Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 7360 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 7360 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 19/03/2025
ORDINANZA
sul l’istanza ricorso iscritto al n. 1668 R.G. anno 2021 proposto da:
Potenza NOME e NOMECOGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME e dall’avvocato NOME COGNOME
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME domiciliata presso l’avvocato NOME COGNOME
contro
ricorrente
nonché contro
BPER Banca s.p.a. RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME domiciliata presso l’avvocato NOME COGNOME
contro
ricorrente avverso la sentenza n. 2910/2020 depositata il 2 novembre 2020 della Corte di appello di Bologna.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 febbraio 2025
dal consigliere relatore NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
-Il Tribunale di Bologna ha respinto l’opposizio ne proposta da NOME COGNOME e NOME COGNOME quali fideiussori di RAGIONE_SOCIALE, avverso il decreto ingiuntivo emesso nei loro confronti su richiesta di Unipol Banca s.p.a. per l’importo di euro 171.424,84 oltre interessi; la domanda monitoria si fondava sull’esposizione debitoria relativa a due rapporti bancari (un conto corrente e un portafoglio commerciale composto da fatture oggetto di anticipazione) di cui era titolare la detta società.
– L’appello proposto avverso la sentenza di primo grado è stato rigettato dalla Corte di appello di Bologna con sentenza del 2 novembre 2020.
– NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno impugnato per cassazione quest’ultima pronuncia con un ricorso articolato in otto motivi. Resistono con controricorso UnipolReC s.p.a., quale cessionaria dei crediti di Unipol Banca classificati a sofferenza alla data del 30 giugno 2017, e BPER Banca s.p.a., quale società incorporante l’originaria ingiungente. I ricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Col primo motivo si denuncia la violazione degli artt. 324, 101, comma 2, 113, comma 1, 115 e 345, comma 2, c.p.c., degli artt. 1418, 1419 e 1421 c.c. e dell’art. 2 l. n. 287/1990.
Col secondo mezzo si oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 101, comma 2, 113, comma 1, 115 e 345, comma 2, c.p.c., degli artt. 1421 e 2697 c.c. e dell’art. 2 l. n. 287/1990.
I due motivi, che si prestano a una trattazione congiunta, sono inammissibili.
Si legge nella sentenza impugnata che nel corso dell’udienza di precisazione delle conclusioni in appello gli odierni ricorrenti avevano
eccepito, per la prima volta, la nullità, per violazione della normativa antitrust, della fideiussione da loro rilasciata in data 24 settembre 2010 in favore di Unipol Banca e prodotto, contestualmente, «la delibera della Banca d’Italia n. 55/2005». La Corte distrettuale ha ritenuto: da un lato, che il Tribunale avesse implicitamente attribuito validità alla garanzia prestata e che, in assenza di alcuna censura sul punto, la questione proposta dovesse considerarsi «coperta da giudicato» ; dall’altro, che la domanda di accertamento della nullità della fideiussione fosse inammissibile in quanto poneva il tema nuovo, «non desumibile ex actis », circa la «conformità della fideiussione stessa con il ‘ modello ABI’ a cui si riferita la citata delibera della Banca d’Italia n. 55/2005», la quale risultava «non prodotta nella precedente fase nel rispetto dei concessi termini istruttori».
La prima di tali rationes decidendi non è stata impugnata e tanto basta a rendere inammissibile il motivo che investe l’altra (Cass. Sez. U. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. 18 giugno 2019, n. 16314; Cass. 4 marzo 2016, n. 4293).
Mette conto tuttavia di aggiungere che coglie senz’altro nel segno la Corte di merito allorquando assume che la questione relativa alla nullità contrattuale non poteva essere rilevata d’ufficio in appello. L ‘accertamento della nullità contrattuale implicava un accertamento di fatto che investiva, anzitutto, la corrispondenza tra l’intesa anticoncorrenziale documentata nel provvedimento n. 55 del 2005 della Banca d’Italia e le singole clausole del contratto di fideiussione, attraverso cui quella intesa avrebbe trovato attuazione, costituendone sbocco. Si è visto, però, che lo scritto in questione fu prodotto tardivamente, all’udienza di precisazione delle conclusioni in appello.
Ora, la nullità del contratto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, a condizione, però, che i relativi presupposti di fatto, anche se non interessati da specifica deduzione della parte interessata, siano stati acquisiti al giudizio di merito nel rispetto delle
preclusioni assertive e istruttorie, ferma restando l’impossibilità di ammettere nuove prove funzionali alla dimostrazione degli stessi (Cass. 23 febbraio 2024, n. 4867).
Alla presente causa è del resto applicabile la nuova formulazione dell’art. 345, comma 3, c.p.c., introdotta dal d.l. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 134 del 2012; rileva, infatti, in difetto di un’espressa disciplina transitoria ed in base al generale principio processuale tempus regit actum , che la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012 (per tutte: Cass. 28 luglio 2021, n. 21606).
Nella fattispecie opera quindi il divieto di ammissione, in appello, di nuovi mezzi di prova e documenti, salvo che la parte dimostri di non avere potuto proporli o produrli per causa non imputabile. In tale versione dell’art. 345, comma 3, c.p.c. l’unica eccezione al divieto di ammissione di nuove prove costituende e alla produzione di nuovi documenti – a parte il caso del giuramento decisorio, che può essere sempre deferito – è quindi legata all’even ienza della causa non imputabile alla parte: occorre, cioè, che ricorra una ipotesi per la rimessione in temini del soggetto processuale che sia incorso in una decadenza processuale relativa all’istanza di prova o alla produzione documentale; può notarsi al riguardo, come alla « causa non imputabile » facciano riferimento sia l’art. 345, comma 3, c.p.c. che l’art. 153, comma 2, c.p.c.: norma, quest’ultima, che regola, per l’appunto, la rimessione in termini operante per porre rimedio all’inerzia della parte a fronte dello spirare di un termine perentorio. Non è quindi concludente la deduzione, contenuta nel ricorso per cassazione (pag. 25), fondata sul rilievo per cui la tardiva produzione dello scritto che documenta la delibera troverebbe giustificazione nel fatto che esso avrebbe dovuto considerarsi «indispensabile ai fini della decisione»: tale deduzione si fonda, infatti, sulla precedente versione dell’art. 345, comma 3, c.p.c..
Né è ammissibile la censura con cui i ricorrenti lamentano, in sintesi, essere notorio il contenuto del citato provvedimento della Banca d’Italia. Anzitutto, il ricorso alle nozioni di comune esperienza, comportando una deroga al principio dispositivo e al contraddittorio, va inteso in senso rigoroso, cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, non potendo conseguentemente rientrare in tale nozione gli elementi valutativi implicanti particolari cognizioni, né le nozioni ricadenti nella scienza privata del giudice (Cass. 13 dicembre 2022, n. 36309). In secondo luogo, e comunque, il ricorso, da parte del giudice, al notorio attiene all’esercizio di un potere discrezionale; pertanto, la violazione dell’art. 115, comma 2, c.p.c. può configurarsi solo quando il giudice ne abbia fatto positivamente uso e non anche ove non abbia ritenuto necessario avvalersene, venendo in tal caso la censura ad incidere su una valutazione di merito insindacabile in sede di legittimità (Cass. 20 marzo 2019, n. 7726).
2. Il terzo motivo censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 113, comma 1, 115, comma 1, 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c..
Il motivo è infondato.
La doglianza investe il tema della mancata prova del preventivo invio degli estratti conto, di cui i ricorrenti si erano doluti nel corso del giudizio di merito. Sul punto la Corte di merito, oltre ad osservare che l’eccezione risultava essere del tutto generica, «non essendo logicamente possibile che in quattro anni la banca non abbia inviato nemmeno un estratto conto e che la circostanza non sia stata mai contestata dalla società correntista», ha rilevato che gli appellanti non avevano «chiarito quale incidenza avere sull ‘ entità dell’esposizione debitoria della debitrice principale il fatto che non le stati inviati gli estratti conto nel corso del rapporto: estratti che stati peraltro da loro allegati all’atto di citazione e che erano
già stati prodotti dalla banca opposta in sede monitoria».
Il rilievo fondato sulla non decisività della proposta eccezione merita condivisione. Infatti, la presunzione di veridicità delle scritturazioni del conto quando il cliente, o il fideiussore del cliente, ricevuto l’estratto o documento equipollente, non sollevino specifiche contestazioni, trova applicazione anche qualora l’estratto conto non sia stato trasmesso con raccomandata o secondo le altre modalità indicate nel contratto, ma venga comunque portato a conoscenza del correntista o del fideiussore, a sostegno della pretesa di pagamento del saldo passivo (Cass. 27 giugno 2023, n. 18352; cfr. pure: Cass. 23 dicembre 2020, n. 29415; Cass. 6 luglio 2000, n. 9008). In particolare, la produzione in giudizio degli estratti conto costituisce «trasmissione», ai sensi dell’art. 1832 c.c., onerando il correntista delle necessarie specifiche contestazioni al fine di impedire che lo stesso possa intendersi approvato (Cass. 28 luglio 2006, n. 17242).
Col quarto motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 113, comma 1, 116, 633 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c..
Il motivo appare fondato nei sensi di cui alla motivazione che segue.
La c ensura attiene all’entità della somma pretesa , per la quale fu richiesto il decreto ingiuntivo. I ricorrenti hanno impugnato la sentenza di appello nella parte in cui è ivi osservato che al momento del deposito del ricorso monitorio l’importo del credito dedotto corrispondeva a quello risultante dalla documentazione prodotta dalla banca e il fatto che il credito accertato in sentenza fosse quello portato dal decreto ingiuntivo non escludeva che la banca stessa in sede esecutiva dovesse «ridurre le sue pretese in misura corrispondente alle eventuali variazioni delle more intervenute a favore dei debitori e, nel caso ciò non forse avvenuto, che questi ultimi potessero far valere le proprie ragioni in sede di opposizione all’esecuzione». Occorre precisare che
l’affermazione è riferita (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata) alle variazioni occorse nel trimestre successivo a quello in cui fu proposto il ricorso per ingiunzione: si tratta di variazioni che si collocano nel periodo che segue il deposito del decreto monitorio: deposito che ha avuto luogo il 20 febbraio 2015 (cfr. ricorso per cassazione, pag. 6).
Una riduzione del credito azionato in via monitoria avrebbe dovuto essere considerato proprio nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo introdotto dagli odierni ricorrenti, non in un futuro ed ipotetico giudizio di opposizione all’esecuzione. Infatti, il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ha ad oggetto l’intera situazione giuridica controversa, sicché è al momento della decisione che occorre avere riguardo per la verifica della sussistenza delle condizioni dell’azione e dei presupposti di fatto e di diritto per l’accoglimento della domanda di condanna del debitore. In conseguenza, la riscontrata insussistenza, anche parziale, dei suddetti presupposti, pur non escludendo il debito dell’originario ingiunto, comporta l’impossibilità di confermarne la condanna nell’importo indicato nel decreto ingiuntivo, che dunque va sempre integralmente revocato (Cass. 24 settembre 2013, n. 21840: sul punto cfr. pure, ad es.: Cass. 17 ottobre 2011, n. 21432; Cass. 22 maggio 2008, n. 13085).
E’ da aggiungere che l’impugnazione investe non solo il profilo attinente alle variazioni del debito intervenute dopo il deposito del ricorso per ingiunzione e del provvedimento monitorio, ma anche l’ammontare del cre dito al momento della proposizione della domanda ingiuntiva.
Sul punto, la Corte di appello ha rilevato che «l’importo del credito dedotto corrispondeva a quello risultante della documentazione contrattuale e contabile prodotta dalla banca» e che «sul punto non mai stata contestazione, né prova di alcuna rimessa in avere, a quella data che avrebbe ridotto la pretesa azionata».
Il dictum non risulta efficacemente contrastato col ricorso per
cassazione, onde il motivo, su questo secondo punto, non merita accoglimento.
4. Il quinto mezzo oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 113, comma 1, e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2 e 3 l. n. 108/1996.
Il motivo è inammissibile.
Chi impugna contesta la decisione della Corte distrettuale nella parte in cui sono state reputate generiche le censure relative all’usurarietà dei rapporti bancari dedotti in lite, e incentrate sul computo della commissione di massimo scoperto ai fini della verifica del superamento del tasso soglia. Secondo il Giudice di appello, dalla documentazione prodotta risultava che la banca opposta non aveva applicato la commissione di massimo scoperto ai detti rapporti e la circostanza non era stata contestata dagli appellanti, i quali non avevano, del resto, nemmeno indicato le annotazioni da cui sarebbe emersa, al contrario, l’addebito della predetta commissione o, comunque, l’applicazione di interessi eccedenti le soglie previste dalla l. n. 108/1996.
Col motivo i ricorrenti si limitano a richiamare alcune deduzioni svolte nella comparsa conclusionale di appello: deduzioni manifestamente inidonee a sovvertire il giudizio con cui la censura proposta , contenuta nell’atto di appello, era stata ritenuta, di fatto, inammissibile ex art. 342 c.p.c..
I ricorrenti fanno oltret utto questione del vizio di cui all’art. 360, n. 3 c.p.c., mentre avrebbero dovuto semmai censurare ex art. 360, n. 4, c.p.c. per error in procedendo la statuizione con cui il motivo di appello era stato ritenuto generico.
5. Col sesto motivo si denuncia per cassazione la violazione e falsa applicazione degli artt. 1283 c.c. e dell’art. 120 t.u.b..
Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha ritenuto che il divieto di anatocismo non
trovasse applicazione nel presente giudizio, in quanto la disciplina con cui era stato novellato l’art. 120 t.u.b. non risultava applicabile in mancanza della relativa delibera del CICR.
All’opposto, questa Corte ha affermato, di recente, che il divieto di anatocismo previsto dall’art. 120, comma 2 del t.u.b., come sostituito dall’art. 1, comma 628, della l. n. 147 del 2013 è operante indipendentemente dall’adozione, da parte del CICR, della delibera, ivi prevista, circa le modalità e i criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria (Cass. 30 luglio 2024, n. 21344).
6. Il settimo motivo prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, comma 1, 116 c.p.c. e dell’art. 118 t.u.b. .
Il motivo è inammissibile.
La Corte territoriale ha disatteso l’ottavo motivo di gravame reputando del tutto generica la doglianza relativa allo ius variandi , per non avere gli appellanti chiarito, nonostante la produzione della documentazione contabile afferente i rapporti bancari oggetto del giudizio, «a quali variazioni riferiti, in relazione a quali periodi e per quali importi».
Nel denunciare l’ omessa pronunc ia di cui all’art. 112 c.p.c. parte ricorrente mostra di non avvedersi che una statuizione sul richiamato motivo di gravame vi è in realtà stata.
L ‘assunto secondo cui gli appellanti, originari opponenti, si sarebbero riferiti a «tutte le variazioni economiche peggiorative per la correntista applicate dalla banca nel corso di tutto il corso del rapporto, così come ricavabili dagli estratti conto prodotti in atti dall’istituto di credito», svela, poi, la mancata comprensione della decisione impugnata, in tal modo sovrapponendo il piano della prova -certamente desumibile dagli estratti conto prodotti dalla banca in forza del principio per cui le risultanze istruttorie, comunque ottenute, concorrono alla formazione del libero convincimento del giudice, non
condizionato dalla loro provenienza (per tutte: Cass. 13 aprile 2023, n. 9863) -a quello dell’allegazione dei fatti, che compete alla parte e che la Corte di appello ha spiegato essere affetta da genericità.
– Con l’ottavo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 61 c.p.c..
Il motivo, con cui ci si duole del rigetto dell’istanza di consulenza tecnica, resta assorbito, dovendo la Corte del rinvio verificare se, a fronte del l’accoglimento de l quarto e del sesto motivo di ricorso, sia necessario disporre un accertamento contabile.
8 . ─ In conclusione, vanno accolti il quarto e il sesto motivo, deve essere dichiarato assorbito l’ottavo, respinto il quinto e dichiarati inammissibili i restanti. La sentenza impugnata è cassata in relazione ai motivi accolti e la causa va rinviata alla Corte di appello di Bologna, che giudicherà in diversa composizione e statuirà pure sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte
accoglie nei sensi di cui in motivazione il quarto motivo, accoglie il sesto, dichiara assorbito l’ottavo, rigetta il terzo, dichiara inammissibili i restanti; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Bologna, che giudicherà in diversa composizione e statuirà sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione