Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 5241 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 5241 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 33418/2018 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante p.t. NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO;
-ricorrente –
contro
REGIONE CALABRIA, in persona del Presidente della Giunta regionale p.t. AVV_NOTAIO, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO dell’Avvocatura regionale, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO;
-controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro n. 724/18, depositata il 13 aprile 2018;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 novembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME;
FATTI DI CAUSA
1. L’RAGIONE_SOCIALE, appaltatrice del servizio di pulizia e monitoraggio stagionale delle acque marine costiere e delle spiagge della Regione Calabria, convenne in giudizio la Regione, per sentirla condannare al pagamento: a) della somma di Lire 227.143.000, a titolo di saldo del corrispettivo delle prestazioni effettivamente eseguite e rientranti nel tetto massimo dell’importo contrattuale, b) della somma di Lire 1.162.588.610, a titolo di corrispettivo per le maggiori quantità di lavori eseguiti, c) in subordine, di un indennizzo per i costi sostenuti per le maggiori prestazioni in concreto eseguite rispetto a quelle previste dal contratto, ai sensi dell’art. 13 del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 o dell’art. 2041 cod. civ., nonché d) per sentir accertare l’illegittimità del recesso per le annualità successive alla prima, comunicato con nota del 29 giugno 1998, con e) la condanna della convenuta al risarcimento dei danni nella misura prevista dall’art. 345 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F.
Premesso che il contratto di appalto, stipulato il 16 giugno 1997 all’esito di regolare procedura ad evidenza pubblica, aveva una durata di tre anni, con facoltà d’interruzione da parte della Regione dopo il primo o il secondo anno, in caso di mancato rifinanziamento dell’apposito capitolo di spesa del bilancio regionale, l’attrice riferì che il servizio consisteva nella pulizia delle acque per sessanta giorni lavorativi e nella pulizia delle spiagge e degli arenili per una superficie di 17.000 mq. per ciascuno dei Comuni calabresi, verso un corrispettivo annuale di Lire 1.897.110.250, oltre IVA. Al termine del servizio, essa attrice aveva inviato una nota contabile riepilogativa, dalla quale risultava un credito complessivo di Lire 2.927.647.341, oltre IVA, comprendente un mag-
giore importo di Lire 208.405.000 per lavorazioni aggiuntive e di Lire 800.000.000 circa per errori di calcolo contenuti nel bando di gara, nel progetto del servizio e nel capitolato speciale. Tale credito era stato riconosciuto soltanto in parte con decreto assessoriale n. 17 del 2 settembre 1997, il quale era stato peraltro revocato dal Presidente della Giunta regionale con decreto n. 366 del 1° luglio 1998, che aveva dato atto dell’esistenza di un credito della Regione, pari a Lire 73.438.803, derivante dall’avvenuto pagamento della somma liquidata dal decreto assessoriale. Con nota del 29 giugno 1998, il Presidente della Giunta regionale aveva inoltre comunicato la volontà d’interrompere il servizio dopo il primo anno, che era stata confermata anche per l’anno successivo, a seguito di diffide inviate da essa attrice.
Si costituì la Regione, e resistette alla domanda, sostenendo che le maggiori quantità di lavori eseguite dall’attrice costituivano opere aggiuntive o in variante, non richieste né autorizzate da essa committente, e chiedendo in via riconvenzionale la condanna dell’attrice alla restituzione dell’importo di Lire 73.438.803, corrisposto in eccedenza rispetto al limite di spesa previsto dal contratto.
1.1. Con sentenza del 17 febbraio 2012, il Tribunale di Catanzaro rigettò la domanda.
L’impugnazione proposta dalla RAGIONE_SOCIALE, in qualità di cessionaria del credito azionato dall’RAGIONE_SOCIALE, è stata rigettata dalla Corte d’appello di Catanzaro con sentenza del 13 aprile 2018.
A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso il difetto di legittimazione della RAGIONE_SOCIALE, osservando che l’art. 117 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 ha confermato la cedibilità dei crediti derivanti dall’esecuzione di appalti pubblici, e ritenendo inapplicabili sia gli artt. 69 e 70 del r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, riguardanti esclusivamente la cessione di crediti vantati nei confronti di Amministrazioni statali, sia l’art. 9 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, concernente esclusivamente l’ipotesi, nella specie non ricorrente, in cui i la-
vori siano ancora in corso.
Nel merito, premesso che l’importo da prendere in considerazione ai fini della decisione non era quello stanziato dalla Regione, ma quello indicato dal contratto, ha escluso il diritto dell’attrice al pagamento dell’importo richiesto per le maggiori prestazioni comprese nel tetto massimo previsto, ritenendo irrilevante l’avvenuto pagamento della somma di Lire 2.331.000.000, effettuato in esecuzione del decreto assessoriale, a titolo di acconto sull’importo richiesto dall’appaltatrice, giacché tale provvedimento, emesso da un organo non legittimato a modificare il contratto, era stato implicitamente revocato dal successivo decreto del Presidente della Giunta regionale.
Ha altresì escluso il diritto al pagamento dell’importo richiesto per i lavori aggiuntivi, affermando che, in quanto recante il riferimento alla formula «chiavi in mano» e la precisa indicazione del corrispettivo spettante all’impresa, il contratto era qualificabile come appalto a forfait , e non già a misura: rilevato infatti che la clausola n. 1 includeva nel corrispettivo pattuito ogni attività comunque connessa con la realizzazione dei servizi affidati, esonerando la committente da ogni spesa eccedente il prezzo di aggiudicazione, ha ritenuto irrilevanti eventuali errori di calcolo contenuti nel progetto di servizio e i continui ribassi del prezzo rispetto alle previsioni del bando, osservando che attraverso la sottoscrizione del contratto l’impresa aveva manifestato inequivocabilmente la volontà di accettare le condizioni in esso contenute, avendole ritenute evidentemente convenienti.
Per le medesime ragioni, la Corte ha ritenuto che i lavori aggiuntivi non potessero rientrare nel quinto d’obbligo, ai sensi dell’art. 14 del d.P.R. n. 1063 del 1962, escludendone la remunerabilità sia perché l’art. 13 del capitolato speciale stabiliva che la superficie totale d’intervento per ciascun Comune non poteva risultare superiore a 17.000 mq., sia perché la Regione non li aveva ordinati né ratificati successivamente. In proposito, ha ritenuto infondata la tesi sostenuta dall’at-
trice, secondo cui tali lavori erano stati commissionati dai Comuni per delega della Regione, osservando che dal contratto, dagli atti allegati e dalle missive inviate dalla committente risultava che quest’ultima aveva affidato ai Comuni soltanto l’incarico d’individuare le aree da bonificare, nel rispetto del limite indicato, nonché quello di verificare la regolare esecuzione del servizio.
Ha ritenuto poi infondate le domande di riconoscimento dell’indennizzo ai sensi dell’art. 13 del d.P.R. n. 1063 del 1962 e dell’art. 2041 cod. civ., ribadendo che i lavori aggiuntivi non erano stati commissionati né ratificati dalla stazione appaltante, negando efficacia sanante al decreto assessoriale, in quanto revocato dal Presidente della Giunta regionale, ed escludendo la sussistenza del requisito della sussidiarietà, giacché i rapporti tra le parti erano regolati dal contratto di appalto.
Quanto infine alla domanda di risarcimento dei danni per l’illegittimo recesso, la Corte ha rilevato che, a differenza del bando, il quale fissava in tre anni la durata del rapporto, con facoltà d’interrompere il servizio in caso di mancato rifinanziamento dell’apposito capitolo di bilancio, il contratto limitava la durata dell’appalto alla stagione estiva del 1997. Ha escluso pertanto che l’appaltatrice potesse riporre un affidamento in ordine al conferimento del servizio per l’anno successivo, osservando comunque che la volontà della Regione di non procedere alla rinnovazione del contratto era giustificata dalla mancanza di fondi nel bilancio regionale.
Avverso la predetta sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, illustrati anche con memoria. La Regione ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale, affidato ad un solo motivo ed anch’esso illustrato con memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, va rigettata l’eccezione d’improcedibilità del ricorso, proposta dalla difesa della controricorrente in relazione all’o-
messo deposito della copia notificata della sentenza impugnata.
La ricorrente ha infatti adempiuto puntualmente l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2 cod. proc. civ., avendo depositato, unitamente al ricorso, copia autentica della sentenza impugnata, cui risulta allegata la ricevuta di consegna della notificazione, effettuata il 10 settembre 2018 a mezzo della posta elettronica certificata. L’esame di tale ricevuta, recante l’attestazione di conformità, conferma la tempestività dell’impugnazione, proposta con atto notificato l’8 novembre 2018, e quindi entro il termine di cui all’art. 325, secondo comma, cod. proc. civ.
2. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 4, 7 e 10 e 13 del d.P.R. n. 1063 del 1962, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha qualificato la fattispecie come appalto a forfait , anziché a misura. Premesso che il contratto non recava alcun riferimento alla determinazione del corrispettivo a corpo, ma solo un richiamo alla delibera di aggiudicazione, sostiene che l’affidamento del servizio «chiavi in mano» doveva essere posto in relazione con le altre clausole contrattuali che, al fine di evitare l’arbitrario addebito di costi imprevisti o spese accessorie, commisuravano la remunerazione dei singoli servizi ai prezzi unitari pattuiti, da intendersi come comprensivi di tutte le attività connesse, senza però assoggettare il corrispettivo ad alcun limite pecuniario. Aggiunge che la pattuizione di un corrispettivo a corpo risultava incompatibile non solo con il riferimento al prezzo di aggiudicazione, il quale costituiva una mera indicazione di massima, ma anche con la possibilità, prevista dal contratto, di un’estensione dei servizi e del relativo compenso, e con il riconoscimento del credito contenuto nel decreto assessoriale: quest’ultimo, in particolare, costituiva la logica conseguenza della delibera della Giunta regionale con cui era stata stanziata la somma necessaria per l’appalto, la cui rettifica, ove si fosse trattato di un appalto a corpo, avrebbe dovuto comportare anche una modificazione del con-
tratto, rimasto invece inalterato. Afferma infine che nell’interpretazione del contratto la sentenza impugnata ha attribuito rilievo ad elementi estrinseci, quali la delibera di aggiudicazione, trascurando invece altri elementi configurabili come veri e propri atti contrattuali, come gli elaborati tecnici e il bando di gara.
3. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 4, 7 e 10 del d.P.R. n. 1063 del 1962, censurando la sentenza impugnata per avere escluso la riconducibilità dei servizi resi dall’appaltatrice all’art. 13 del d.P.R. n. 1063 del 1962, da essa qualificati come servizi aggiuntivi, resi in eccedenza rispetto all’importo previsto dalla delibera di aggiudicazione. Sostiene infatti che la Corte territoriale non ha tenuto conto delle indicazioni contenute nel bando di gara, nel progetto di servizio, nel capitolato speciale e nelle condizioni integrative, configurabili come fonti regolatrici del rapporto di pari dignità, le quali riportavano il compenso a misura di ogni singola prestazione, attribuendo ai Comuni la facoltà di estendere gl’interventi di pulizia. Afferma l’irragionevolezza della scelta interpretativa compiuta dalla sentenza impugnata, in virtù della quale il contratto avrebbe dovuto essere considerato esattamente adempiuto anche nel caso in cui i servizi fossero stati svolti in difformità delle previsioni degli elaborati tecnici, la cui conoscenza da parte dell’impresa non assumeva alcun rilievo, non essendo stato mai prospettato un vizio del consenso. Precisato inoltre che l’appaltatrice non aveva mai eseguito lavorazioni aggiuntive, salvo che per una quota minimale, sostiene che il superamento del corrispettivo pattuito era stato determinato dalle successive riduzioni dell’importo a base d’asta, che avevano di fatto impedito lo svolgimento del servizio così come previsto dal contratto, e dalla totale erroneità delle misure riportate nel progetto di servizio e nel computo metrico, che non consentiva all’impresa di sospendere il servizio al raggiungimento degl’importi indicati.
Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art.
14 del d.P.R. n. 1063 del 1962, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto non autorizzati né ratificati i lavori effettuati dall’appaltatrice in eccedenza rispetto agli obblighi assunti con il contratto, senza considerare che l’estensione degl’interventi e la ripetizione degli stessi era prevista dall’art. 6 del contratto e rimessa alla volontà dei Comuni, in qualità di delegati dalla Regione, ai sensi dell’art. 9 del capitolato speciale, cui erano demandati la determinazione l’individuazione delle aree da pulire, nonché il controllo e la certificazione degl’interventi. Aggiunge che la predetta qualità trovava conferma in un parere prodotto in giudizio, reso dal Settore legale della Regione il 13 aprile 1995, in riferimento ad un contratto analogo a quello in esame, il quale giungeva a conclusioni diametralmente opposte a quelle della sentenza impugnata.
5. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 1063 del 1962, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la domanda subordinata di riconoscimento di un indennizzo per i lavori aggiuntivi, negando qualsiasi rilievo al decreto assessoriale n. 17 del 1997, con cui era stata accertata la correttezza formale e sostanziale della contabilità dell’appaltatrice. Premesso che tale decreto non era stato affatto revocato dal Presidente della Giunta regionale, il quale non aveva disconosciuto gli accertamenti in esso contenuti, ma si era limitato a contestarlo nella parte in cui aveva liquidato competenze superiori a quelle previste dal contratto, afferma che, anche a voler qualificare le maggiori prestazioni eseguite come variazioni quantitative dei lavori, le stesse avrebbero dovuto essere ritenute autorizzate dai Comuni, in qualità di delegati della Regione. Aggiunge che l’accertamento della regolarità dei lavori e dell’ammontare del corrispettivo, risultante dal predetto decreto, costituiva un riconoscimento unilaterale del debito, non inficiato dal successivo decreto del Presidente della Giunta regionale n. 366 del 1998, immotivatamente ed illogicamente
contrastante con le risultanze istruttorie del decreto assessoriale. Sostiene infine che, in quanto rientranti nel quinto d’obbligo, i lavori aggiuntivi non richiedevano una preventiva autorizzazione, essendo in corso la stagione estiva, riferendosi gl’interventi a lidi di particolare interesse turistico ed a situazioni di degrado ambientale di particolare rilievo, e non potendo i Comuni attendere il rilascio del nullaosta da parte della Regione.
6. Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1175, 1373, 1375 e 1671 cod. civ. e dell’art. 345 della legge n. 2248 del 1865, all.F, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, ai fini dell’esclusione dell’avvenuto esercizio della facoltà di recesso da parte della committente, ha ritenuto che il contratto avesse durata annuale, in contrasto con il tenore letterale del bando di gara e del capitolato speciale, che prevedevano invece una durata triennale, con facoltà di recesso in caso di mancato rifinanziamento degl’interventi. Premesso che, in realtà, il contratto si limitava a ribadire la facoltà di recesso ad nutum prevista dall’art. 345 cit. e dall’art. 1671 cod. civ., insiste sull’illegittimità del comportamento tenuto dalla Regione, in quanto contrastante con i canoni di correttezza e buona fede, oltre che con il principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione, sostenendo che lo stesso ha costretto l’appaltatrice a mantenere in esercizio tutte le attività connesse all’esecuzione del servizio, in tal modo impedendone l’utilizzazione in altri appalti. Aggiunge che il recesso, non preceduto da un congruo preavviso, non poteva ritenersi giustificato dal mancato rifinanziamento degl’interventi, del quale la Regione era a conoscenza da tempo, precisando infine che il risarcimento avrebbe dovuto essere liquidato in misura pari alle spese sostenute ed al mancato guadagno, corrispondente al 10% dell’importo a base d’asta, ai sensi dell’art. 345 cit.
Con l’unico motivo del ricorso incidentale, la Regione lamenta la violazione dell’art. 117 del d.lgs. n. 163 del 2006, censurando la sen-
tenza impugnata nella parte in cui ha rigettato l’eccezione di difetto di legittimazione della RAGIONE_SOCIALE, in virtù della ritenuta inapplicabilità degli artt. 69 e 70 del r.d. n. 2440 del 1923 e dell’art. 9 della legge n. 2248 del 1865, all. F. Premesso che, ai fini dell’individuazione della normativa applicabile alla cessione del credito, risulta decisivo il momento della stipulazione, osserva che nella specie la stessa ha avuto luogo il 15 marzo 2012. Insiste quindi sull’inopponibilità della cessione, per difetto del requisito soggettivo previsto dal comma primo dell’art. 117 cit., non rientrando la ricorrente tra le banche e gl’intermediari finanziari.
8. Così riassunte le censure proposte dalle parti, vanno innanzitutto disattese le eccezioni d’inammissibilità del ricorso principale, sollevate dalla difesa della controricorrente in relazione al difetto di sinteticità del ricorso, alla mancata impugnazione di argomentazioni configurabili come autonome rationes decidendi , alla denuncia cumulativa dei vizi di cui ai nn. 3 e 5 dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., all’inosservanza dell’art. 348ter , quarto comma, cod. proc. civ. e alla proposizione di questioni di merito, attraverso l’apparente deduzione del vizio di motivazione.
