Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 12278 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 12278 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/05/2025
SENTENZA
sul ricorso 7569-2024 proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso gli indirizzi PEC degli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME che lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 156/2023 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 04/01/2024 R.G.N. 135/2023; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
19/02/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
R.G.N. 7569/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 19/02/2025
PU
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME
Fatti di causa
Con nota del 15.6.2020, comunicata il 19.6.2020, la RAGIONE_SOCIALE intimava licenziamento per giustificato motivo soggettivo al dipendente NOME COGNOME. Questi, avverso il provvedimento espulsivo, richiedeva la costituzione di un collegio di conciliazione ed arbitrato ai sensi dell’art. 7 co. 6 della legge n. 300 del 1970. Il Collegio nominato, a seguito della procedura di arbitrato, pronunciava in data 8.3.2021 il lodo con il quale la sanzione del licenziamento veniva derubricata in una multa di quattro ore di retribuzione.
Non avendo la società ottemperato alla diffida di adempiere alla statuizione arbitrale mediante la reintegra del lavoratore, questi adiva il Tribunale di Terni che condannava RAGIONE_SOCIALE a dare esecuzione al dictum arbitrale e al pagamento delle spese processuali.
La Corte di appello di Perugia, sul gravame proposto dalla società e in riforma della pronuncia di primo grado, rigettava la originaria domanda del COGNOME rilevando che: a) la procedura di conciliazione prevista dall’art. 7 co. 6 della legge n. 300 del 1970 era ammissibile soltanto per i provvedimenti sanzionatori di tipo conservativo e non nelle ipotesi di licenziamento; b) ciò lo si ricavava dal comma 4 dello stesso art. 7 che testualmente affermava ‘fermo restando quanto disposto dalla legge 15.7.1966 n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro’ ; c) l’art. 239 co. 2 del CCNL, correlato all’art. 238, da cui poteva ritenersi ammissibile la procedura di cui all’art. 7 co. 6 legge n. 300 del 1970 a tutti i provvedimenti disciplinari e, quindi, anche ai licenziamenti, era troppo generico ed indeterminato; d) il COGNOME avrebbe potuto ricorrere, in sede stragiudiziale, alla procedura di cui all’art. 412 quater c.p.c., più compatibile con le disposizioni in tema di
impugnativa del licenziamento; c) andava, invece, respinta la richiesta di declaratoria di nullità del lodo arbitrale, reiterata dalla società, dovendo tale impugnativa essere proposta direttamente innanzi alla Corte di appello ex artt. 827 e 828 c.p.c.
Avverso tale decisione NOME COGNOME proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resisteva con controricorso RAGIONE_SOCIALE
Le parti hanno depositato memorie: in particolare, il ricorrente ha chiesto dichiararsi la definitività della pronuncia di primo grado per intervenuto giudicato interno.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 legge n. 300 del 1970, 238 e 239 CCNL per i Dipendenti da Aziende del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi, 1362 (intenzione dei contraenti), 1363 (interpretazione complessiva delle clausole), 157 c.p.c. (rilevabilità e sanatoria della nullità) in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c.; si deduce la erroneità della interpretazione delle citate clausole contrattuali da cui emergeva chiaramente, e non in modo generico e indeterminato, che le parti sociali aveva ritenuto la impugnabilità dei provvedimenti disciplinari, ivi compreso il licenziamento disciplinare, per il tramite delle procedure di conciliazione previste dall’art. 7 co. 6 St. lav.; si obietta che la Corte territoriale non aveva minimamente considerato la significatività della condotta di RAGIONE_SOCIALE che aveva aderito alla procedura arbitrale, con tempestiva nomina del proprio arbitro, nel rispetto dei termini di legge, senza mai nulla contestare in merito alla presunta inammissibilità della procedura.
Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 808 ter c.p.c. (arbitrato irrituale) ed 829 c.p.c. (casi di nullità), in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., per non avere i giudici di seconde cure considerato che, con l’adesione deliberata alla procedura arbitrale, la società si era volontariamente impegnata a ritenere la decisione degli arbitri come espressione di tale personale volontà e, quindi, si rivelava contraddittorio il
comportamento di compromettere una manifestazione di volontà negoziale con funzione sostitutiva di quelle delle parti in conflitto e per esse vincolante e cogente proprio in virtù del mandato conferito: la logica conseguenza, secondo l’assunto di parte ricorrente, era che il lodo arbitrale poteva essere impugnato solo per i motivi indicati nel richiamato art. 808 ter c.p.c. e non anche per nullità ai sensi dell’art. 829 c.p.c. ovvero per asseriti errori di diritto.
