Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 925 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 925 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22330/2019 R.G. proposto da
CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA FORENSE, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dal Prof. Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Presidente p.t., in qualità di avente causa dell’RAGIONE_SOCIALE, a sua volta succeduta a RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 192/19, depositata l’11 gennaio 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 ottobre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’RAGIONE_SOCIALE, agente della riscossione per la Provincia di Biella, convenne in giudizio la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, proponendo opposizione al decreto ingiuntivo n. 22106/10, con cui il Tribunale di Roma le aveva intimato il pagamento della somma di Euro 2.473,92, oltre interessi, a seguito del riversamento soltanto parziale degl’importi dovuti dagl’iscritti, ed avviati alla riscossione con i ruoli principali emessi nell’anno 1999.
A sostegno dell’opposizione, l’attrice eccepì il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario, l’incompetenza del Giudice adìto, l’intervenuta proroga dei termini per la presentazione delle comunicazioni d’inesigibilità di cui all’art. 19, comma secondo, lett. c) , del d.lgs. 13 aprile 1999, n. 112, l’erroneità dell’importo richiesto e l’omessa valutazione dei provvedimenti di sgravio e rimborso.
Si costituì la CNPAF, e resistette all’opposizione, chiedendone il rigetto.
1.1. Con sentenza del 3 febbraio 2015, il Tribunale di Roma rigettò l’opposizione.
L’impugnazione proposta dall’RAGIONE_SOCIALE in qualità di avente causa dell’Equitalia Sestri, è stata accolta dalla Corte d’appello di Roma, che con sentenza dell’11 gennaio 2019 ha revocato il decreto ingiuntivo, rigettando l’appello incidentale condizionato proposto dalla CNPAF.
A fondamento della decisione, la Corte ha escluso la spettanza della controversia alla giurisdizione contabile, evidenziando la natura di fondazione di diritto privato attribuita alla CNPAF dall’art. 1 del d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e ritenendo irrilevanti la sottoposizione della stessa a vigilanza ministeriale ed al controllo della Corte dei conti, in quanto giustificata dalla rilevanza pubblicistica e costituzionale della sua attività, la sua inclusione nel conto consolidato elaborato dall’Istat ai sensi dell’art. 1, comma quinto, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 e dell’art. 1, comma terzo, della legge 31 dicembre
2009, n. 196, in quanto rispondente a logiche di tipizzazione imposte dalla normativa comunitaria, e la natura pubblica della contribuzione, in quanto inerente alle finalità istituzionali della Cassa e riguardante esclusivamente il rapporto previdenziale con gl’iscritti.
Nel merito, premesso che la legge 24 dicembre 2012, n. 228 ed il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 15 giugno 2015 avevano disposto l’annullamento delle quote ed il discarico dell’agente per tutti i ruoli anteriori al 31 dicembre 1999, escludendo la trasmissione delle comunicazioni d’inesigibilità e dello stato delle procedure di riscossione, ha rilevato che l’Equitalia aveva trasmesso alla Cassa l’elenco delle quote annullate, ivi comprese quelle che costituivano oggetto della controversia, ritenendo conseguentemente inapplicabili gli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 112 del 1999. Precisato inoltre che le norme richiamate non distinguevano tra i ruoli attinenti a crediti consegnati da soggetti pubblici o destinatari di finanziamenti pubblici e quelli concernenti crediti vantati da soggetti privati, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della legge n. 228 del 2012, per violazione degli artt. 3 e 42 Cost., ritenendo non irragionevole la scelta compiuta dal legislatore, in quanto volta a favorire la razionalizzazione dei bilanci degli enti, mediante la rottamazione del sistema di riscossione a mezzo ruolo relativamente ai ruoli più risalenti, e non incidente sull’esistenza dei crediti sottostanti, relativamente a quelli d’importo superiore ad Euro 2.000,00, ed ancorata ad una valutazione di non convenienza della riscossione, relativamente ai crediti d’importo inferiore, in considerazione del presumibile rapporto negativo tra i costi ed i benefici della riscossione.
Avverso la predetta sentenza la CNPAF ha proposto ricorso per cassazione, articolato in sei motivi. Ha resistito con controricorso, illustrato anche con memoria, l’A.D.E.R. -Agenzia delle entrate -Riscossione, succeduta all’Equitalia Nord.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 1, commi 527 be 529, della legge n. 228 del 2012, dell’art. 1 del d.m. 15 giugno 2015, degli artt. 1 e 2 del d.lgs.
n. 509 del 1994, dell’art. 17 del d.lgs. n. 112 del 1999 e degli artt. 3, 35, primo comma, 36, primo comma, 38, 42, terzo comma, 97, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., anche in relazione all’art. 6 della CEDU, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la legge n. 228 cit. abbia disposto soltanto l’annullamento dei ruoli affidati ai concessionari, senza considerare che, per i ruoli d’importo inferiore ad Euro 2.000,00, l’effetto caducatorio coinvolge anche i crediti degli enti impositori, comportando l’azzeramento di una parte del loro attivo patrimoniale, indipendentemente dall’ascrivibilità dell’annullamento ad una condotta negligente dell’incaricato della riscossione. Sostiene che, per tale motivo, le norme in esame non possono considerarsi applicabili agli enti previdenziali privatizzati, la cui attività, pur avendo mantenuto connotati pubblici, legati alla dimensione sociale degli interessi perseguiti, risponde a un modello operativo coerente con un’entità squisitamente privata, chiamata a fare affidamento sulle sole entrate contributive per la soddisfazione delle proprie esigenze finanziarie, con piena autonomia organizzativa, gestionale e contabile, senza poter fruire di alcun genere di contribuzione pubblica, neppure indiretta. Premesso che l’annullamento dei ruoli si traduce in un condono occulto a favore degli agenti della riscossione, i quali, oltre ad essere dispensati dai relativi oneri, posti a carico degli enti impositori, hanno diritto al rimborso delle spese sostenute per l’esazione infruttuosa dei crediti, afferma che tale disciplina comporta un’indebita ingerenza dello Stato negli equilibri finanziari della Cassa, in contrasto con l’autonomia della stessa e con la logica del sistema previdenziale, fondato sulla capitalizzazione dei contributi versati dagl’iscritti. Aggiunge che l’estensione della stessa agli enti previdenziali privatizzati produce conseguenze irragionevoli, non tenendo conto dell’affidamento dagli stessi riposto sul sistema previgente, fondato sul meccanismo dell’inesigibilità previsto dagli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 112 del 1999, e delle ripetute proroghe dei termini fissati per l’invio delle relative comunicazioni, e sacrificando gl’interessi degli enti creditori, cui è impedito il monitoraggio delle attività di riscossione, in contrasto con il principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione e con i principi del giusto processo.
1.1. Il motivo è infondato.
La questione concernente l’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 1, commi 527-529, della legge n. 228 del 2012 alla CNPAF è stata già affrontata da questa Corte, e risolta mediante l’enunciazione del principio, che il Collegio condivide ed intende ribadire anche in questa sede, secondo cui le predette disposizioni, ispirate ad un’esigenza di razionalizzazione dei bilanci di tutti gli enti creditori (indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli stessi), non pongono alcuna distinzione tra ruoli attinenti a crediti consegnati da soggetti pubblici o comunque da soggetti istituzionalmente beneficiari di finanziamenti pubblici e ruoli concernenti invece crediti vantati da soggetti privati: esse si riferiscono infatti indistintamente a tutti i crediti iscritti in ruoli resi esecutivi sino al 31 dicembre 1999, ed escludono la possibilità di procedere ulteriormente alla riscossione degli stessi mediante ruolo, sulla base di una valutazione rispondente ad evidenti criteri di ragionevolezza, in quanto fondata sull’epoca risalente dell’iscrizione a ruolo e, per i crediti di valore inferiore ad Euro 2.000,00, sull’antieconomicità della riscossione, i cui costi sono stati reputati superiori ai benefici (cfr. Cass., Sez. III, 26/07/2021, n. 21386; 20/ 11/2020, n. 26531; 9/05/2019, n. 12229). Le norme in esame sono pertanto applicabili anche ai crediti della CNPAF, la quale, nonostante la privatizzazione, rimane un ente deputato allo svolgimento di una funzione pubblica, cui lo Stato ha eccezionalmente concesso di procedere alla riscossione dei propri crediti a mezzo del ruolo, cioè attraverso un sistema normalmente riservato agli enti pubblici, con la conseguenza che lo stesso legislatore può legittimamente disciplinare le modalità della riscossione, imporre limiti alla stessa, o, come avvenuto nella specie, non consentire più la riscossione con tale sistema per i crediti più risalenti.