Benvero, nonostante l’espresso richiamo alle indicazioni contenute nel Protocollo d’intesa sottoscritto il 17 dicembre 2015 dal AVV_NOTAIO Presidente della Corte di cassazione e dal Presidente del RAGIONE_SOCIALE, il ricorso eccede largamente i limiti dimensionali dallo stesso prescritti, dilungandosi ben oltre il necessario nell’esposizione della vicenda processuale e nell’illustrazione dei motivi, sì da risultare composto da un numero di pagine pari a circa sette volte quello della sentenza impugnata. Ciò contrasta con i principi di chiarezza e sinteticità espositiva, i quali esigono che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sostanziale e processuale sottoposta all’esame del Giudice di legittimità, in modo tale da offrire a quest’ultimo una concisa rappresentazione della stessa e delle questioni giuridiche pro-
spettate, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 cod. proc. civ. L’inosservanza dei predetti doveri non comporta peraltro, nella specie, l’inammissibilità dell’impugnazione, non traducendosi nella violazione dei requisiti di contenuto-forma stabiliti dall’art. 366, primo comma, nn. 3 e 4 cod. proc. civ., ai fini della quale è necessario che l’esposizione risulti oscura o lacunosa, o comunque tale da nuocere all’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata (cfr. Cass., Sez. Un., 30/11/2021, n. 37552; Cass., Sez. III, 13/02/2023, n. 4300; Cass., Sez. V, 30/04/2020, n. 8425).
Le censure proposte dalla ricorrente investono poi l’intero contenuto della sentenza impugnata, senza trascurarne alcun profilo logicamente e giuridicamente autonomo, non accomunano in alcun modo vizi eterogenei, riflettendo esclusivamente la violazione di norme di legge, e si sottraggono anche alla preclusione prevista dall’art. 348ter , quarto comma, cod. proc. civ., riguardante esclusivamente il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., la cui mancata deduzione consente inoltre di escludere (salvo quanto si dirà in seguito) che attraverso la stessa la ricorrente abbia inteso sollecitare un non consentito riesame del merito.
Tanto premesso, occorre procedere all’esame del ricorso incidentale, avente carattere logicamente e giuridicamente prioritario rispetto a quello del ricorso principale, in quanto riguardante la legittimazione della ricorrente, che ha impugnato la sentenza di primo grado e poi quella d’appello in qualità di cessionaria del credito fatto valere dall’attrice.
Correttamente, in proposito, la sentenza impugnata ha escluso che l’art. 117 del d.lgs. n. 163 del 2006, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, consenta la cessione dei crediti derivanti dai contratti d’appalto pubblico soltanto in favore delle banche e degl’intermediari finanziari: tale disposizione, infatti, come questa Corte ha già
avuto modo di chiarire ripetutamente, si limita ad estendere ai predetti crediti la disciplina dettata dalla legge n. 52 del 1991, avente portata derogatoria rispetto a quella generale del codice civile ed applicabile a condizione che il cessionario sia una banca o un intermediario finanziario, ma non ne vieta la cessione in favore di altri soggetti che non siano in possesso dei requisiti da essa prescritti; poiché, inoltre, essa non ha comportato l’abrogazione delle norme speciali che disciplinavano in precedenza la cessione dei crediti della Pubblica Amministrazione, il trasferimento in favore dei predetti soggetti non resta assoggettato alle norme del codice civile, trovando invece applicazione l’art. 9 della legge n. 2248 del 1865, all. F, che vieta la cessione dei crediti derivanti da contratti ancora in corso, senza l’adesione dell’Amministrazione interessata, e gli artt. 69 e 70 del r.d. n. 2440 del 1923, che prescrivono la stipulazione con atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio e la notificazione all’Amministrazione (cfr. Cass., Sez. VI, 17/02/ 2022, n. 5253; Cass., Sez. I, 6/09/2021, n. 24002; v. anche Cass., Sez. I, 24/09/2007, n. 19571, relativa all’analoga disposizione precedentemente dettata dall’art. 26, comma quinto, della legge 11 febbraio 1994, n. 109). Altrettanto condivisibilmente, poi, la Corte territoriale ha escluso l’applicabilità di queste ultime disposizioni, rilevando per un verso che il rapporto di appalto si era da tempo concluso, e richiamando per altro verso il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui gli artt. 69 e 70 cit. riguardano esclusivamente l’Amministrazione statale, e non si applicano ai crediti derivanti dagli appalti degli enti locali, in quanto non espressamente richiamati dal relativo ordinamento e non suscettibili di applicazione estensiva o analogica, perché aventi carattere eccezionale (cfr. Cass., Sez. III, 13/12/2019, n. 32788; 21/12/2017, n. 30658; 12/ 02/2015, n. 2760).
