Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 4080 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 4080 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: TRICOMI IRENE
Data pubblicazione: 17/02/2025
SENTENZA
sul ricorso 14894-2024 proposto da:
REGIONE PUGLIA, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avv. NOME ed elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
COGNOME nella qualità di erede di NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata presso il medesimo difensore in ROMA, INDIRIZZO c/o dr. NOME COGNOME
– controricorrente –
NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME nella qualità di eredi di NOME COGNOME
-Intimati-
INPS in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME ED NOME COGNOME, con domicilio eletto in ROMA, INDIRIZZO presso l’Avvocatura centrale dell’Istituto
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 655/2024 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 20/05/2024 R.G.N. 773/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME udito il Procuratore Generale in persona dell’Avvocato generale NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Foggia ha accolto il ricorso proposto dall’odierna controricorrente e altri, tutti nella qualità di eredi di NOME COGNOME (ex dipendente della Regione Puglia deceduto il 4 gennaio 2011), in quanto destinatari della richiesta, azionata dalla Regione Puglia datrice di lavoro del dante causa, con missiva del 31 gennaio 2019, di restituzione di somme per un importo complessivo di euro 143.840,11, oltre accessori di legge, e ha dichiarato che gli eredi non erano tenuti a restituire alla Regione Puglia la somma richiesta.
L’odierna controricorrente e gli altri eredi, che notificavano il ricorso anche all’INPS, rimasto contumace, affinché fosse dichiarata l’intangibilità del trattamento previdenziale percepito, nell’adire il Tribunale, avevano premesso:
che il dante causa era stato un dipendente della Regione Puglia con rapporto di lavoro a tempo indeterminato risolto consensualmente in data 9 gennaio 2003 ai sensi dell’art. 28 legge della Regione Puglia n. 7/2002 con la qualifica dirigenziale;
che dalla suddetta data del 9.1.2003 NOME COGNOME aveva percepito il trattamento pensionistico sino al decesso avvenuto il 4.1.2011;
che in data 31.01.2019 era pervenuta richiesta da parte della Regione Puglia di restituzione della somma pari ad euro 143.840,11, richiesta che richiamava la determina regionale n 1246 del 15.11.2018 con cui si faceva riferimento alla sentenza del Consiglio di Stato n. 4888/2013, dalla quale era derivato nei confronti del dante causa NOME COGNOME il ripristino dell’inquadramento giuridico nell’ex VIII q.f. in luogo della dirigenziale con rideterminazione delle somme retributive spettanti.
Ad avviso degli eredi la risoluzione del rapporto intervenuta il 9.1.2003 con la qualifica dirigenziale, aveva determinato la irretrattabilità del già menzionato inquadramento, essendosi determinata la novazione del rapporto.
Alla domanda principale di dichiarare che essi coeredi non erano tenuti a restituire alla Regione Puglia la somma richiesta, avevano aggiunto le domande subordinate e nell’ordine gradate: di applicazione dell’art. 2126, cc; di irripetibilità delle somme pe r intervenuta prescrizione; infine, di eventuale recupero delle somme dovute con modalità tali da non incidere gravemente sui ‘primari bisogni di essi ricorrenti’.
Il Tribunale, nell’accogliere la domanda, ha affermato, sulla base dell’interpretazione complessiva e logico -sistematica delle clausole contrattuali, che il contratto di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, per un verso, ha considerato acquisita la qualifica dirigenziale del Casoli sul cui presupposto è stata data esecuzione alla fattispecie normativa dell’incentivo all’esodo di cui all’art. 28 della legge reg. n. 7/2002 e, per altro verso, è stato espressamente ritenuto dalle parti non revocabile.
Quindi, in definitiva, il giudice di primo grado ha ritenuto che le parti avessero inteso dare corso alla volontà estintiva del rapporto di lavoro tenendo conto solo della qualifica dirigenziale del Casoli con l’effetto finale che detto accordo sarebbe risultato insensibile all’esito del contenzioso amministrativo concluso con la sentenza del Consiglio di Stato n. 4888/2013. Insensibilità evidenziata dalla previsione della non revocabilità dell’accordo il cui presupposto era la qualifica dirigenziale del Casoli, come si è detto.