Preliminarmente ritiene questo Collegio che debba essere esaminata la questione del giudicato formatosi in relazione al lodo arbitrale del 14.4.2021, dichiarato valido ed efficace dal Tribunale di Terni (sent. n. 131/2023) che aveva peraltro espressamente respinto la domanda riconvenzionale spiegata dalla società ed avente ad oggetto la richiesta di declaratoria di nullità del lodo stesso.
E’ opportuno ribadire che il giudicato esterno, al pari di quello interno (come nel caso in esame), risponde alla finalità d’interesse pubblico di eliminare l’incertezza delle situazioni giuridiche e di rendere stabili le decisioni, sicché il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti; pertanto, il giudice al quale ne risulti l’esistenza non è vincolato dalla posizione assunta da queste ultime in giudizio, potendo procedere al suo rilievo e valutazione anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (Cass. n. 8607/2017, Cass. n. 15627/2016).
Il problema di diritto che si pone è quello di stabilire se la pronuncia del Tribunale di Terni avrebbe potuto essere impugnata soltanto con il ricorso per cassazione, secondo il regime previsto dall’art. 412 quater c.p.c., ovvero con l’appello, come invece è stato fatto dalla società e ritenuto in sostanza ammissibile dalla Corte territoriale.
Orbene, va precisato che il lodo arbitrale del 14.4.2021 è stato pronunciato all’esito di una procedura di arbitrato irrituale, come è stato ritenuto l’arbitrato richiesto ex art. 7 co. 6 legge n. 300 del 1970.
Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. n. 25253/2009) hanno, infatti, statuito che, nell’ipotesi in cui il lavoratore (al quale
il datore di lavoro abbia irrogato una sanzione disciplinare) richieda la costituzione di un collegio di conciliazione ed arbitrato – secondo quanto previsto dall’art. 7, comma sesto, della legge n. 300 del 1970 o da analoghe disposizioni della contrattazione collettiva – l’arbitrato in questione ha natura irrituale (e non già rituale).
Ne consegue che, come affermato più volte in sede di legittimità (per tutte Cass. n. 10988/2020; Cass. n. 14431/2015), nelle procedure di arbitrato irrituale in materia di lavoro privato, il lodo non è impugnabile nelle forme e nei modi ordinari ma, ai sensi dell’art. 412 quater c.p.c., in unico grado innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro, la cui sentenza è ricorribile in cassazione; ne consegue l’inammissibilità dell’eventuale impugnazione in appello e, trattandosi di incompetenza per grado, la non operatività del principio in forza del quale la decadenza dalla impugnazione è impedita dalla proposizione del gravame ad un giudice incompetente.
Ragion per cui, corollario di quanto sinora detto è che, ai sensi di tale ultima disposizione – anche nella versione di testo introdotta dalla legge 4/11/2010 n. 183 – il lodo pronunciato a seguito di arbitrato irrituale in materia di lavoro privato è impugnabile innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro e che, avverso la sentenza pronunciata in primo (ed unico) grado dal tribunale, l’unico mezzo di impugnazione proponibile è il ricorso per cassazione (Cass. 2 febbraio 2009, n. 2576; Cass. 23 febbraio 2006, n.4025).
Nella fattispecie in esame, pertanto, avendo riguardo ai principi sopra richiamati, la sentenza del Tribunale di Terni avrebbe potuto essere impugnata solo con il ricorso per cassazione per cui l’eventuale impugnazione del lodo proposta erroneamente alla Corte di appello era inammissibile; né era ipotizzabile una translatio iudicii trattandosi di incompetenza per grado per la quale non opera il principio in forza del quale la decadenza dall’impugnazione è impedita dalla proposizione del gravame ad un giudice incompetente (Cass. n. 14431 del 2015; Cass. cit. n. 19182 del 2013, Cass. n. 2576 del 2009).
In conclusione, quindi, pronunciando sul ricorso proposto da NOME COGNOME nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, la gravata sentenza va cassata senza rinvio (art. 382 u.c. c.p.c.) perché il processo non poteva essere proseguito nelle forme in cui era continuato con il gravame proposto innanzi alla Corte di appello di Perugia.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.
PQM
La Corte, pronunciando sul ricorso proposto da NOME COGNOME nei confronti di RAGIONE_SOCIALE cassa senza rinvio la sentenza impugnata perché il processo non poteva essere proseguito. Condanna la controricorrente al pagamento, in favore del ricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 febbraio 2025