10. Passando all’esame del ricorso principale, sono inammissibili il primo e il secondo motivo, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riguardanti la qualificazione del contratto in questione come appalto a
forfait , anziché a misura, e la conseguente qualificazione come lavori aggiuntivi dei servizi resi in eccedenza rispetto all’importo previsto dalla delibera di aggiudicazione.
Ai fini dell’interpretazione del contratto, la sentenza impugnata ha fatto ricorso al criterio ermeneutico fondato sul significato letterale delle espressioni usate dalle parti, avendo richiamato la clausola n. 1, recante l’individuazione dell’oggetto dell’offerta, ed avendo evidenziato la chiarezza ed univocità del suo contenuto, il quale, nel prevedere l’affidamento dei servizi con la formula «chiavi in mano», precisava che gli stessi comprendevano «ogni attività comunque connessa» con la loro realizzazione, aggiungendo che nessuna spesa avrebbe potuto essere posta a carico dell’Ente committente, «all’infuori dell’importo di aggiudicazione dei lavori», espressamente indicato nella premessa dell’atto. Sulla base di tali elementi, ha concluso per la qualificazione del contratto come appalto a forfait , ritenendo irrilevanti, in contrario, gli errori di calcolo asseritamente contenuti nel progetto del servizio e i continui ribassi del prezzo rispetto alle previsioni del bando, giacché l’impresa, oltre ad aver manifestato inequivocabilmente la volontà di accertare le predette condizioni, attraverso la sottoscrizione del contratto, non aveva mai neppure adombrato la sussistenza di un vizio nella formazione della volontà.
L’apprezzamento in tal modo compiuto costituisce un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale o per illogicità o incongruenza della motivazione (cfr. Cass., Sez. lav., 4/04/2022, n. 10745; Cass., Sez. III, 14/07/2016, n. 14355), nella specie neppure dedotte. La ricorrente, infatti, nell’insistere sulla qualificazione del contratto come appalto a misura, deduce la violazione degli artt. 4, 7, 10 e 13 del d.P.R. n. 1063 del 1962, anziché quella degli artt. 1362 e ss. cod. civ., limitandosi a contrapporre la propria personale interpretazione a quella risultante dalla sentenza
impugnata, senza indicare i criteri ermeneutici rimasti inosservati (cfr. Cass., Sez. V, 16/01/2019, n. 873; Cass., Sez. I, 15/11/2017, n. 27136). In tal modo, essa dimostra di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, una nuova lettura dell’atto, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, nonché la coerenza logico-formale delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., nel testo riformulato dall’art. 54, comma primo, lett. b) , del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547).
Nel lamentare l’omessa valutazione delle clausole contrattuali che prevedevano l’estensione del servizio, del decreto assessoriale con cui era stato riconosciuto il suo maggior credito e delle modifiche ripetutamente apportate allo stanziamento dei fondi, agli elaborati progettuali e al bando di gara, la ricorrente fa poi valere elementi già presi in considerazione dalla sentenza impugnata, oppure inidonei ad orientare in senso diverso la decisione. Non dirimente, in particolare, deve considerarsi l’attribuzione alla Regione della facoltà di disporre la ripetizione del servizio di pulizia sulle spiagge a maggior interesse turistico o più frequentate, trattandosi evidentemente di una facoltà da esercitarsi pur sempre nell’ambito delle quantità previste dal progetto del servizio, e quindi non incompatibile con l’invariabilità del corrispettivo globalmente pattuito. Il comune intento delle parti di attribuire a quest’ultimo carattere omnicomprensivo riveste d’altronde carattere determinante ai fini della qualificazione del contratto come appalto a corpo, giacché la sua accettazione da parte dell’appaltatore risulta sufficiente ad attribuire al relativo importo carattere vincolante, indipendentemente dal
richiamo ai prezzi unitari e ai calcoli contenuti nel computo metrico, il quale ha valore di semplice traccia indicativa delle modalità di formazione del prezzo finale, destinata a rimanere fuori dal contenuto del contratto (cfr. Cass., Sez. I, 7/06/2012, n. 9246). Le modifiche al progetto ed al bando di gara hanno costituito invece oggetto di puntuale apprezzamento da parte della Corte territoriale, che ne ha escluso la rilevanza, in virtù dell’intervenuta accettazione delle condizioni contrattuali da parte dell’appaltatrice, mentre il successivo riconoscimento del credito di quest’ultima deve considerarsi del tutto ininfluente ai fini dell’interpretazione del contratto, non potendo trovare applicazione, nella specie, il criterio ermeneutico di cui all’art. 1362, secondo comma, cod. civ., poiché nei contratti di diritto privato stipulati dalla Pubblica Amministrazione, soggetti alla forma scritta ad substantiam , la volontà negoziale dev’essere desunta unicamente dal contenuto dell’atto, interpretato secondo i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ.(cfr. Cass., Sez. I, 13/10/2016, n. 20690; 11/05/ 2007, n. 10868).