La Regione proponeva appello. Nella comparsa di costituzione gli eredi ribadivano la domanda principale e quelle gradate nonché la richiesta di dichiarare l’intangibilità del trattamento di buonuscita e previdenziale attribuito all’ex dipendente deceduto NOME COGNOME e, quindi, dei conseguenti benefici a tale titolo spettanti agli appellati.
Il giudice di appello ha respinto il gravame. Ad avviso della Corte di appello, erano del tutto inconferenti i richiami operati dalla Regione all’art. 2033, cod. civ., posto che l’azione proposta dagli ex dipendenti non era diretta a contrastare la pretesa restitutoria avanzata dall’amministrazione, ma era finalizzata ad ottenere l’affermazione del loro diritto al mantenimento della qualifica dirigenziale del de cuius nonostante l’esito sfavorevole del giudizio relativo alla pretesa di partecipare al concorso interno. E tanto, come agevolmente rilevabile dalla lettura delle conclusioni rassegnate nel
ricorso introduttivo del giudizio, non scalfiva la ratio decidendi del primo Giudice che aveva correttamente individuato nell’interpretazione degli accordi risolutivi l’oggetto della controversia. Pertanto, secondo la Corte territoriale era non meritevole di accoglimento, perché estraneo al thema decidendum , anche il rilievo sul mancato svolgimento delle mansioni dirigenziali. La Corte stessa ha rilevato che l’unica argomentazione contenuta nell’atto di gravame che si confrontava con la ratio decidendi della sentenza appellata era quella che faceva leva sul fatto che, al momento della sottoscrizione dei rispettivi contratti di risoluzione del rapporto di lavoro, i dipendenti erano consapevoli dell’esistenza dell’impugnazione della sentenza del Tar Pugli a Lecce n. 7399/2001, e che comunque con la sottoscrizione degli accordi la Regione non aveva inteso prestare acquiescenza rispetto alla definitività della attribuzione della qualifica dirigenziale al dipendente.
Ha ritenuto, tuttavia, che l’argomento non fosse convincente in virtù delle condivisibili considerazioni già spese dal Tribunale di Bari nella sentenza appellata.
Ha evidenziato che nei contratti di risoluzione in questione -che si inseriscono nella procedura di ‘incentivazione all’esodo del personale’ disciplinata dall’art. 28 della l.r. Puglia n. 7 del 2002 la qualifica dirigenziale dei dipendenti, presupposto indefettibile per la presentazione dell’istanza di esodo, era da ritenere ‘definitivamente acquisita’.
Inoltre ha richiamato l’art. 2 del contratto e la prevista espressa irrevocabilità dell’accordo risolutivo («Il presente contratto non è soggetto a revoca ed esplica immediatamente la sua efficacia ai sensi degli artt. 1334 e 1335 c.c.») che non poteva non estendersi alla qualifica dirigenziale del personale sia perché mancava sul punto una clausola di riserva, sia perché la qualifica dirigenziale era elemento necessario della procedura di esodo sia ancora perché le parti,
quando avevano inteso sottoporre a revisione qualche aspetto dell’accordo, lo avevano fatto espressamente, come nel caso dell’indennità supplementare destinata ad incentivare l’esodo.
Né poteva avere rilievo il fatto che i dipendenti che avevano sottoscritto gli accordi risolutivi fossero consapevoli della pendenza, all’epoca, del giudizio d’appello relativo alla indicata sentenza del Tar Puglia Lecce in quanto i medesimi avevano fatto affidamento nella conservazione della qualifica dirigenziale.
Riteneva indubbio che la volontà delle parti (e dunque anche della Regione) fosse quella di rendere irrevocabile il contratto di risoluzione consensuale incentivata, il cui presupposto essenziale era proprio il possesso della qualifica dirigenziale che la Regione intendeva rimettere in discussione.
Nella specie, ad avviso della Corte territoriale, la nuova regolamentazione del rapporto intercorso fra le parti a seguito della norma sopravvenuta e dell’accordo risolutivo sottoscritto dalle medesime non poteva essere rivisitata alla luce della successiva sentenza del Consiglio di Stato, i cui effetti non erano idonei ad alterare il contenuto dell’assetto di interessi che le parti vollero dare al loro rapporto per effetto dell’entrata in vigore della disciplina di incentivazione all’esodo di cui hanno fru ito i dipendenti.
