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Appropriazione indebita: ricorso inammissibile

Un collaboratore di uno studio professionale, accusato di appropriazione indebita di fondi, ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo di aver agito su ordine del titolare. La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, ribadendo che non può riesaminare nel merito le prove e i fatti, compito che spetta ai giudici dei gradi precedenti. La decisione dei giudici di merito, che avevano ritenuto non provata la difesa del collaboratore, anche alla luce di una condanna penale per gli stessi fatti, è stata così confermata.

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Pubblicato il 30 ottobre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Appropriazione indebita e limiti del ricorso in Cassazione

Un recente caso di appropriazione indebita giunto al vaglio della Corte di Cassazione offre lo spunto per chiarire i confini del giudizio di legittimità. Con l’ordinanza n. 3615/2024, la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un collaboratore di uno studio professionale, condannato per aver sottratto ingenti somme. La decisione ribadisce un principio fondamentale: la Cassazione non può riesaminare i fatti, ma solo verificare la corretta applicazione della legge.

I Fatti del Caso: un’accusa di appropriazione indebita

La vicenda ha origine dall’azione legale intrapresa dal titolare di uno studio contabile e da alcune società a lui collegate contro un proprio collaboratore. L’accusa era gravissima: aver sottratto ingenti somme di denaro dai conti dello studio, trasferendole su conti personali o di altre società. Oltre alla restituzione delle somme, gli attori avevano richiesto il risarcimento dei danni, lamentando in particolare l’interruzione forzata dell’attività professionale del titolare a causa della vicenda.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano dato ragione agli attori. I giudici di merito, anche avvalendosi di una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) per quantificare gli importi, avevano accertato la sottrazione delle somme e condannato il collaboratore alla restituzione e al risarcimento dei danni. La difesa del convenuto era stata ritenuta insufficiente e non provata.

Il Ricorso per Cassazione e la difesa del collaboratore

Di fronte alla doppia condanna, il collaboratore ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, basando la sua difesa su un punto principale: egli avrebbe agito sempre su incarico e sotto la direzione del titolare dello studio, il quale avrebbe gestito in modo confuso e indifferenziato i patrimoni delle sue diverse società. Il ricorrente sosteneva, in sostanza, di essere stato un mero esecutore di ordini, limitandosi a spostare fondi da un conto all’altro su disposizione del suo superiore.

Inoltre, contestava la valutazione della CTU, affermando che da essa non emergeva un suo chiaro coinvolgimento e che la maggior parte dei versamenti era giustificata da una causa lecita. L’appello si fondava, dal punto di vista tecnico-giuridico, su una presunta violazione dell’articolo 2043 del codice civile, che disciplina la responsabilità per fatto illecito.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso palesemente inammissibile. I giudici hanno chiarito che le censure mosse dal ricorrente non riguardavano un’erronea interpretazione o applicazione della legge, ma miravano a ottenere una nuova valutazione delle prove e dei fatti già esaminati nei due gradi di merito.

La Suprema Corte ha sottolineato che non è suo compito stabilire se il collaboratore abbia agito o meno su incarico del titolare; questa è una questione di fatto, la cui valutazione spetta esclusivamente al Tribunale e alla Corte d’Appello. I giudici di merito avevano già ritenuto insufficiente e non provata la difesa del convenuto, evidenziando anche come le risultanze di un processo penale, in cui il ricorrente era stato condannato per appropriazione indebita, confermassero il quadro probatorio. Il tentativo di rimettere in discussione l’analisi delle prove documentali e della consulenza tecnica si scontra con i limiti strutturali del giudizio di legittimità.

Le Conclusioni: i confini invalicabili del giudizio di legittimità

L’ordinanza in esame è un’importante conferma di un principio cardine del nostro sistema processuale: il ricorso per Cassazione non è un terzo grado di giudizio. Non si può adire la Suprema Corte sperando in un riesame dei fatti o in una diversa interpretazione delle prove. Il suo ruolo è quello di assicurare l’uniforme interpretazione della legge e il rispetto delle norme processuali. Qualsiasi ricorso che, pur mascherandosi dietro la violazione di una norma, di fatto chiede ai giudici di legittimità di sostituirsi ai giudici di merito nella ricostruzione della vicenda, è destinato a essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna alle spese e al pagamento di un ulteriore contributo unificato.

È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare le prove, come una consulenza tecnica (CTU)?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che il suo ruolo non è quello di rivalutare le prove o i fatti di causa. Questo tipo di valutazione spetta esclusivamente ai giudici di primo e secondo grado (giudici di merito). Un ricorso che chiede un nuovo esame delle prove è inammissibile.

La difesa di aver agito su ordine del proprio superiore è sufficiente a escludere la responsabilità per appropriazione indebita?
Secondo quanto emerge dalla decisione, questa difesa non è stata ritenuta sufficiente. I giudici di merito l’hanno considerata un’affermazione non provata e l’hanno respinta. La Cassazione ha confermato che questa valutazione dei fatti non può essere messa in discussione in sede di legittimità.

Una condanna in sede penale per lo stesso fatto può influenzare il giudizio civile?
Sì. Nella sua motivazione, la Corte d’Appello ha evidenziato che un sostegno a quanto provato nel giudizio civile proveniva dalle risultanze del processo penale, dove il ricorrente era stato condannato per appropriazione indebita. Questo elemento ha rafforzato la decisione dei giudici civili.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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