E’ parimenti inammissibile il terzo motivo, riguardante la riconducibilità dei lavori aggiuntivi al quinto d’obbligo, ai sensi dell’art. 14 del d.P.R. n. 1063 del 1962.
Ai fini dell’esclusione dell’applicabilità di quest’ultima disposizione, la sentenza impugnata ha richiamato l’art. 13 del capitolato speciale d’appalto, il quale indicava con precisione la superficie totale d’intervento spettante a ciascuna Amministrazione comunale, ed ha quindi affermato l’arbitrarietà del servizio di pulizia effettuato dall’appaltatrice oltre il limite indicato, escludendo che i lavori aggiuntivi potessero considerarsi ordinati dalla Regione o dalla stessa ratificati, poiché dal contratto stipulato tra le parti e da una nota inviata dalla Regione ai Comuni emergeva che a questi ultimi non era attribuito il potere di ordinare lavori aggiuntivi, ma era affidato esclusivamente l’incarico d’individuare le aree da bonificare, entro il limite indicato, e di verificare la regolare esecuzione del servizio di pulitura.
Nel censurare tale apprezzamento, la ricorrente prospetta ancora una volta una diversa interpretazione del contratto di appalto, insistendo sul riconoscimento ai Comuni del potere d’indicare l’estensione degl’interventi da effettuare e di disporne la ripetizione, ed individuando in tale clausola la fonte di una delega del potere di autorizzare lavori aggiuntivi, conferita dalla Regione ai Comuni, ma omette d’indicare i criteri ermeneutici rimasti inosservati o i vizi logici del ragionamento seguito dalla Corte territoriale, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, anche a questo riguardo, un riesame del merito della controversia, non consentito in questa sede. Nell’invocare il parere reso dal Settore legale della Regione in ordine alla configurabilità della predetta delega, la ricorrente non tiene poi conto della natura non provvedimentale di tale atto, non avente efficacia vincolante neppure nei confronti degli organi della Regione, in quanto recante l’espressione di una mera opinione giuridica in ordine alle modalità esecutive di un diverso contratto, il cui contenuto è rimasto peraltro imprecisato.
E’ altresì inammissibile il quarto motivo, avente ad oggetto il riconoscimento di un equo compenso per i lavori aggiuntivi, ai sensi dell’art. 13 del d.P.R. n. 1063 del 1962.
Ai fini dell’esclusione del diritto al compenso, la sentenza impugnata ha infatti ribadito che i predetti lavori non erano stati preventivamente ordinati né successivamente ratificati dalla Regione, confermando che il Comune non aveva conferito alcun potere di autorizzazione ai Comuni, e negando il valore sanante del decreto assessoriale che ne aveva autorizzato il pagamento, in quanto revocato dal successivo decreto presidenziale.