Avverso tale sentenza la Regione Puglia ha proposto ricorso nei confronti degli eredi di NOME COGNOME e dell’INPS, affidandolo a tre motivi.
NOME COGNOME nella qualità di erede del lavoratore, resiste con controricorso.
Gli altri eredi sono rimasti intimati.
L’Inps ha depositato procura per partecipare all’udienza ; all’udienza pubblica non è comparso.
Il Procuratore Generale ha presentato requisitoria scritta concludendo per l’accoglimento del ricorso.
La controricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso, nonché del primo motivo, sollevata dalla controricorrente.
Il ricorso è correttamente articolato, con riferimento alla ratio decidendi della sentenza impugnata, in conformità ai principi enunciati da questa Corte secondo cui il giudizio di cassazione è un rimedio a critica vincolata (v., Cass, n. 4905 del 2020, n. 6519 del 2019), e nel rispetto dei criteri di sufficienza e specificità. In particolare, va osservato che il primo motivo di ricorso è prospettato indicando le norme di legge di cui si deduce la violazione, che sono prese in esame e poste in relazione alla decisione di appello (cfr., Cass., S.U., n. 23745 del 2020). Occorre, inoltre considerare che l’esistenza di un giudicato, anche esterno, non costituisce oggetto di eccezione in senso tecnico, ma è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio anche d’ ufficio, senza che in ciò sia riscontrabile alcuna violazione dei principi del giusto processo (cfr., Cass., n. 12159 del 2011; Cass., n. 15627 del 2016).
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 35, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 165/2001.
Secondo parte ricorrente, ha errato la Corte d’Appello nel ritenere validi gli accordi risolutivi poiché l’annullamento della procedura di reclutamento per violazione di norme imperative costituisce causa di nullità dei contratti di lavoro sottoscritti in esito ad essa.
La sentenza impugnata è censurata stante l’omessa considerazione ai fini della risoluzione della controversia, dell’intervenuto annullamento, da parte della sentenza del Consiglio di Stato n. 4888 del 2013, della procedura concorsuale all’esito della quale gli originari ricorrenti erano stati inquadrati nella I qualifica dirigenziale.
Deduce la Regione Puglia che detto annullamento ha inevitabilmente comportato la nullità dei contratti di lavoro sottoscritti in esito alla stessa, come infatti sancito inequivocabilmente dal disposto dell’art. 35, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001.
In ragione di detta nullità, nemmeno a seguito della sottoscrizione dei contratti individuali di risoluzione del rapporto di lavoro, espressamente qualificati dalle parti come non revocabili, con cui in ipotesi la Regione avrebbe prestato acquiescenza rispetto alla pretesa di veder riconosciuta la qualifica da dirigente, si sarebbe potuto evitare l’effetto del giudicato amministrativo, comportante il travolgimento dell’attribuzione della superiore qualifica.
3. Il primo motivo di ricorso è fondato.
In modo condivisibile la Regione ricorrente richiama l’unanime giurisprudenza di legittimità che, in applicazione del precetto legislativo sopra richiamato, ha avuto modo di ribadire in plurime occasioni (v., da ult. Cass., n. 30922 del 2019) che ‘la proce dura concorsuale costituisce l’atto presupposto del contratto individuale del quale condiziona la validità, sicchè sia l’assenza, sia l’illegittimità delle operazioni concorsuali si risolvono nella violazione della norma inderogabile dettata dall’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001 e, rientrando nell’ambito di applicazione di portata generale del successivo art. 36, comportano la nullità del contratto individuale’ (v. anche Cass., n. 1307 del 2022).
Per altro verso (Cass., n. 4057 del 2021) si è sancito che ‘l’Amministrazione ha l’obbligo di concludere il procedimento di verifica dei requisiti di ammissione al concorso del candidato prima dell’immissione in ruolo del medesimo; tuttavia, l’accertamento successivo della mancanza dei predetti requisiti può eventualmente rilevare, se sussistono í presupposti dell’azione di danno, a fini risarcitori, ove il candidato abbia fatto affidamento sul comportamento dell’amministrazione, ma non può impedire a
quest’ultima, tenuta al rispetto della legalità, di recedere dal rapporto affetto da nullità – facendo così valere l’assenza di un vincolo contrattuale – per violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione, poste a tutela di interessi pubblici alla cui realizzazione deve essere costantemente orientata l’azione amministrativa’.
4. La sentenza del Consiglio di Stato n. 4888 del 2013 era, allora, vincolante e la Corte territoriale avrebbe dovuto conformarsi al suo decisum . Ciò, anche considerando che costituisce oggetto di giudicato la situazione di fatto che si pone come antecedente logico necessario della pronuncia resa sulla domanda dell’attore o sull’eccezione del convenuto; l’autorità del giudicato copre il fatto accertato anche in relazione ad ogni altro effetto giuridico che da esso ne derivi nell’ambito del rapporto obbligat orio tra le stesse parti (Cass. n. 28415 del 2017).
Nella specie, con la sentenza n. 4888 del 2013 il Consiglio di Stato, in riforma della sentenza del TAR Puglia n. 7399 del 2001, ha rigettato le domande con cui i dipendenti della Regione Puglia avevano impugnato il provvedimento della Commissione Governativa di controllo emesso in data 10.5.1990, che aveva disposto l’annullamento del provvedimento in data 12.4.1990 di riapertura dei termini per la partecipazione al concorso bandito dalla Regione Puglia con DPGR n. 314 del 7.7.1982 per il passaggio dal VI al VII livello, ex art. 95 legge regionale n. 18/1974; il de cuius aveva partecipato al concorso ed era risultato vincitore in base al provvedimento di riapertura dei termini.
Il Consiglio di Stato ha evidenziato la natura transitoria della previsione contenuta nell’art. 95 della legge regionale Puglia n. 18/1974 (successivamente abrogato dall’art. 5 della legge regionale n. 28/2000); ha inoltre precisato che il concorso interno per il passaggio al VII livello funzionale era riservato al personale regionale
immesso in ruolo già al VI livello in occasione del primo inquadramento, a nulla rilevando i successivi passaggi di livello eventualmente conseguiti, quand’anche disposti ex lege e con efficacia retroattiva, come avvenuto nella Regione Puglia.
Ha poi rilevato che secondo il bando erano legittimati a partecipare al suddetto concorso esclusivamente i dipendenti della Regione Puglia inquadrati nel ruolo regionale nel VI livello f. e f. alla data del 14.4.1980, in possesso alla stessa data di un’anz ianità complessiva di 5 anni di cui almeno 3 prestati presso la Regione Puglia, ed ha pertanto ritenuto legittimo l’annullamento, da parte della Commissione di controllo, della deliberazione n. 1903 del 12.4.1990, con cui la Giunta Regionale aveva riaperto per la terza volta i termini per la partecipazione al concorso.
5. La Corte territoriale, inoltre, ha totalmente ignorato la giurisprudenza di legittimità, per la quale, in tema di pubblico impiego privatizzato, l’annullamento di un concorso pubblico in autotutela, ai sensi dell’art. 21 -novies della legge n. 241 del 1990, per vizi di legittimità riscontrati dalla P.A. rispetto agli atti della selezione, determina la nullità originaria, rilevabile d’ufficio, sebbene accertata successivamente, del contratto di lavoro stipulato in esito alla conclusione del concorso stesso; nel giudizio instaurato dal lavoratore per la tutela del diritto soggettivo alla prosecuzione del rapporto conseguente a tale contratto il giudice ordinario ha il potere di disapplicare il provvedimento di annullamento solo se, ed in quanto, si ravvisino rispetto ad esso i vizi di legittimità propri degli atti amministrativi (Cass., n. 1307 del 2022).
Infatti, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, l’Amministrazione ha l’obbligo di concludere il procedimento di verifica dei requisiti di ammissione al concorso del candidato prima dell’immissione in ruolo del medesimo. L’accertamento successivo della mancanza dei predetti requisiti può eventualmente rilevare, se
sussistono í presupposti dell’azione di danno, a fini risarcitori, ove il candidato abbia fatto affidamento sul comportamento dell’amministrazione, ma non può impedire a quest’ultima, tenuta al rispetto della legalità, di recedere dal rapporto affetto da nullità facendo così valere l’assenza di un vincolo contrattuale – per violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione, poste a tutela di interessi pubblici alla cui realizzazione deve essere costantemente orientata l’azione amministrati va (Cass., n. 4057 del 2021).
