Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 10005 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 10005 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso 6610-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
nonchè contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Liquidatore legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende;
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 30/01/2024
CC
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 219/2022 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 17/01/2023 R.G.N. 16/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/01/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
Con la sentenza n. 219/2022 la Corte di appello di Brescia ha confermato la pronuncia del Tribunale di Bergamo che, in accoglimento della domanda proposta da NOME COGNOME, aveva accertato la sussistenza di un rapporto di natura subordinata a tempo indeterminato tra le lavoratrici e la società RAGIONE_SOCIALE e, per l’effetto, aveva ordinato a quest’ultima società di riammetterla in servizio con condanna anche al risarcimento del danno in misura pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, nonché al pagamento delle differenze retributive per complessivi euro 2.097,70, oltre accessori.
In punto di fatto deve evidenziarsi che tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALEerativa RAGIONE_SOCIALE era intercorso un contratto di appalto avente ad oggetto lavorazioni di confezionamento e assemblaggio di prodotti cosmetici, di movimentazione delle merci, di reception e di pulizia e che la lavoratrice era stata assunta a termine dalla RAGIONE_SOCIALEerativa per lo svolgimento di mansioni di facchinaggio e confezionamento in esecuzione di detto appalto.
I giudici di seconde cure, dopo avere richiamato le disposizioni e i principi giurisprudenziali regolanti la materia degli appalti illeciti, hanno rilevato che: a) sotto il profilo dell’onere della prova, il lavoratore aveva l’obbligo di dimostrare la sussistenza degli elementi di riscontro dell’appalto illecito e, di contro, il datore di lavoro-committente aveva l’obbligo di provare la liceità dell’appalto; b) l’esistenza di un formale contratto di appalto costituiva un indizio assai blando, se non addirittura neutro, in ordine alle domande delle lavoratrici; c) i lavoratori
che avevano promosso cause analoghe non erano incapaci di deporre nel presente giudizio né, in astratto, per tale situazione, erano inattendibili; d) dalle risultanze istruttorie era emerso che, quando vi erano picchi di lavoro ed era necessario un aiuto esterno, la società chiedeva personale alla RAGIONE_SOCIALEerativa, che si comportava in sostanza come una società di somministrazione di manodopera, inserendo tale personale nei vari reparti produttivi a fianco e svolgendo le stese attività di quello stabile; e) era risultato provato che l’organizzazione di lavoro del personale della RAGIONE_SOCIALEerativa era di esclusiva prerogativa della committente e, non risultando che la società appaltatrice fosse tenuta a fornire ‘un risultato’ l’appalto, che non poteva essere qualificato anche come smaterializzato, costituiva una ipotesi di somministrazione illecita di manodopera; f) per l’inquadramento corretto della lavoratrice doveva aversi riguardo al CCNL RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (area 1 parametro B) e non al CCNL Logistica e Merci applicato alla RAGIONE_SOCIALEerativa; g) la eventuale invalidità dei contratti a termine stipulati con la RAGIONE_SOCIALE non rilevava attesa la domanda, ritenuta fondata, di costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore; h) i rilievi mossi dalla società committente in ordine ai conteggi prodotti dalla lavoratrice non coglievano nel segno; i) l’indennità liquidata ex art. 39 co. 2 del D.lgs. n. 81/2015, in quanto qualificata dal legislatore come onnicomprensiva e diretta a ristorare per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive, non era incisa da ciò che il lavoratore stesso avrebbe potuto percepire nel tempo compreso tra la domanda e la pronuncia giudiziale.
Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE affidato a sette motivi, cui hanno resistito con controricorso NOME COGNOME, da un lato, e la RAGIONE_SOCIALE in RAGIONE_SOCIALE, dall’altro.
La società ricorrente e la lavoratrice hanno depositato memorie.
Il Collegio si riservava il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1655 cc, dell’art. 20 D.lgs. n. 276/2003, dell’art. 2086 cc, dell’art. 1362 cc e dell’art. 329 cc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere la Corte territoriale fatto corretto governo dei criteri di sussunzione del precetto normativo alla fattispecie concreta, né della sussunzione degli indici di genuinità con riferimento al contratto concreto sviluppato tra le parti: in particolare, la società deduce, a differenza di quanto ritenuto dai giudici del merito, che: a) l’appalto intercorso tra la società era qualificato come labour intensive e tale configurazione giuridica non era stata messa in discussione; b) la lavoratrice aveva sempre sostenuto la illegittimità e non genuinità del contratto in ragione dei meri connotati intrinseci ed estrinseci della peculiare tipologia del contratto stesso; c) era fisiologico a tale tipologia contrattuale l’essere inserito il dipendente della società appaltatrice nella organizzazione di lavoro del committente; d) ciò che rilevava, invece, era la circostanza che la RAGIONE_SOCIALE (appaltatrice) esercitasse il potere direttivo e disciplinare nei confronti dei lavoratori; e) l’esame delle risultanze istruttorie e il procedimento di sussunzione operato dalla Corte di appello non era stato, pertanto, pertinente, all’appalto de quo.
Con il secondo motivo si censura la violazione dell’art. 2697 cc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per l’erroneo riparto della prova, come individuato dalla Corte territoriale, avendo il committente e l’appaltatore, nel caso in esame, dimostrato in positivo sia la qualificazione sia il concreto atteggiarsi del rapporto come appalto labour intensive .
Con il terzo motivo la ricorrente obietta la violazione dell’art. 115 co. 2 cpc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere la Corte territoriale tenuto in debito conto le prove precostituite e, in particolare, per avere disatteso prove legali
senza dare la corretta priorità alle fonti di prova rappresentate dai documenti non contestati tra le parti.
Con quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 co. 2 n. 4 cpc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 cpc, per avere adottato la Corte territoriale una motivazione connotata da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e illogiche rappresentate, da un lato, nell’avere dato atto che l’appalto aveva avuto ad oggetto la fornitura di mere prestazioni di manodopera e, dall’altro, nell’avere affermato che il ruolo delle attrezzature e dei macchinari, nel caso di specie, era stato tutt’altro che marginale essendo quanto meno equivalente a quello delle attività meramente manuali.
Con il quinto motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 co. 7 cc e dell’art. 2697 cc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc (in punto di mansioni superiori) e la violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132 co. 2 n. 4 cpc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 cpc, per la errata valutazione e la carente motivazione sul riconoscimento delle mansioni superiori per la lavoratrice, effettuato senza l’indicazione degli elementi da cui la Corte territoriale aveva tratto il proprio convincimento.
Con il sesto motivo si eccepisce la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cpc, dell’art. 2697 cc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere erroneamente la Corte territoriale svilito la contestazione rivolta da essa società in ordine ai conteggi prodotti dalla lavoratrice e fondati sulla circostanza della mancanza di buste paga per molti mesi. Si precisa che era stata subito dedotta la discontinuità lavorativa della COGNOME presso la RAGIONE_SOCIALE e che tale allegazione non era stata mai obiettata e che era onere della lavoratrice dimostrare la continuità lavorativa a fronte della contestazione mossa.
Con il settimo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 39 comma 2 D.lgs. n. 81/2015, degli artt. 1223 e 1227 cc e dell’art. 2041 cc, nonché la violazione del
principio della compensatio lucri cum damno , per omessa detrazione dell’ aliunde perceptum , in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc. La ricorrente deduce che era pacifico e documentato in primo grado che la COGNOME, nelle more del giudizio, aveva lavorato stabilmente presso altro datore di lavoro ed aveva depositato buste paga attestanti l’avvenuta percezione di somme che avrebbero dovuto essere poste a deconto della indennità liquidata, mentre invece la Corte territoriale aveva ritenuto, richiamando erroneamente i principi affermati in tema di indennità ex art. 32 comma 5 legge n. 183/2010, non applicabile il principio della compensatio lucri cum damno , come invece avviene a seguito della declaratoria di illegittimità del licenziamento.