Le censure proposte dalla ricorrente muovono, anche a questo riguardo, dall’assunto, contrario all’interpretazione del contratto fornita dalla Corte territoriale, secondo cui i predetti lavori sarebbero stati autorizzati dai Comuni in qualità di delegati della Regione, per sostenere che, in realtà, il decreto assessoriale non ne avrebbe ratificato l’esecu-
zione, ma si sarebbe limitato ad accertare la correttezza formale e sostanziale della relativa contabilità, non smentita dal decreto presidenziale, il quale si sarebbe a sua volta limitato a disconoscere il potere dell’Assessore di provvedere al riconoscimento del debito in nome e per conto della Regione. La mancata proposizione di valide censure in ordine all’interpretazione del contratto, precludendo l’ulteriore esame della questione concernente la delega conferita ai Comuni, consente peraltro di escludere in radice la possibilità di dare ingresso, nella presente sede, a tale diversa prospettazione, la quale d’altronde, risolvendosi nell’invocazione di una diversa lettura del decreto assessoriale e di quello presidenziale, avrebbe a sua volta richiesto l’indicazione dei canoni ermeneutici violati e del modo e delle considerazioni con cui la sentenza impugnata se ne è discostata, ovvero delle lacune argomentative o delle incongruenze in cui è incorsa la Corte territoriale. Com’è noto, infatti, l’interpretazione degli atti amministrativi a contenuto non normativo, risolvendosi nell’accertamento della volontà della Pubblica Amministrazione, costituisce anch’essa un’operazione riservata al giudice di merito, il cui risultato è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione delle norme sull’interpretazione dei contratti, applicabili anche agli atti amministrativi, o per incongruenza o illogicità della motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 23/02/2022, n. 5966; Cass., Sez. lav., 15/12/2020, n. 28625; Cass., Sez. II, 18/05/2016, n. 10271).
Quanto poi all’asserita urgenza dei lavori, ad avviso della ricorrente idonea a dispensare l’appaltatrice dall’onere di procurarsi l’autorizzazione della Amministrazione committente, ai sensi dell’art. 13, terzo comma, del d.P.R. n. 1063 del 1962 e dell’art. 342 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, trattasi di questione non esaminata dalla sentenza impugnata, che non può quindi trovare ingresso in questa sede, implicando un’indagine di fatto in ordine alla sussistenza di tale presupposto, e non essendo stato precisato in quale fase ed in quale atto del giudizio di merito la questione sia stata sollevata (cfr. Cass., Sez.
VI, 13/12/2019, n. 32804; Cass., Sez. II, 24/01/2019, n. 2038; 9/08/2018, n. 20694).
E’ infine inammissibile il quinto motivo, riguardante l’illegittimo recesso dell’Amministrazione dal contratto di appalto.
La sentenza impugnata ha infatti escluso la configurabilità di un recesso, richiamando l’art. 14 del contratto, il quale, a differenza del bando di gara, che fissava in tre anni la durata del rapporto, attribuendo alla Regione la facoltà insindacabile di interrompere il servizio dopo il primo o il secondo anno, in caso di mancato rifinanziamento del relativo capitolo di bilancio, prevedeva una durata di sessanta giorni, corrispondente alla stagione estiva dell’anno 1997, ed escludendo quindi che l’appaltatrice potesse riporre un legittimo affidamento in ordine alla continuazione della prestazione del servizio nell’anno successivo.
Nel ribadire la tesi dell’illegittima interruzione del rapporto, la ricorrente insiste sulla durata triennale dello stesso, proponendo quindi nuovamente una interpretazione del contratto diversa da quella emergente dalla sentenza impugnata, ma omettendo di indicare i criteri ermeneutici dalla stessa violati o le lacune argomentative o le incongruenze del ragionamento dalla stessa seguito per giungere alla decisione, e limitandosi ad invocare le previsioni del bando di gara e del capitolato speciale, puntualmente prese in considerazione dalla Corte territoriale, che le ha ritenute irrilevanti a fronte della diversa formulazione del contratto, individuata come fonte esclusiva dei diritti e degli obblighi assunti dalle parti. Inconferente risulta pertanto il richiamo ai principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., i quali costituiscono regulae juris di carattere generale codificate con esclusivo riferimento alla fase delle trattative precontrattuali ed all’interpretazione ed esecuzione del negozio, e non anche con riguardo al contenuto dello stesso, nel senso che, fatta eccezione per l’eventualità che la violazione di detti doveri si trovi ad integrare anche una delle
specifiche ipotesi previste in tema di nullità o annullabilità dei contratti, i contraenti possono comporre i loro contrapposti interessi concordando liberamente il contenuto negoziale, senza poi potere, proprio in ragione di tale libertà, invocare, a stipulazione avvenuta, l’asserita contrarietà di una o più delle clausole convenute ai doveri in questione (cfr. Cass., Sez. II, 27/11/2009, n. 25047; Cass., Sez. lav., 4/01/2000, n. 23; Cass., Sez. III, 30/12/1997, n. 13131).
14. Il ricorso principale va pertanto dichiarato inammissibile, mentre il ricorso incidentale va rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente, in qualità di principale soccombente, al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, , se dovuto da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e il ricorso incidentale dal comma 1bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma il 28/11/2023