E’ stato altresì precisato che il comma 527 dell’art. 1, nella parte in cui prevede, per i ruoli relativi ai crediti di valore inferiore ad Euro 2.000,00, l’annullamento dei crediti e l’eliminazione dalle scritture contabili, dev’essere interpretato (non diversamente dal comma 528, riguardante i ruoli relativi ai crediti di valore superiore al predetto importo) nel senso che l’esclusione della possibilità di procedere ulteriormente alla riscossione a mezzo ruolo comporta unicamente il venir meno del titolo esecutivo, costituito dal ruolo, e non anche l’estinzione del diritto di credito: in tal senso depongono infatti le finalità per-
seguite dal legislatore con la disciplina in esame, configurabile non già come un provvedimento ablatorio nei confronti di enti cui lo Stato non contribuisce neppure in via indiretta, ma come un intervento di riorganizzazione del servizio di riscossione a mezzo dei ruoli. Nessun rilievo può assumere, in contrario, l’espressa previsione dell’eliminazione dei predetti crediti dalle scritture contabili dell’ente, la quale, oltre a costituire un effetto già altre volte contemplato in caso di discarico dal ruolo, riveste una valenza esclusivamente contabile, in funzione dell’esigenza, correlata al sistema contabile europeo, di fornire una realistica esposizione dello stato patrimoniale ed economico dello ente, evitando che crediti persistentemente insoluti possano venire ad alterarne i bilanci di esercizio, quali poste soltanto virtuali iscritte all’attivo, in contrasto con il criterio di veridicità dei bilanci (cfr. Cass., Sez. III, 20/11/ 2020, n. 26531; 19/06/2020, n. 11972). Anche per i ruoli relativi ai crediti di valore inferiore ad Euro 2.000,00 vale dunque la considerazione, svolta in riferimento a quelli riguardanti i crediti di valore superiore al predetto importo, secondo cui l’annullamento del ruolo non coincide con l’estinzione del credito sottostante, che ben potrà essere successivamente azionato in proprio dall’ente creditore, con gli strumenti di tutela ordinariamente apprestati dallo ordinamento per i soggetti privati (cfr. Cass., Sez. III, 9/05/2019, n. 12229).
E’ pertanto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme in esame, sollevata dalla ricorrente sia in relazione alla previsione di un’espropriazione senza indennizzo dei crediti da essa vantati nei confronti dei propri iscritti e dell’idoneità di tale intervento a incidere sullo equilibrio finanziario dell’ente, sia in relazione alla disparità di trattamento introdotta tra i crediti delle casse previdenziali e quelli dell’Unione Europea, per i quali resta confermata l’operatività del sistema di riscossione a mezzo ruolo, anche se risalenti. Non merita consenso neppure la censura di violazione dell’art. 117 Cost., sollevata in riferimento all’art. 6 della CEDU, sotto il profilo dell’irragionevole incidenza delle disposizioni in esame sulla posizione di parità delle parti nei giudizi in corso, non configurandosi le stesse come un intervento isolato ed inaspettato rispetto ad un quadro normativo idoneo ad ingenerare nelle parti un ragionevole affidamento in ordine alla sua immutabilità, ma come uno stadio ulteriore di un percorso normativo avviato fin dal
1999 con la riforma del sistema di riscossione a mezzo ruolo, e proseguito con la sostituzione dell’organizzazione di carattere pubblicistico degli agenti della riscossione ai rapporti di concessione precedentemente intrattenuti dagli enti creditori con società private (cfr. Cass., Sez. III, 20/11/2020, n. 26531; 19/06/2020, n. 11972).
Tali conclusioni, più volte ribadite dalla giurisprudenza di legittimità, non appaiono suscettibili di rimeditazione alla stregua dello jus superveniens rappresentato dall’art. 1, commi 222-252, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, richiamato in memoria dalla ricorrente, che ha previsto un analogo meccanismo di annullamento automatico dei debiti iscritti nei ruoli affidati agli agenti della riscossione, con corrispondente discarico di questi ultimi: tale disposizione si riferisce infatti ad una fattispecie diversa da quella in esame, ovverosia ai debiti d’importo residuo fino a Euro 1.000,00 «risultanti dai singoli carichi affidati agli agenti della riscossione dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015», e, prevedendo espressamente un trattamento diversificato tra enti erariali (amministrazioni statali, agenzie fiscali ed enti pubblici previdenziali) ed enti non erariali (per i quali l’operatività di tale meccanismo resta subordinata ad un’apposita delibera dell’ente), non contemplato dall’art. 1, commi 527-529, della legge n. 228 del 2012, conferma indirettamente la validità dell’interpretazione di quest’ultima disposizione fornita dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., Sez. III, 9/08/2023, n. 24313).
2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 1, commi 527 e 529, della legge n. 228 del 2012, dello art. 2 del d.m. 15 giugno 2015, degli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 509 del 1994, dell’art. 17 del d.lgs. n. 112 del 1999 e degli artt. 3, 35, primo comma, 36, primo comma, 38, 42, terzo comma, 97, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., anche in relazione all’art. 6 della CEDU, osservando che, anche per i ruoli d’importo superiore ad Euro 2.000,00, l’annullamento del titolo esecutivo si traduce sostanzialmente in un annullamento del credito, non essendo l’ente impositore in possesso della documentazione idonea a comprovare l’interruzione del termine di prescrizione, avente durata quinquennale, e la legittimità degli atti già compiuti dall’agente della riscossione, ed essendo venuta meno la possibilità di rivalersi nei confronti di quest’ultimo. Afferma
infatti che la legge n. 228 del 2012, sopravvenuta in corso di causa, ha fatto seguito a disposizioni che avevano ripetutamente prorogato i termini per l’invio delle comunicazioni di inesigibilità, in tal modo impedendo agli enti creditori di avere conoscenza dei risultati della riscossione per i ruoli insoluti, e quindi di far valere la responsabilità dei concessionari.
2.1. Il motivo è infondato.
Rinviando a quanto già si è detto con riguardo all’inidoneità dell’annullamento dei ruoli a determinare l’estinzione dei crediti affidati all’agente della riscossione ed alla conseguente facoltà dell’ente creditore di procedere all’esazione con gli ordinari strumenti di tutela, si osserva che, ai fini del sindacato di legittimità, non possono assumere rilievo gli ostacoli di mero fatto prospettati dalla CNPAF in relazione al tempo trascorso dalla maturazione dei crediti ed all’indisponibilità della documentazione relativa all’attività svolta: tali inconvenienti, come già rilevato da questa Corte, confermano semmai la validità del fine perseguito dalla legge di riforma, volta ad escludere la riscossione a mezzo ruolo per crediti che ormai possono considerarsi esistenti soltanto in apparenza e la cui persistenza contabile potrebbe falsare i risultati di bilancio dell’ente creditore , che per anni ha trascurato di attivarsi per richiedere informazioni e sollecitare gli adempimenti finalizzati alla riscossione, nonostante l’inottemperanza del concessionario o dell’agente agli obblighi di trasmissione dei risultati delle attività di esazione (cfr. Cass., Sez. III, 23/08/ 2023, n. 25136; 25/08/2023, n. 25303; 20/11/2020, n. 23651; 19/06/2020, n. 11972). Tale inerzia è stata ritenuta configurabile non solo in riferimento all’inosservanza dei termini previsti dall’art. 19, comma secondo, lett. c) , del d.lgs. n. 112 del 1999 per l’invio delle comunicazioni di esigibilità, che (come si dirà in seguito) sono stati ripetutamente prorogati fino all’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, ma anche in riferimento alla mancata comunicazione dello stato delle procedure, da inviarsi con cadenza annuale ai sensi dell’art. 19, comma secondo, lett. b) , del d.lgs. n. 112 cit., che costituiva anch’essa causa di perdita del diritto al discarico.
Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., rilevando che, nell’accertare l’annullamento dei ruoli, la Corte d’appello ha rilevato d’ufficio l’avvenuta
trasmissione dell’elenco delle quote rottamate, non avendo l’Equitalia mai allegato né provato l’invio dello stesso.
Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., sostenendo che, nel ritenere dimostrata la trasmissione dell’elenco delle quote rottamate, la sentenza impugnata è incorsa in un errore percettivo nella ricognizione del contenuto oggettivo della prova, non avendo l’Equitalia mai prodotto il documento in questione.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono inammissibili.
Ai fini dell’accertamento del diritto al discarico, la sentenza impugnata ha fatto ricorso ad un duplice ordine di considerazioni, non essendosi limitata a ritenere provata la trasmissione dell’elenco delle quote rottamate, ma avendo aggiunto che la legge n. 228 del 2012 ha previsto in ogni caso il discarico automatico degli agenti della riscossione, giacché a nessuno dei ruoli resi esecutivi entro il 31 dicembre 1999 si applicano gli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 112 del 1999. Quest’ultimo rilievo, configurabile come una distinta ratio decidendi , in quanto autonomamente idoneo a sorreggere la statuizione adottata, non risulta in alcun modo attinto dalle censure proposte dalla ricorrente, la quale non ha pertanto interesse all’impugnazione del primo, il cui annullamento non potrebbe condurre in alcun caso alla cassazione della decisione impugnata, stante la definitività dell’altro (cfr. Cass., Sez. V, 11/05/2018, n. 11493; Cass., Sez. I, 27/07/2017, n. 18641; Cass., Sez. lav., 4/03/2016, n. 4293).
Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto assorbite le questioni sollevate con l’appello incidentale, aventi carattere pregiudiziale, in quanto riflettenti l’avvenuto consolidamento dei rapporti di dare e avere tra le parti, per effetto della scadenza dei termini fissati per l’invio delle comunicazioni d’inesigibilità. Premesso infatti che le proroghe previste dall’art. 59, comma 4ter , del d.l. 29 novembre 2004, n. 282 e dall’art. 3, comma trentaseiesimo, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203,
oltre ad essere intervenute successivamente alla scadenza dei predetti termini, non erano state seguite da ulteriori proroghe, sostiene che l’inosservanza dei termini aveva comportato il definitivo esaurimento dei relativi rapporti.
Con il sesto motivo, la ricorrente lamenta la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., rilevando, in subordine, che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciare in ordine alla questione riguardante l’intervenuto consolidamento dei rapporti tra la Cassa e l’agente della riscossione.
I due motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi anch’essi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono infondati.
La sentenza impugnata non ha affatto omesso di pronunciare in ordine all’appello incidentale, né lo ha dichiarato assorbito, ma lo ha espressamente esaminato, dichiarandolo infondato, in virtù dell’osservazione che l’art. 1, comma 529, della legge n. 228 del 2012 aveva escluso l’applicabilità degli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 112 del 1999 a tutti i crediti iscritti in ruoli resi esecutivi fino al 31 dicembre 1999.
Tale rilievo, implicando logicamente che alla data di entrata in vigore della legge n. 228 del 2012 fossero ancora in corso i termini per l’invio delle comunicazioni d’inesigibilità, trova conforto nell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, la quale ha ritenuto che i predetti termini fossero stati ripetutamente prorogati fino alla predetta data, senza soluzione di continuità: nello esaminare le proroghe dei predetti termini, disposte dal legislatore in funzione del riordino del sistema organizzativo della riscossione a mezzo dei ruoli, questa Corte ha infatti distinto tra quelle c.d. generiche, applicabili ai vecchi concessionari nazionali o ai soggetti dagli stessi eventualmente scaturiti, e quelle c.d. specifiche, riguardanti la Riscossione S.p.a. e le società da essa partecipate, cui è succeduta l’Agenzia delle Entrate -Riscossione, rilevando che, mentre le prime, disposte attraverso la modifica dell’art. 59 del d.lgs. n. 112 del 1999, sono perdurate fino al 30 giugno 2006, per effetto dell’introduzione del comma 4quater ad opera del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, le altre, applicabili nel caso in esame, sono proseguite ininterrottamente per effetto delle continue
modifiche dell’art. 3, comma dodicesimo, del d.l. n. 203 del 2005, volte ad evitare che le disfunzioni nell’attività di riscossione risalenti alle gestioni private si riverberassero a danno del pubblico erario (cfr. Cass., Sez. VI, 1/03/ 2022, n. 6767; Cass., Sez. III, 19/06/2020, n. 11972; v. anche Corte cost., sent. n. 51 del 2019).
Il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 19/10/2023