6. Ne consegue che, in tema di costituzione del rapporto di lavoro, la nullità della procedura concorsuale per violazione di norme imperative costituisce causa di nullità dei contratti di lavoro sottoscritti in esito ad essa, indipendentemente dalla circostanza che i lavoratori abbiano dato causa al vizio o non ne abbiano avuto consapevolezza (Cass., n. 20416 2019), atteso che, in questo caso, si verificano una violazione della norma inderogabile dettata dall’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001, attuativo del principio costituzionale affermato dall’art. 97, comma 4, Cost. e, quindi, in applicazione del disposto, di portata generale, del successivo art. 36, una nullità del contratto individuale. (Cass., n. 30992 del 2019).
Pertanto, la Regione Puglia era tenuta, in esecuzione del giudicato amministrativo intervenuto, ad annullare l’inquadramento del controricorrente quale dirigente e a recuperare ciò che era stato da lui indebitamente percepito.
Neppure giustifica la decisione di appello l’accordo di risoluzione consensuale già menzionato.
L’art. 28, comma 1, della legge Regione Puglia n. 7 del 2002 prescrive che ‘Al fine di accelerare il processo di riorganizzazione dell’Amministrazione regionale, anche a seguito del trasferimento di funzioni e compiti in attuazione della legge 15 marzo 1997, n. 59 e della legge 15 maggio 1997, n. 127, in deroga a quanto previsto
dall’articolo 17 del Contratto collettivo nazionale di lavoro (C.C.N.L.) dell’Autonoma area della dirigenza del comparto regioni e Autonomie locali sottoscritto il 23 dicembre 1999, ai dirigenti titolari di rapporto di impiego a tempo indeterminato che, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, presentino all’Ente proposta per la risoluzione del rapporto di lavoro sarà erogata, subordinatamente all’accettazione della proposta medesima da parte dell’Ente, una indennità supple mentare pari a otto mensilità della retribuzione lorda spettante alla data della predetta risoluzione, per ogni anno derivante dalla differenza fra 65 anni e l’età anagrafica individuale, espressa in anni, posseduta alla data di cessazione del rapporto di lavoro, calcolati per un massimo di sei anni’.
Ciò non esclude, però, che l’Amministrazione, come ha fatto, una volta accertato giudizialmente in via definitiva che il presupposto di detto accordo non sussisteva (la qualifica dirigenziale), avesse il dovere di agire per ripristinare la legalità, atteso che la fattispecie prevista dalla legge regionale non si era perfezionata.
Infatti, nell’impiego pubblico contrattualizzato, il riconoscimento al lavoratore di un trattamento economico maggiore di quello previsto dalla contrattazione collettiva risulta essere affetto da nullità, con la conseguenza che la P.A., anche nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 97 Cost., è tenuta al ripristino della legalità violata mediante la ripetizione delle somme corrisposte senza titolo (Cass., n. 13479 del 2018).
D’altronde, gli atti di risoluzione consensuale, essendo espressione di volontà negoziale, sono tenuti al rispetto della vigente normativa e il mancato rispetto dei requisiti previsti dalla legislazione regionale citata li ha resi nulli per violazione di legge.
A maggior ragione deve giungersi a questa conclusione qualora si voglia valorizzare la sopravvenienza della sentenza del Consiglio di
Stato n. 4888 del 2013 e una natura transattiva dell’intesa finalizzata all’erogazione dell’incentivo.
L’intervenuta intesa negoziale, invero, non era stata resa nota al giudice amministrativo, con l’effetto che il venire meno della qualifica dirigenziale era avvenuto a prescindere da detto accordo, rendendolo, pertanto, del tutto irrilevante.
Tale intesa, in realtà, avrebbe dovuto essere presa eventualmente in considerazione dal giudice amministrativo, ma, non essendo questo avvenuto, essa non poteva prevalere sulla decisione del Consiglio di Stato, che aveva accertato, in via definitiva, la mancanza di legittimazione del controricorrente a partecipare alla procedura de qua.
Per quel che concerne la transazione, poi, la giurisprudenza tradizionale, ha chiarito che, nel caso in cui essa intervenga tra le parti di un giudizio, senza tuttavia che alcuna di esse ne deduca il sopravvenire ed il giudizio sia, quindi, definito con sentenza non impugnata e passata in giudicato, la situazione accertata dalla sentenza diviene intangibile e preclude ogni possibilità di rimettere in discussione questa situazione in un successivo giudizio e di apprezzare e rilevare il contenuto dell’accordo transattivo (Cass., Sez. 2, n. 2155 del 14 febbraio 2012; Cass., Sez. L, n. 20723 del 3 ottobre 2007; Cass., Sez. 1, n. 3026 del 15 febbraio 2005).
9. Le considerazioni svolte rendono evidente l’irrilevanza della mancanza di una riserva di efficacia dell’atto di risoluzione consensuale all’esito del contenzioso amministrativo, e dell’esclusione della revocabilità del medesimo accordo, che concerneva palesemente, stante il riferimento agli artt. 1334 e 1335, c.c., il semplice incontro delle volontà, ma non potevano sanare vizi genetici dell’intesa.
Chiariscono, altresì, come da detta intesa non potessero trarsi conseguenze quanto all’eventuale acquiescenza della Regione Puglia alla definitività degli inquadramenti dei dipendenti interessati.
10. Infine, non conforme a diritto è l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la citata normativa regionale e il successivo accordo di risoluzione consensuale rappresentavano ‘sopravvenienze giuridiche e fattuali idonee ad impedire l’esecuzione del giudicato’, quantomeno perché si trattava di eventi anteriori alla formazione dello stesso, comunque non idonei a rendere impossibile la concreta attuazione del comando del giudice amministrativo.
Per le ragioni esposte, la risoluzione consensuale non poteva incidere sulla successiva sentenza del Consiglio di Stato, in quanto la sua esistenza non era stata prospettata al giudice amministrativo. Allo stesso modo, la legge regionale non poteva avere valore, in assenza dei suoi presupposti di applicazione.
La riconosciuta nullità della procedura concorsuale travolge comunque la stipula dei contratti, senza che l’effetto possa essere vanificato dall’incontro della volontà delle parti contraenti espressesi in senso difforme. Si tratta infatti di materia che non è disponibile dalle parti contrattuali: deve infatti ribadirsi quello che è principio cardine della materia, per cui la pubblica amministrazione è sempre e comunque tenuta al rispetto della legalità, e in virtù di ciò è obbligata a recedere dal rapporto affetto da nullità per violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione, che sono poste a tutela di interessi pubblici alla cui realizzazione deve essere costantemente orientata l’azione amministrativa (v. Cass., n. 4057 del 2021, cit.).
Dalle ragioni sopra esposte deriva l’accoglimento del primo motivo di ricorso.
Con il secondo motivo la Regione denuncia l’errata valutazione ed interpretazione dei contratti di risoluzione consensuale. Parte
ricorrente evidenzia che la volontà di definire una situazione giuridica non può in alcun modo essere considerata implicita all’atto di risoluzione in parola, in quanto per poter avere sostanza giuridica ed esplicare i propri effetti la volontà deve essere manifesta, ossia oltre ogni ragionevole dubbio.
Con il terzo motivo parte ricorrente censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c., in quanto le mansioni dirigenziali sarebbero state esercitate solo di fatto e le somme oggetto di causa sarebbero state liquidate a decorrere dal 1° gennaio 1992.
Il secondo e il terzo motivo di ricorso sono assorbiti dall’accoglimento del primo motivo.
In accoglimento del primo motivo di ricorso la sentenza di appello va cassata con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione, atteso che il giudice del merito accogliendo erroneamente la domanda principale ha assorbito e non ha esaminato le domande proposte dai controricorrenti in via subordinata e gradata, che richiedono ulteriori accertamenti di fatto.
PQM
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri motivi. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio di cassazione alla Corte d’Appello di Bari in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro