustificato arricchimento (avanzata autonomamente ovvero in via subordinata rispetto ad altra domanda principale) è proponibile ove la diversa azione – sia essa fondata sul contratto ovvero su una specifica disposizione di legge ovvero ancora su clausola generale – si riveli carente ab origine del titolo giustificativo, restando viceversa preclusa ove quest’ultima sia rigettata per prescrizione, o decadenza del diritto azionato, o per carenza di prova del pregiudizio subito, o per nullità derivante dall’illiceità del titolo contrattuale per contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico.
Facendo applicazione di tale principio alla fattispecie in esame, mette conto precisare che, i n tema di assunzione d’impegni ed effettuazione di spese da parte degli enti locali, la giurisprudenza di legittimità (cfr. da ultimo, Cass. sez. 3, ordinanza n. 12943 del 14/05/2025) ha da tempo affermato che, a norma del D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (convertito in L. n. 144 del 1989, riprodotto senza sostanziali modifiche dal D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35, ed ora rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191), qualora la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da un amministratore o un funzionario dell’ente locale non rientri nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal terzo comma di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a carico dell’ente, bensì dell’amministratore o del funzionario, i quali ne rispondono con il proprio patrimonio, con la conseguente esclusione della proponibilità dell’azione di indebito arricchimento nei confronti dell’ente (cfr. tra le più recenti, anche, Cass. sez. 6 – 3, ordinanza n. 11036 del 09/05/2018;Cass., Sez. 1, 30 ottobre 2013, n. 24478; 26 maggio 2010, n. 12880; 22 maggio 2007, n. 11854).
È stato, peraltro, precisato che, ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, comma 1, lett. e), il predetto principio non esclude la facoltà dell’ente di riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, con apposita deliberazione consiliare, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, fermo restando che, in caso di mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o l’amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali restano comunque soggetti all’azione diretta e rispondono delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla contabilizzazione dei debiti fuori bilancio (cfr. Cass., Sez. 3, 18 aprile 2006, n. 8950; 31 maggio 2005, n. 11597).
Circa la possibilità di desumere il riconoscimento del debito dalla condotta tenuta dall’Amministrazione, si segnala un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il riconoscimento dell’utilità della prestazione non richiede necessariamente un’espressa deliberazione dell’organo competente a formare la volontà dell’ente, ma può essere desunto anche per implicito da fatti concludenti, e segnatamente dalla consapevole utilizzazione della prestazione, purché la stessa risulti ascrivibile agli organi rappresentativi dell’ente, e quindi tale da rivelare un positivo apprezzamento in ordine alla rispondenza dell’opera all’interesse pubblico, nella cui valutazione, avente carattere discrezionale, il giudice non può sostituirsi alla Pubblica Amministrazione (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 7 marzo 2014, n. 5397; 18 aprile 2013, n. 9486; Cass., Sez. 3, 6 settembre 2012, n.14939).
Un più recente orientamento della Suprema Corte (Cass. civ. Sez. I, 09/12/2015, n. 24860; Cass. sez. 3, ordinanza n. 12943 del 14/05/2025), tuttavia, ha disatteso tale conclusione, affermando che, in tema di assunzione di obbligazioni da parte degli enti locali, agli effetti di quanto disposto dall’art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989 (convertito, con modificazioni nella l. n. 144 del 1989), qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto obbligatorio direttamente con l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, sicché resta esclusa, per difetto del requisito della sussidiarietà, l’azione di indebito arricchimento nei confronti dell’ente, il quale può,
comunque, riconoscere “a posteriori” il debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso. Peraltro, tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell’organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economicofinanziaria dell’ente e con le scelte amministrative compiute.
Secondo tale più recente indirizzo, il riconoscimento del debito fuori bilancio richiede, ai sensi dell’art. 194, D.Lgs. n. 267 del 2000 ‘ un’apposita deliberazione dell’organo competente a formare la volontà dell’ente, da allegarsi al bilancio di esercizio, con cui quest’ultimo non deve limitarsi a dare atto del vantaggio arrecato dalla prestazione, in relazione all’espletamento di funzioni e servizi di competenza dell’ente, ma deve procedere alla verifica dell’incidenza del corrispettivo sugli equilibri generali di bilancio, e adottare, in caso di alterazione degli stessi, le misure necessarie a ripristinare il pareggio ed a ripianare il debito, in tal modo compiendo una valutazione globale che investe la compatibilità della prestazione ricevuta con la situazione economicofinanziaria dell’ente e con gli impegni già assunti sulla base delle risorse disponibili, nonché la reperibilità dei fondi necessari per far fronte ad ulteriori obblighi. A differenza di quella riguardante l’utilità della prestazione, che può emergere anche dall’appropriazione del relativo risultato da parte dell’Amministrazione, tale valutazione non può evidentemente essere desunta dal mero comportamento degli organi rappresentativi, che, in quanto riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economicofinanziaria dell’ente e con le scelte amministrative già compiute’ .
Pertanto, la Corte di Cassazione ha affermato che la mancanza di una formale deliberazione, adottata nelle forme prescritte del cit. D.Lgs. n. 267, art. 193, comma 2 e art. 191, comma 4, esclude ‘ la stessa imputabilità dell’obbligazione all’Amministrazione, prevedendo che il rapporto s’instauri direttamente tra il
privato fornitore e l’amministratore, il funzionario o il dipendente che hanno consentito la fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la conseguente esclusione dell’esperibilità dell’azione d’ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito della sussidiarietà prescritto dall’art. 2042 c.c., il quale presuppone che nessun’altra azione sia proponibile non solo nei confronti dell’arricchito, ma anche nei confronti di terzi’ (cfr. Cass., Sez. 1, 30 ottobre 2013, n. 24478; Cass. 14 ottobre 2010, Cass. n. 21242; 22 maggio 2007, n. 11854)’.
Secondo quest’ulti mo più recente orientamento, senz’altro condivisibile in quanto pienamente coerente con l’evoluzione interpretativa nomofilattica dello stesso istituto dell’arricchimento senza causa nei confronti di una P.A. (che ha finito con l’escludere la stessa necessità di un riconoscimento, escludendo i soli arricchimenti cosiddetti imposti), quindi, ‘la questione riguardante l’accertamento dell’utilità della prestazione è destinata a porsi soltanto nel caso in cui l’Amministrazione abbia espressamente provveduto al riconoscimento del debito fuori bilancio, assumendo a suo carico l’obbligazione nei limiti consentiti dalle preminenti esigenze di salvaguardia degli equilibri di bilancio, ovvero nel caso in cui il funzionario, l’amministratore o il dipendente, responsabili nei confronti dell’autore della prestazione, propongano a loro volta l’azione di cui all’art. 2041 c.c., nei confronti dell’Amministrazione (cfr. Cass., Sez. 6, 23 gennaio 2014, n. 1391)’.
In quest’ottica, non assume rilievo la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 10798 del 26 maggio 2015, richiamata dal Giudice di prime cure, nella quale si osserva, in via generale, che il riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di cui all’art. 2041, e si afferma pertanto che l’esercizio di tale azione nei confronti di un ente pubblico pone a carico dell’attore l’onere di provare soltanto il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che il convenuto possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso. In tale occasione, infatti, le Sezioni Unite hanno precisato che nel caso sottoposto al loro esame non era in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell’azione, non essendo applicabile ratione temporis la disciplina dettata dal D.L. n. 66 del 1989, art. 23, che, in quanto non avente efficacia
retroattiva, non è riferibile a prestazioni e servizi resi in epoca anteriore alla sua entrata in vigore.
Nel caso di specie, è invece pacifico che l’incarico di prestazione di servizi posto a fondamento della domanda è assoggettabile alla disciplina dettata dagli artt. 191 e segg. del D.Lgs. n. 267 del 2000, che, riproducendo quella introdotta dal D.L. n. 66 del 1989, impone di accertare, ancor prima del vantaggio arrecato dalla prestazione al l’eventuale adozione di una delibera di riconoscimento, ‘a posteriori’, del debito fuori bilancio da parte del Consiglio comunale ai sensi dell’art. 194 del d.lgs. cit. (Cass. n. 12608/2017; Cass. 17940/2018; Cass. sez. 1, 13/01/2021, n. 390; Cass. sez. 1, 29/02/2024, n. 5480; Cass. sez. 6, ord. n. 11036 del 09/05/2018).
Risulta opportuno precisare, a fini di completezza motivazionale, che tale norma (art. 191 del d. lgs. 267/2000) riguarda esclusivamente gli enti locali, elencati nell’art. 2 del citato d.lgs., come l’odierno appellante, non essendo suscettibile di applicazione analogica perché di natura eccezionale, sicché ove le prestazioni siano state eseguite in favore di enti pubblici diversi, il fornitore, non avendo a disposizione altre azioni, può agire ex art. 2041 c.c. nei confronti degli enti stessi. (Cass. Sez. 1, 26/02/2020, n. 5130).
Dalle considerazioni che precedono discende la necessaria riforma della sentenza impugnata, dovendo dichiararsi l’improponibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento per difetto del requisito della sussidiarietà.
In ragione dell ‘accoglimento dell’appello proposto dal
occorre provvedere ad un nuovo regolamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio, alla stregua del principio della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c., con conseguente condanna della società appellata alla refusione delle spese di lite del doppio grado in favore del appellante. Con riferimento allo scaglione applicabile, le spese processuali vanno rideterminate sulla base di quello relativo alle cause di valore da € 50.000,01 ad € 100.000, previsto dal DM n. 55/2014 come aggiornato dal D.M. n. 147/2022, in considerazione della somma originariamente richiesta dall’attore pari ad € 53.748,48, e si liquidano come da dispositivo (Cass. civ. SS. UU., sentenza n. 20805 del 23/07/2025; Cass. civ. sez. 3, ordinanza 18465 del 05/07/2024 secondo cui vale il criterio del ‘disputatum’ e non
quello del ‘decisum’ in caso di rigetto della domanda originaria), dimidiando i compensi medi in considerazione della non particolare complessità delle questioni affrontate.
P.Q.M.
la Corte di Appello di Napoli – II sezione civile, definitivamente pronunciando, così provvede sull’appello come in epigrafe proposto e tra le parti ivi indicate, avverso la sentenza del Tribunale di Napoli Nord n. 2661/2019:
1) Accoglie l’appello e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara inammissibile l’azione di ingiustificato arricchimento proposta dalla
nei confronti del
, con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. depositato in data 3 marzo 2016;
2) Condanna la al pagamento in favore del delle spese del doppio grado di giudizio, che liquida, quanto al giudizio di primo grado, nell’importo di € 3.808,00 per compenso professionale, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15% del compenso, Iva e Cpa come per legge e, quanto al presente grado, nell’importo di € 4. 995,5 per compenso professionale, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15% del compenso, IVA e CPA, come per legge.
Così deciso in Napoli, nella Camera di Consiglio del 5 novembre 2025 Il Consigliere estensore Il Presidente dott.ssa NOME COGNOME dott.ssa NOME COGNOME
La presente sentenza è stata redatta con la collaborazione del dott. NOME COGNOME, magistrato ordinario in tirocinio.