9. Preliminarmente va respinta l’eccezione di inammissibilità parziale del controricorso della RAGIONE_SOCIALE, sollevata dalla ricorrente società, per il mutamento della posizione processuale, per violazione del contraddittorio e per la sussistenza di un conflitto di interessi: tali situazioni, ravvisabili in capo alla controricorrente relativamente ai motivi dal primo al quinto, secondo l’assunto della RAGIONE_SOCIALE attesterebbero una carenza di legittimazione ad agire ed una mancanza di titolarità sostanziale poiché la RAGIONE_SOCIALE, allorquando aveva ritenuto costituirsi nei precedenti gradi, aveva sempre aderito alla tesi della natura genuina dell’appalto e la diversa posizione assunta nel presente giudizio di legittimità era probabilmente finalizzata all’unico fine di lucrare una condanna a suo favore delle spese di lite ed ex art. 96 cpc.
10. Orbene, osserva questo Collegio che -a prescindere dal fatto che nel presente giudizio è costituita la RAGIONE_SOCIALE la quale, tecnicamente, ha legali rappresentanti diversi (liquidatore) rispetto a quelli della RAGIONE_SOCIALE che ha partecipato ai giudizi nei precedenti gradi e ciò potrebbe giustificare la diversa difesa- non vi è alcun divieto, sanzionato con la inammissibilità, per una parte processuale di modificare le proprie posizioni e tesi difensive nel
corso del giudizio, dovendosi verificare la sussistenza dell’interesse ad agire o resistere in concreto e, in particolare, nei giudizi di gravame, in relazione alle statuizioni della pronuncia impugnata.
Alcuna disposizione del Codice di procedura civile impedisce, infatti, per una parte, la possibilità di mutare la propria posizione processuale né di potere controdedurre, in un giudizio di impugnazione, sulla fondatezza delle censure ex adverso dedotte, differentemente a quanto in precedenza sostenuto, se vi è un interesse concreto alla conferma della gravata pronuncia.
Va sottolineato, infatti, che per il principio di causalità la parte evocata in giudizio ha tutti i diritti di potersi difendere in relazione alle censure prospettate nel modo che ritiene più opportuno e per tutelare i propri interessi in relazione alla situazione contingente in essere, senza alcun vincolo rispetto alle precedenti posizioni assunte.
Il rigetto della predetta eccezione rende conseguentemente infondata la richiesta di condanna ex art. 96 cpc invocata dalla ricorrente società nei confronti della RAGIONE_SOCIALE.
Ciò premesso e venendo allo scrutinio del primo, secondo, terzo, quarto, quinto e sesto motivo, che per la loro connessione logico-giuridica possono essere esaminati congiuntamente, deve rilevarsi che gli stessi presentano profili di infondatezza e di inammissibilità.
Sono infondate le censure riguardanti la individuazione, da parte dei giudici di seconde cure, del concetto giuridico di appalto ‘labour intensive’.
Invero, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 276 del 2003, mentre in appalti che richiedono l’impiego di importanti mezzi o materiali, c.d. “pesanti”, il requisito dell’autonomia organizzativa deve essere calibrato se non sulla titolarità, quanto meno sull’organizzazione di questi mezzi, negli appalti c.d. “leggeri”, in cui l’attività si risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nella prestazione di lavoro, è sufficiente
che in capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri dipendenti (Cass. n. 18455 del 2023). È stato, inoltre, ribadito che, affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi dell’art. 29, comma 1, del d. lgs. n. 276 del 2003, è necessario verificare, specie nell’ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (cd. “labour intensive” ), che all’appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d’impresa, dovendosi invece ravvisare un’interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente, restando irrilevante che manchi, in capo a quest’ultimo, l’ “intuitus personae ” nella scelta del personale, atteso che, nelle ipotesi di somministrazione illegale, è frequente che l’elemento fiduciario caratterizzi l’intermediario, il quale seleziona i lavoratori per poi metterli a disposizione del reale datore di lavoro (Cass. n. 12551 del 2020, Cass. n. 30624/2023).
17. La Corte territoriale, conformandosi ai principi innanzi richiamati, ha rilevato, da un lato, che il personale della RAGIONE_SOCIALEerativa era inserito nei vari reparti produttivi della committente, lavorava alle linee produttive, a volte a fianco del personale della società ricorrente, eseguiva le stesse lavorazioni svolte da quest’ultimo personale e nei fatti si aggiungeva a questo personale nello svolgimento di dette lavorazioni, quando era necessaria più manodopera e che l’organizzazione concreta del personale della RAGIONE_SOCIALEerativa era prerogativa esclusiva della committente, la quale decideva giornalmente il numero dei lavoratori della RAGIONE_SOCIALEerativa da impiegare in funzione delle proprie esigenze produttive, il reparto di assegnazione e le mansioni da svolgere, non essendo stata mai fornita dalla RAGIONE_SOCIALE nessuna autonoma prestazione di risultato; dall’altro che, anche a volere considerare che si fosse in presenza di un appalto smaterializzato, non si poteva parlare di un know how essendo
le lavorazioni richieste ed espletate semplici e non specialistiche e svolgendo i macchinari e le attrezzature un ruolo tutt’altro che marginale rispetto a quello delle attività manuali.
Alcuna violazione del procedimento di sussunzione è imputabile alla decisione impugnata che ha valutato la fattispecie concreta in modo esaustivo, avendo riguardo anche all’ipotesi della astratta configurabilità di un appalto ‘labour intensive’ correttamente individuato, in punto di diritto, in relazione ai principi di legittimità di questa Corte.
Le altre censure, poi, sono inammissibili perché non si sostanziano in violazioni o falsa applicazione delle disposizioni denunciate, ma tendono unicamente alla sollecitazione di una rivisitazione del merito della vicenda (Cass. n. 27197/2011; Cass. n. 6288/2011, Cass. n. 16038/2013) e in una nuova valutazione delle prove, non consentite in sede di legittimità; il tutto in un contesto di cd. doppia conforme dove, cioè, le risultanze del materiale istruttorio sono state valutate in modo identico dai giudici di primo e secondo grado.
Va inoltre precisato, in relazione alle altre denunciate violazioni di legge, che non sussiste la denunciata violazione dell’art. 132 co. 2 n. 4 cpc e 118 disp. att. cpc perché, in tema di contenuto della sentenza, il vizio di motivazione previsto dalle suddette disposizioni è rilevabile quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto alla formazione del proprio convincimento, senza alcuna esplicitazione né disamina logicogiuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cass. n. 25866/2010).
Nella fattispecie ciò non è ravvisabile essendo chiara la ratio decidendi della gravata pronuncia ed argomentata in modo dettagliato e completo, in ordine alle seguenti decisive circostanze: che si era in presenza di una ipotesi di somministrazione illecita di manodopera in quanto la RAGIONE_SOCIALE si era limitata a fornire mere prestazioni di manodopera, non assumendo alcun rischio imprenditoriale, rinunciando al qualsiasi potere di organizzazione e limitandosi a fornire alla committente,
dietro la corresponsione di un compenso, mere energie lavorative che la società committente aveva provveduto ad utilizzare in funzione delle proprie esigenze produttive, inserendole nel proprio ciclo produttivo secondo una precisa organizzazione e programmazione; che alla lavoratrice, la quale aveva lavorato alle dirette dipendenze della committente, andava conseguentemente applicato il CCNL RAGIONE_SOCIALE e che aveva diritto, per la retribuzione, al livello area 1 parametro B del suddetto CCNL per le mansioni effettivamente svolte, come era emerso dalle prove testimoniali acquisite; che la mancata produzione in giudizio di alcune buste paga emesse dalla RAGIONE_SOCIALEerativa non rilevava perché era risultato che la RAGIONE_SOCIALE, sin dal momento della sua formale assunzione da parte della RAGIONE_SOCIALEerativa, aveva sempre lavorato presso la RAGIONE_SOCIALE come addetta al confezionamento, dal che discendeva il suo diritto a percepire una retribuzione parametrata al corretto inquadramento per l’intero periodo di lavoro.
22. Deve, poi, ribadirsi che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cc si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata non avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cpc (Cass. n. 19064/2006; Cass. n. 2935/2006), con i relativi limiti di operatività ratione temporis applicabili.
23. Nella fattispecie in esame, invece, vi è stata solo una valutazione delle prove orali e documentali, senza alcuna violazione del principio dell’onere della prova come sopra delineato.
24. In tema, inoltre, di ricorso per cassazione, la questione della violazione o falsa applicazione degli art. 115 e 116 cpc non può porsi per una erronea valutazione del materiale
istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (Cass. n. 20867 del 2020; Cass. n. 27000 del 2016; Cass. n. 13960 del 2014): anche in questo caso le suddette ipotesi non sono ravvisabili nel caso in esame perché le prove documentali precostituite (verbali, contratti e badge) sono state vagliate e ritenute sostanzialmente irrilevanti mentre quelle costituende, rappresentate dalle dichiarazioni rese in sede di libero interrogatorio, sono state ritenute ininfluenti rispetto al restante materiale probatorio.
Infine, per completezza deve precisarsi che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi (art. 244 cpc), come la scelta, tra le varie emergenze probatorie di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad una esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 16467 del 2017).
In conclusione, la Corte di merito ha svolto la sua indagine in modo completo, esaminando minuziosamente tutte le emergenze istruttorie e, assolutamente, non contraddicendosi, perché ha valutato le stesse in relazione alle varie prospettazioni difensive che le erano state presentate, fugando ogni dubbio su qualsivoglia elemento che potesse avvalorare la legittimità dell’appalto, correttamente esclusa.
Il settimo motivo, infine, è anche esso infondato.
L’art. 39 del D.lgs. n. 81 del 2015 così recita: ‘1. Nel caso in cui il lavoratore chieda la costituzione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore, ai sensi dell’articolo 38, comma 2,
trovano applicazione le disposizioni dell’articolo 6 della legge n. 604 del 1966, e il termine di cui al primo comma del predetto articolo decorre dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore. 2. Nel caso in cui il giudice accolga la domanda di cui al comma 1, condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno in favore del lavoratore, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge n. 604 del 1966. La predetta indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive, relativo al periodo compreso tra la data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore e la pronuncia con la quale il giudice ha ordinato la costituzione del rapporto di lavoro’ .
29. Il criterio letterale, come definito dall’art. 12, co. 1 disp. prel. secondo cui: ‘Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore’ , per il suo carattere di oggettività e per il suo naturale obiettivo di ricerca del senso normativo maggiormente riconoscibile e palese, rappresenta il criterio cardine nella interpretazione della legge e concorre alla definizione in termini di certezza, determinatezza e tassatività della fattispecie (cfr. in motivazione Cass. Sez. Un. n. 23051/2022).
30. Orbene, analizzando il testo letterale della disposizione è agevole rilevare che il legislatore non ha fatto alcun riferimento ad una detrazione dell’aliunde perceptum , come invece è stato espressamente previsto in sede di stesura dell’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1970, per cui correttamente tale elemento non deve rientrare nella RAGIONE_SOCIALE dell’indennità ex art. 39 D.lgs. n. 81/2015.
31. Ma anche sotto il criterio esegetico teleologico la tesi della ricorrente società non trova alcun avallo giuridico
avendo, invece, il legislatore voluto adottare una formula analoga a quella statuita, per la relativa indennità, dall’art. 32 co. 5 legge n. 183 del 2010 ove il risarcimento, seppur nella misura forfetizzata prevista, è sempre dovuto in favore del lavoratore, a prescindere dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dall’esistenza stessa di un danno effettivo per il lavoratore, non assumendo, nella struttura della norma, alcun rilievo l’aliunde perceptum , che non vale più a delimitare la misura del danno risarcibile dal creditore della prestazione, conformemente alla interpretazione già data, in quella sede, dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (sent. n. 303/2011) e della Corte di cassazione (per tutte Cass. n. 3056/2012).
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in delle spese del presente giudizio che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, da distrarsi al Difensore dichiaratosi antistatario, in favore della controricorrente lavoratrice e in euro 3.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, in favore della RAGIONE_SOCIALE. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 30 gennaio