Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 21429 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 21429 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 31/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26319 R.G. anno 2020 proposto da:
COGNOME NOME, RAGIONE_SOCIALE e COGNOME NOME, i primi due quali soci e il terzo quale socio e liquidatore di RAGIONE_SOCIALE , rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME;
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME , domiciliata presso ques t’ultimo ;
contro
ricorrente avverso la sentenza n. 457/2020 della Corte di appello di Salerno, pubblicata il 4 maggio 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 31 maggio 2024
dal consigliere relatore NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
─ Con citazione notificata il 16 marzo 2006 RAGIONE_SOCIALE ha convenuto in giudizio innanzi al Tribunale di Salerno Banca RAGIONE_SOCIALE s.p.a., con la quale aveva intrattenuto un rapporto di conto corrente bancario nel corso del quale ha dedotto essere stati applicati interessi ultralegali e anatocistici, oltre che spese e competenze non dovute. Ha domandato quindi l’accertamento dell ‘ illegittimità delle clausole che regolavano tali addebiti e la condanna di controparte alla restituzione delle somme riscosse senza titolo.
In esito al giudizio di primo grado, in cui si è costituita la banca convenuta, il Tribunale ha respinto le domande attrici.
2 . ─ In sede di gravame la pronuncia di rigetto è stata confermata dalla Corte di appello di Salerno.
Contro la sentenza resa di tale Corte la società, a mezzo dei suoi soci e del suo liquidatore, ricorre per cassazione facendo valere due motivi di impugnazione. RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso. Vi sono memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Col primo motivo si fa valere il vizio dell’art. 360, n. 5, c.p.c. in relazione alle norme del d.lgs. n. 385/1993 e all’art. 2697 c.c.. La Corte di merito – si assume – avrebbe erroneamente ritenuto che il contratto di apertura di credito non esistesse e comunque dovesse considerarsi nullo per carenza del requisito di forma; viene rilevato che il detto requisito non doveva essere osservato in quanto il contratto aveva la sua regolamentazione in quello di conto corrente. Dai prospetti redatti dal consulente tecnico – spiega p arte ricorrente -risultava che la società correntista aveva utilizzato somme della banca per importi molto ingenti in un periodo di almeno dieci anni, senza che l’istituto di credito avesse contestato tale comportamento o assunto iniziative in
danno della società stessa. Si deduce che, in conseguenza, si era in presenza di un fido di fatto il cui limite era da individuarsi nel massimo scoperto: in conseguenza, ogni rimessa effettuata sul conto doveva ritenersi ripristinatoria della provvista.
Col secondo mezzo si lamenta la violazione degli artt. 100 c.p.c., 2934 e 2935 c.c.. Viene rilevato che, stante l’esistenza dell’apertura di credito, il dies a quo del termine prescrizionale coincideva con la chiusura del conto, avvenuta nell’anno 2003, e non con la data di annotazione delle singole rimesse.
2. Parte ricorrente contesta, in sintesi, il giudizio espresso dalla Corte di appello, la quale ha escluso che sul conto corrente siano affluite rimesse ripristinatorie. La circostanza, come è noto, assume rilievo ai fini della prescrizione in quanto con riguardo alle azioni di ripetizione di indebito del correntista tale prescrizione decorre, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati; nell’anzidetta ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte del solvens con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell’ accipiens (Cass. Sez. U. 2 dicembre 2010, n. 24418, in motivazione).
La natura ripristinatoria dei versamenti è argomentata sulla scorta di una consolidata giurisprudenza, secondo cui, in sintesi, in forza della delibera del CICR del 4 marzo 2003, il contratto di apertura di credito, qualora risulti già previsto e disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto, non deve, a sua volta, essere stipulato per iscritto a pena di nullità (cfr.: Cass. 9 luglio 2005, n.
14470; Cass. 27 marzo 2017, n. 7763; Cass. 22 novembre 2017, n. 27836; Cass. 13 gennaio 2022, n. 926).
E’ da osservare, per la verità, che la Corte di mer ito non ha riscontrato la conclusione di contratti di apertura di credito privi della forma scritta: ha piuttosto rilevato non essere stata fornita alcuna prova circa l’affidamento in conto corrente (cfr. , in particolare, pag. 6 della sentenza impugnata), precisando, poi, che tale prova incombeva su chi aveva inteso far valere l’esistenza del detto affidamento (sentenza, pag. 7). In tal senso, l’evocazione della richiamata disciplina di cui alla delibera CICR appare non concludente: alla ratio decidendi dell’impugnata pronuncia risulta estraneo il tema della documentazione dell’ apertura di credito.
La questione vertente sull’ accertamento probatorio del nominato contratto è sollevata col primo motivo di ricorso, in cui si denuncia l’omesso esame di fatto decisivo.
Al riguardo deve osservarsi quanto segue.
Ai fini della rituale deduzione della censura di cui all’art. 360, n. 5. c.p.c. chi ricorre per cassazione ha l’onere, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, n. 6, e 369, n. 4, c.p.c., di indicare il «fatto storico», il cui esame sia stato omesso, il «dato», testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il «come» e il «quando» tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua «decisività», fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415). Ebbene, il fatto storico de ll’apertura di credito è stato preso in considerazione dalla Corte di appello, ma la prova di esso è stata ritenuta insussistente. Dedurre che tale fatto emergerebbe da alcuni
prospetti redatti dal consulente tecnico significa attribuire rilievo non già all’omesso esame del fatto, ma al giudizio (asseritamente errato) che sarebbe stato formulato dalla Corte di appello quanto l’inesistenza di esso.
Tale rilievo è assorbente. Si deve tuttavia rilevare che la censura è pure carente di autosufficienza, in quanto la parte ricorrente omette di riprodurre gli stralci dell’elaborato su cui fonda il proprio assunto. Infatti, la parte, che si duole di carenze o lacune nella decisione del giudice di merito che abbia basato il proprio convincimento disattendendo le risultanze degli accertamenti tecnici eseguiti, è tenuta ad indicare, riportandole per esteso, le pertinenti parti della consulenza ritenute erroneamente disattese ed a svolgere concrete e puntuali critiche alla contestata valutazione (Cass. 3 dicembre 2020, n. 27702; Cass. 30 agosto 2004, n. 17369).
Il primo motivo è dunque inammissibile.
Lo è anche il secondo: tale mezzo deve ritenersi carente di decisività, dal momento che non ha consistenza autonoma, ma si fonda su di un dato – l’ erroneità del dictum del Giudice di appello circa l’ inesistenza dell ‘apertura di credito che è stato vanamente confutato col primo motivo di impugnazione.
3 . -Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.
– Le spese del giudizio di legittimit à seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte
dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte dei ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione