Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 401 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 401 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/01/2025
Oggetto: PROPRIETA’
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 20236/2020 R.G. proposto da COGNOME, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME presso il cui studio in Barano d’Ischia, INDIRIZZO è elettivamente domiciliata;
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo, in Napoli, INDIRIZZO
-controricorrente –
COGNOME NOMECOGNOME quale litisconsorte della ricorrente principale COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo, in Ischia, INDIRIZZO
-ricorrente incidentale adesivo- autonomo –
avverso la sentenza n. 1080/2020 della Corte d’Appello di Napoli, depositata il 5/3/2020 e notificata il 6/3/2020.
Udita la relazione svolta dal consigliere dott.ssa NOME COGNOME nella pubblica udienza del 21/11/2024;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale. Uditi i difensori presenti
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione notificato il 19/5/2009, NOME NOMECOGNOME premesso che era proprietario di un fabbricato sito in Ischia, INDIRIZZO acquistato il 14/04/1994 da NOMECOGNOME espose che il confinante NOME aveva realizzato diversi abusi ai danni della sua proprietà.
Precisò in particolare che il convenuto:
-aveva trasformato delle luci in vedute anche in violazione delle distanze;
-aveva aperto un vano porta e realizzato un muretto sulla sua proprietà con la creazione di un passaggio esclusivo diretto ad un cellaio-cantinato, di cui non era proprietario;
si era appropriato, in via esclusiva, di un viale condominiale, sistemandovi sopra, a monte, un cancello con chiave e, a valle, una fabbrica abusiva.
Lamentò altresì l’attore che l’aumento delle fabbriche aveva determinato l’esondazione sulla sua proprietà di acque provenienti da una condotta fecale illegittimamente fatta passare nel terreno sottostante il suo giardino, abusivamente allacciata.
Tanto premesso, l’Adiletta convenne in giudizio davanti al Tribunale di Napoli-Sezione distaccata di Ischia, NOME onde sentirlo condannare all’eliminazione di tutti gli abusi
denunciati, al ripristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni.
Costituitosi in giudizio, NOME chiese innanzitutto l’integrazione del contraddittorio nei confronti della sue due figlie, NOME e NOME in quanto nude proprietarie dell’immobile al confine con l’attore, di cui egli era rimasto usufruttuario, eccepì la prescrizione della pretesa, stante l’avvenuta realizzazione degli interventi tra il 1969 e il 1971 e propose a sua volta domanda riconvenzionale in relazione ad alcuni abusi realizzati dall’attore a danno della proprietà delle figlie (ampliamento della proprietà con conseguente riduzione di aria, luce e privacy, realizzazione di un balcone in violazione delle distanze, realizzazione di una scala e di un lastrico con affaccio sulla loro proprietà, piantumazione di alberi di alto e medio fusto a distanza illegale), chiedendo la condanna dell’attore al ripristino dello stato dei luoghi e al risarcimento dei danni.
Queste ultime si costituirono in giudizio, reiterando le difese del padre, compresa la domanda riconvenzionale.
Con sentenza n. 5470/2015, pronunciata il 14/04/2015, il Tribunale rigettò la domanda principale e, in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale, condannò l’attore al risarcimento dei danni derivanti dall’aumento delle fabbriche per € 15.000,00 e ad eliminare il grillage in legno.
Il giudizio di gravame, interposto da NOME COGNOME, nel quale si costituirono NOME e NOME, si concluse, dopo l’integrazione del contraddittorio nei confronti di NOME che rimase contumace, con la sentenza n. 1080/2020, pubblicata il 05/03/2020, con la quale la Corte d’Appello di Napoli accolse l’appello per quanto di ragione e, in riforma della sentenza impugnata e in parziale accoglimento della domanda avanzata da NOME Sergio, condannò NOME e NOME alla
rimozione degli abusi denunciati e al ripristino dei luoghi, ossia alla trasformazione della veduta sul lato nord-est piano terra della proprietà NOME in luce conformemente alle prescrizioni del codice civile e agli artt. 900 e ss. cod. civ., all’eliminazione dell’apertura del vano porta e del relativo muro di delimitazione del passaggio incidente nella proprietà di COGNOME NOME con restituzione della porzione di suolo illecitamente occupata, all’eliminazione, dal viale comune di accesso, del cancello a monte e delle fabbriche abusive a valle e all’eliminazione del collettore di scarico delle acque reflue insistente nel giardino-terrazzo dell’appellante e inserito nel pozzo nero dello stesso, rigettò la domanda riconvenzionale avanzata dalle COGNOME e le condannò al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.
Avverso questa sentenza, NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a sei motivi, illustrati anche con memoria; NOME NOME si è difeso con controricorso, mentre NOME ha proposto ricorso incidentale adesivo-autonomo, affidato a quattro motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Il Pubblico Ministero ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso principale di NOME si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 116 e 346 cod. proc. civ., per ‘ l’omessa ammissione delle prove articolate dalla parte convenuta-appellata in riferimento alle eccezioni relative alla legittimità del vano finestra della ricorrente sito al piano terra ‘, perché i giudici d’appello avevano disposto la riduzione in pristino della finestra, ritenendo che le uniche prove offerte in ordine all’esistenza della stessa fin dal 1971 fossero costituite dalle fotografie allegate alla pratica di condono del loro dante causa del 1/4/1986, siccome sottoscritte nel retro dal
responsabile dell’ufficio tecnico, e acquisite dal c.t.u., senza rendersi conto dell’avvenuta proposizione sul punto di prova per testi, che il Tribunale aveva ritenuto superfluo espletare essendo all’uopo esaurienti le prove documentali e che la Corte d’Appello, ritenendo insufficienti queste ultime, avrebbe dovuto acquisire senza necessità che vi fosse un atto di impulso delle appellate vittoriose in primo grado.
2. Con il secondo motivo di ricorso principale di NOME, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 116 e 346 cod. proc. civ., per ‘ l’omessa ammissione delle prove articolate dalla parte convenuta-appellata sulla domanda riconvenzionale di usucapione del viale di accesso, dell’area di sedime del locale adibito a bagno della ricorrente e sulla eccepita estinzione del passaggio del dante causa dell’Adiletta e del medesimo resistente anche per prescrizione dell’eventuale diritto per mancato uso ultraventennale, nonché la violazione, l’omessa e falsa applicazione dell’art. 1158 cod. civ. ‘, perché i giudici di merito, riformando la sentenza di primo grado sulle eccezioni e domande riconvenzionali spiegate dalla ricorrente in ordine all’accertamento della proprietà, in capo a lei, del vialetto e dell’area di sedime del locale bagno, e, in caso di ritenuta comunione, dell’intervenuta usucapione in suo favore di tale porzione immobiliare o, in caso di accertamento della sussistenza di una servitù di passaggio in capo all’attore, dell’intervenuta prescrizione del relativo diritto, avevano accertato la comunione sui predetti beni, omettendo, però, di analizzare le difese della ricorrente-convenuta in primo grado e le prove offerte dalla stessa, benché ad essa spettasse, in quanto vittoriosa in quella sede, il mero richiamo delle proprie difese. A tal riguardo, la ricorrente ha evidenziato di avere dedotto, in primo grado, che il diritto riconosciuto alla dante causa dell’attore sul viottolo, con l’atto del
28/10/1971, era unicamente una servitù di passaggio, appartenendo esso ad altre persone tra cui NOME; che, quand’anche si fosse riconosciuta la comproprietà sul predetto bene, questo era stato posseduto animo domini dalla stessa ricorrente e, prima ancora, dai suoi danti causa fin dal 1971; che la realizzazione su di esso del bagno, fin dal 1971, costituiva interversione del possesso, idoneo a far decorrere il termine per l’usucapione; che costituivano atto confessorio le considerazioni svolte dal consulente di parte nella relazione prodotta dallo stesso attore, allorché aveva attestato la presenza sul vialetto di un cancello chiuso con chiave; che quest’ultimo documento non era stato vagliato dai giudici d’appello, essendosi essi concentrati sulle sole clausole di stile contenute nel rogito notarile del 1994; che i giudici non avevano considerato né la domanda di condono edilizio del 1/4/1986, attestante la realizzazione del bagno nel 1971, né la prova per testi dedotta a dimostrazione delle predette deduzioni.
3. Con il terzo motivo di ricorso principale di NOME si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 116 e 346 cod. proc. civ., per ‘ l’omessa ammissione delle prove articolate dalla parte convenuta-appellata sulla eccezione di usucapione del locale cantina e dello stato dei luoghi e dell’epoca di realizzazione del muretto ed apertura vano porta, nonché la violazione, l’omessa e falsa applicazione degli artt. 1158, 1159 e 2729 cod. civ. e l’erronea valutazione delle prove documentali ed erroneo presupposto ‘, per avere i giudici di merito riformato la sentenza di primo grado in ordine alle domande riconvenzionali proposte dalla ricorrente sull’usucapione della porzione di cellaio, ritenendo inidonee le prove documentali offerte, senza procedere all’ammissione della prova testimoniale dedotta. Ad avviso della ricorrente, i giudici, non soltanto non avevano colto la portata della domanda proposta dall’appellante sul cellaio, essendosi questo
limitato a dedurre sul parapetto ricurvo e sul vano porta, cosicché si erano pronunciati ultra petita, e non soltanto avevano omesso di ammettere le prove testimoniali dedotte, una volta ritenute non idonee quelle documentali, ma avevano letto in modo scorretto i documenti prodotti, in quanto non avevano considerato che il cellaio identificato in catasto al sub 8 e accessibile dalla sola proprietà NOME era frutto di un frazionamento eseguito dalla dante causa dell’Adiletta il 24/3/1986 ed era stato escluso dalla vendita in favore di quest’ultimo, essendogli stato trasferito il solo cellaio indicato al sub 9; che la planimetria catastale depositata col suddetto frazionamento, avente contenuto confessorio, indicava chiaramente la presenza di un muro di divisione del cellaio, idoneo a precludere l’accesso da proprietà diverse da quella del COGNOME; che, al momento dell’acquisto dell’Adiletta nel 1994, lo stato dei luoghi era già quello attuale, col vano di accesso dalla proprietà COGNOME e il muretto di delimitazione del tratto di accesso al sub 8 già esistente e che l’atto di acquisto della ricorrente del 19/12/1991, non valutato dai giudici, contemplava anche detto cellaio.
Infine, con la pronuncia impugnata i giudici avevano sostanzialmente privato la ricorrente di un bene proprio, giacché, una volta abbattuto il muro e chiuso il varco di accesso, non sarebbe più stato possibile per lei entrarvi.
4. Con il quarto motivo di ricorso principale di NOME si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 116 e 346 cod. proc. civ., l” omessa ammissione delle prove articolate dalla parte convenuta-appellata sulla domanda riconvenzionale di confessoria servitutis della fecale che adduce al pozzo nero, nonché la violazione, l’omessa e falsa applicazione dell’art. 1158 cod. civ., l’erronea valutazione delle prove documentali, l’erroneo presupposto, l’erronea interpretazione della
domanda con ultra petizione e l’omessa e insufficiente motivazione dell’affermato allaccio abusivo di un collettore fecale ‘, perché i giudici di merito, con riferimento all’eccezione proposta, avente ad oggetto la confessoria servitutis sulla condotta fecale che si immetteva nel pozzo nero, avevano ritenuto inidonee le prove documentali offerte, erroneamente interpretandole, senza dar luogo all’ammissione di quelle orali dedotte. In particolare, i giudici di merito avevano accolto l’appello su una negatoria servitutis di scarico sul pozzo nero dell’Adiletta mai proposta, ritenendo che la documentazione offerta non provasse la sussistenza di tale diritto e che l’allaccio ad esso fosse abusivo, senza considerare che l’attore aveva ammesso che l’immobile della ricorrente fosse allacciato ab immemorabile nel pozzo nero, avendo lamentato il solo aggravio dovuto all’allaccio del nuovo bagno, peraltro avvenuto fin dal 1971/1974. L’attore si era, infatti, doluto del fatto che l’ampliamento della costruzione della ricorrente avesse fatto sì che fossero aumentate anche le persone ivi residenti e che questo gli avesse imposto di provvedere con sempre maggiore frequenza allo spurgo, oltre ad avere causato l’esondazione dei liquami.
5. Con il quinto motivo di ricorso principale di NOME si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 115, 116 e 346 cod. proc. civ., per l” omessa ammissione delle prove articolate dalla parte convenuta-appellata sulla domanda riconvenzionale di violazione delle distanze nelle costruzioni, delle norme di edilizia, di distanze dalle vedute e di risarcimento dei danni, nonché la violazione, l’omessa e falsa applicazione degli artt. 869, 871, 872, 873, 907 e 2043 cod. civ. ‘, per avere i giudici di merito riformato la sentenza di primo grado che aveva condannato l’Adiletta al risarcimento dei danni derivante dall’aumento delle sue fabbriche, e alla demolizione del grillage interno, ritenendo che la domanda risarcitoria fosse limitata alla riduzione di ariosità,
luminosità, soleggiamento e limitazione della privacy derivante dall’ampliamento della costruzione e dalla realizzazione del balcone, della scala a chiocciola e del manufatto in legno e alla riduzione del valore economico della proprietà dovuto all’incremento della proprietà confinante con violazione dell’indice di fabbricabilità, senza tener conto che la stessa era stata proposta sia per la violazione delle norme sulle distanze tanto per il balcone, quanto per il manufatto in legno, sia per la realizzazione della scala a chiocciola che aveva trasformato il lastrico solare in terrazza con possibilità di affaccio, sia per la piantumazione di alberi, sia per la violazione dell’indice di fabbricabilità, essendo stato trasformato un piccolo immobile in una villa in assenza di titolo edilizio. La ricorrente ha precisato, infatti, che la deduzione sulla violazione delle distanze non aveva riguardato le sole distanze dalle vedute, ma anche dai fabbricati, dovendosi il gazebo considerare costruzione in quanto infisso stabilmente al suolo, aspetto questo non sindacato dai giudici, e che l’aumento di cubatura del fabbricato della controparte nella misura di 25 mq. in assenza di titolo edilizio, come risultante dalla richiesta di condono del 10/12/2004, dava diritto al risarcimento.
6.1 I primi cinque motivi di ricorso principale, da trattare congiuntamente in quanto parzialmente convergenti in ordine alle violazioni dedotte, ancorché riferiti alle diverse questioni della trasformazione della luce in veduta, della proprietà del vialetto occupato con vano bagno, dell’accesso al cellaio e della servitù di scarico della condotta fecale che portava al pozzo nero dell’originario attore, sono parte inammissibili e parte infondati.
6.2 Quanto alla doglianza riferita alla mancata assunzione delle prove testimoniali, che accomuna tutte le censure, la stessa è infondata.
Occorre sul punto prendere le mosse dalla motivazione della sentenza impugnata, nella quale i giudici di merito, pur dando conto delle deduzioni istruttorie svolte in primo grado e dell’articolazione, con esse, di una prova orale, affermano che le stesse, respinte con ordinanza del 18/11/2013, non erano state reiterate né in sede di precisazione delle conclusioni in primo grado, né nel giudizio d’appello.
E’ alla stregua di ciò che la ricorrente pretende ora di accreditare la tesi secondo cui i giudici, una volta esclusa l’efficacia probante della documentazione versata in atti, avrebbero dovuto d’ufficio procedere all’ammissione delle prove orali, senza necessità di un’apposita attività d’impulso della parte totalmente vittoriosa.
Tale argomentazione si scontra però con i principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui la parte che si sia vista rigettare dal giudice le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle, in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate, a prescindere da ogni indagine sulla volontà della parte interessata, e non potranno essere riproposte in sede di impugnazione, principio questo che deve essere esteso anche all’ipotesi in cui sia stato il giudice di appello a non ammettere le suddette richieste, neppure ai sensi dell’art. 345, terzo comma, cod. proc. civ. (testo previgente alle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella l. n. 134 del 2012), in quanto il giudizio d’indispensabilità, operato dal giudice del gravame, riguarda le nuove prove e non quelle dichiarate inammissibili o tacitamente rinunciate, con la conseguenza che la loro mancata ripresentazione al momento delle conclusioni preclude la deducibilità del vizio scaturente dall’asserita illegittimità del diniego quale motivo di
ricorso per cassazione (Cass., Sez. 2, 27/2/2019, n. 5741; Cass.,
Sez. 2, 31/5/2019, n. 15029; Cass., Sez. 3, 10/8/2016, n. 16886). Ebbene, se è vero che la parte totalmente vittoriosa in primo grado può solo limitarsi a riproporre, in appello, le questioni sollevare in quella sede, senza dover proporre appello incidentale, salvo che sia rimasta soccombente su una questione pregiudiziale di rito e/o preliminare di merito per rigetto espresso o implicito o per omesso esame della stessa per illegittima pretermissione o violazione dell’ordine di decisione delle domande e/o delle eccezioni impresso dalla parte medesima e intenda devolvere la questione rispetto alla quale ha maturato una posizione di soccombenza teorica al giudice superiore (Cass., Sez. 5, 15/7/2021, n. 20315), è anche vero che la medesima parte, quando si sia vista rigettare le istanze istruttorie dal giudice di primo grado, è comunque tenuta a reiterarle in sede di precisazione delle conclusioni in quella fase e, quanto all’appello, pur non riproponendo ovviamente alcuna richiesta di riesame della sentenza ad essa favorevole, a manifestare in maniera univoca la volontà di devolvere al giudice del gravame anche il riesame delle proprie richieste istruttorie sulle quali il primo giudice non si è pronunciato, richiamando specificamente le difese di primo grado, in guisa da far ritenere in modo inequivocabile di aver riproposto l’istanza di ammissione della prova (Cass., Sez. 2, 27/10/2009, n. 22687; Cass., Sez. L, 23/3/1999, n. 2756; Cass., Sez. L, 22/3/1994, n. 2716).
Tale attività di impulso è stata considerata, nella specie, insussistente in entrambi i gradi del giudizio, senza che la ricorrente abbia sconfessato la correttezza di tale decisione per difformità da quanto realmente accaduto o dedotto alcunché al fine di dimostrare il superamento della presunzione di abbandono delle deduzioni istruttorie respinte e non reiterate, in applicazione del principio secondo cui la stessa può essere ritenuta superata dal
giudice di merito, qualora dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l’esame degli scritti difensivi (Cass., Sez. 2, 10/11/2021, n. 33103), di cui deve darsi conto, sia pure sinteticamente, nella motivazione della valutazione compiuta, cui il giudice è tenuto (Cass., Sez. 6-3, 4/4/2022, n. 10767).
6.2 Quanto agli ulteriori rilievi contenuti nel secondo motivo, che afferisce, come detto, alla questione della proprietà (comune o esclusiva) del vialetto ovvero della estinzione per non uso della servitù di passaggio, quand’anche riconosciuta in favore del controricorrente, si osserva innanzitutto come la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. possa essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass., Sez. 2, 21/3/2022, n. 9055), così come la doglianza circa la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il
giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass., Sez. U, 30/9/2020, n. 20867; Cass., Sez. 5, 9/6/2021, n. 16016).
Alla luce di tali principi, non può allora farsi rientrare nelle predette violazioni la mancata considerazione, da parte dei giudici di merito, del valore confessorio attribuibile, a dire della ricorrente, alle dichiarazioni contenute nella consulenza tecnica di parte.
Infatti, premesso che detta consulenza costituisce una semplice allegazione difensiva, priva di autonomo valore probatorio (Cass., Sez. 2, 19/1/2022, n. 1614; Cass., Sez. 2, 24/8/2017, n. 20347; Cass., Sez. U, 3/6/2013, n. 13902), può estendersi ad essa il principio, valevole per gli scritti difensivi sottoscritti dal procuratore ad litem , secondo cui alle ammissioni in essi contenute possa sì essere attribuito valore confessorio riferibile alla parte, ma soltanto quando quegli scritti rechino anche la sottoscrizione della parte stessa, in calce o a margine dell’atto, con modalità tali che rivelino inequivocabilmente la consapevolezza delle specifiche dichiarazioni dei fatti sfavorevoli in esso contenute (Cass., Sez. 2, 4/8/2023, n. 23809; Cass., Sez. 2, 28/9/2018, n. 23634; Cass., Sez. 1, 15/07/2005, n. 15062), ciò che, nella specie, non è stato neppure dedotto.
Né la doglianza può dirsi fondata nella parte in cui lamenta il mancato esame dei mezzi istruttori offerti, ossia le considerazioni contenute nella c.t.p. e i documenti afferenti al condono, sia perché la relazione del consulente tecnico di parte non costituisce mezzo di prova, ma, come si è detto, mera allegazione difensiva, sia perché, diversamente da quanto dedotto, i giudici di merito hanno esaminato le fotografie allegate al condono, reputandole non
rilevanti sia perché tardivamente depositate (al riguardo vi è un rinvio alla motivazione afferente la luce trasformata in finestra), sia perché nelle stesse non era dato riconoscere il fabbricato, senza che tali argomentazioni siano state attinte dalla censura.
Peraltro, la valutazione delle prove raccolte costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili con il ricorso per cassazione (Cass. 29/10/2018, n. 27415; Cass. 19/07/2021, n. 20553). Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857), senza che possa costituire vizio denunciabile in questa sede il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., né in quello del precedente n. 4, (Cass., Sez. 1, 26/9/2018, n. 23153; Cass., Sez. 3, 10/6/2016, n. 11892), in quanto la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile secondo il nuovo parametro di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.), e in quanto con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi le proprie, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie concreta operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità ( ex plurimis Cass., Sez. 1, 6/11/2023, n. 30844; Cass., Sez. 5, 15/5/2018, n. 11863, Cass., Sez. 6-5, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. 1, 2/8/2016, n. 16056).
6.3 Quanto alla questione del cellaio (terzo motivo), occorre prendere le mosse dalla domanda proposta dall’attore, così come riportata in sentenza, con la quale questi aveva lamentato che il confinante avesse, sulla sua proprietà, aperto un vano porta,
realizzato un muretto e creato un passaggio esclusivo diretto al cellaio cantinato di cui non vantava neanche il titolo di proprietà, alla quale la Corte d’Appello ha dato risposta sostenendo che i giudici di merito non avessero letto correttamente la relazione del c.t.u., nella quale era solo detto che era stato accertato il mero utilizzo di fatto, da parte del COGNOME, del passaggio delimitato dal parapetto curvo fotografato dal consulente e graficamente rappresentato nelle piantine catastali allegate a vario titolo, ma che non vi fosse alcuna disciplina di tale servitù, che nel 1971 la dante causa del COGNOME fosse divenuta proprietaria del cellaio, risultato ancora di sua proprietà e dalla stessa frazionato nel 1986, ancorché inserito da quest’ultimo come pertinenza del suo immobile, e che non fosse stata dimostrata la proprietà, in capo alle appellanti, del cellaio sub 8, né fosse stato prodotto alcun titolo di acquisto dello stesso, non assumendo al riguardo alcun valore probatorio le risultanze catastali o le planimetrie del 1986, peraltro prive di numero di protocollo.
In sostanza, i giudici di merito hanno escluso, alla stregua del compendio probatorio, la prova della titolarità del passaggio e dello stesso cellaio in capo alla ricorrente e del suo acquisto per usucapione, sicché la dedotta erroneità della lettura del compendio probatorio non può che ridondare in un tipico accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità.
Né può dirsi sussistente l’affermata violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato con riguardo alla proprietà del cellaio, non potendosi essa configurare allorché il giudice di secondo grado fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel
thema decidendum del giudizio (Cass., Sez. L, 03/04/2017, n. 8604, cit.), come nel caso, rilevante nella specie, della servitù, la quale intanto può esistere, in quanto sussista un fondo dominante (nella specie il cellaio) e uno servente (il vialetto di proprietà del controricorrente).
6.4 Quanto al quarto motivo, risulta dalla sentenza che l’attore aveva lamentato che, a causa dell’aumento delle fabbriche del confinante e del numero dei residenti in esse, si erano verificate varie esondazioni nella proprietà attorea provenienti da una condotta fecale illegittimamente fatta passare nel terreno sottostante il proprio giardino e abusivamente allacciata, domanda alla quale la Corte d’Appello ha dato risposta, ritenendo, alla luce della c.t.u., che mancasse la prova dell ‘ avvenuta costituzione di una servitù di scarico o della creazione di una servitù irregolare, senza che possano trarsi elementi per affermare, come dedotto nella censura, che la domanda si riferisse al solo aggravamento di una servitù preesistente, con conseguente esclusione della dedotta ultrapetizione.
Quanto all’asserita risposta ad un’ actio negatoria servitutis mai proposta, come pure affermato nel motivo, si osserva come la declinata doglianza intenda rappresentare un vizio di interpretazione della domanda a cui la sentenza avrebbe messo capo, ma in tal modo essa confligge con il principio più volte affermato da questa Corte secondo cui l’interpretazione della domanda è operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, è censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (Cass., Sez. III,, 22/09/2023, n. 27181; Cass. Sez. III, 20/10/2005, n. 20322; Cass., Sez. III, 12/05/2003, n. 7198) o, come si è più diffusamente argomentato, «a) ove
ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se l ‘ inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del petitum , potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di error in judicando in base all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., o al vizio di error facti , nei limiti consentiti dall’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.» (Cass., Sez. 3, 10/06/2020, n. 11103; Cass., Sez. 1, 7/2/2024, n. 3454).
6.5 Quanto, infine, alla questione afferente alla revocata domanda di condanna dell’appellante al risarcimento dei danni, occorre evidenziare come la stessa attenesse, come riportato nella sentenza, alla ‘ riduzione di ariosità, luminosità, soleggiamento e limitazione della privacy abitativa determinata dall’ampliamento della costruzione e dalla realizzazione del balcone, della scala a chiocciola, del manufatto in legno e alla riduzione del valore economico della proprietà a causa dell’incremento della proprietà confinante con violazione dell’indice di fabbricabilità ‘ e come la decisione di accoglimento dell’appello sia stata dettata dall’integrale rigetto della domanda riconvenzionale, avvenuto in primo grado e
non impugnato, residuando, dunque, la sola questione della violazione degli indici di fabbricabilità.
Ciò comporta che la censura, che evidenzia tutti i motivi per i quali era stato chiesto il risarcimento dei danni, non attinge la ratio decidendi , in contrasto col principio, secondo cui i motivi posti a fondamento della cassazione della decisione impugnata devono avere i caratteri non solo della specificità e della completezza, ma anche della riferibilità alla decisione stessa (Cass., Sez. 3, 2/8/2002, n. 11530).
7.1 Con il sesto motivo di ricorso principale di NOME si lamenta, infine, la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., in relazione alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite e dalle spese di c.t.u..
7.2 Il sesto motivo è, infine, infondato.
In tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso, infatti, nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse, sicché, con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (Cass., Sez. 1, 4/8/2017, n. 19613).
Pertanto, essendo state le spese determinate, nella specie, in ragione del criterio della soccombenza, non può la ricorrente dolersi della loro mancata compensazione.
8. Con il primo motivo di ricorso incidentale, si lamenta la violazione degli artt. 345, 346, 115, 116 e 132, secondo comma, n. 2, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.; la violazione del principio di non contestazione, con riferimento agli artt. 166, 167, primo comma, 183, commi quinto e sesto, 115 e 116, cod. proc. civ., 2697 cod. civ., 342, 345, 346 e 132, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.; l’omesso esame di prove convergenti, con riferimento agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., 2697 cod. proc. civ., 345, 346 e 132, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.; l’omesso esame di ulteriore prova indiziaria convergente, con riferimento agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., 2697, 2727 e 2729 cod. civ., 345, 346 e 132, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito omesso di valutare i fatti non contestati ai fini dell’accoglimento della domanda di usucapione e trascurato il giudicato interno formatosi con riferimento all’inesistenza del vialetto già da quando il controricorrente aveva acquistato, non essendo stata tale statuizione del giudice di primo grado impugnata in appello, per avere omesso di esaminare prove convergenti sia sulla risalenza nel tempo degli abusi dedotti dell’attore, sia sull’inesistenza di diritti vantati dall’attore e l’ulteriore prova indiziaria convergente, ossia la descrizione del bene contenuta nell’atto di donazione.
8. Con il secondo motivo di ricorso incidentale, si lamenta la violazione degli artt. 342, 345, 183, commi quinto e sesto, cod. proc. civ., l’art. 2909 cod. civ., 324 cod. proc. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., 948, 1117, 1158 e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3-4, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto ammissibile la c.t. di parte prodotta in secondo
grado, ma non anche i documenti con la stessa prodotti, salvo poi utilizzarli, e per avere trascurato la mancata impugnazione, da parte dell’appellante, dell’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui le opere lamentate dall’attore in domanda e asseritamente recenti risultavano risalire, invece, agli anni 1983/1987, le quali erano, dunque, passate in giudicato.
9. Con il terzo motivo di ricorso incidentale, si lamenta la violazione degli artt. 342, 345, 183 commi quinto e sesto, cod. proc. civ., 2909 cod. civ., 324, 115, 116 cod. proc. civ., 948, 1117, 1158 e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 -4, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano riformato la sentenza di primo grado, con cui era stata rigettata la domanda di rivendicazione della comunione del viale, senza considerare che l’appellante non aveva specificamente impugnato la ratio decidendi della sentenza di primo grado.
10. Con il quarto motivo di ricorso incidentale, si lamenta, infine, la violazione degli artt. 2909 cod. civ., 324 cod. proc. civ., 948, 1117 e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 -4, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito ritenuto provata la domanda di rivendicazione del cellaio attraverso l’esibizione dei documenti catastali, senza considerare che l’atto di appello non aveva censurato adeguatamente la sentenza di primo grado, che aveva respinto la domanda di rilascio, sostenendo che non fosse stata fornita la prova dell’acquisto derivativo del cespite rivendicato.
11. Il ricorso incidentale adesivo autonomo è inammissibile in quanto notificato oltre il termine del 8/7/2020, decorrente dalla notifica della sentenza impugnata, avvenuta il 6/3/2020, avendo lo stesso ricorrente affermato di avere presentato il ricorso incidentale adesivo dopo avere ricevuto la notifica di quello principale, avvenuta, per quanto risulta dagli atti, il 7/7/2020.
Occorre innanzitutto evidenziare, infatti, come l’atto che, ancorché denominato controricorso, non contesti il ricorso principale, ma aderisca ad esso, debba qualificarsi sotto questo profilo ricorso incidentale di tipo adesivo (in tal senso Cass., Sez. 3, 17/12/2009, n. 26505).
In tale caso, non trova applicazione la disciplina riguardante i termini e le forme del ricorso incidentale (tardivo), ma quella dettata dall’art. 325 cod. proc. civ. per il ricorso autonomo, cui è altrettanto soggetto qualsiasi ricorso successivo al primo, che abbia valenza d’impugnazione incidentale, qualora investa un capo della sentenza non impugnato con il ricorso principale o lo investa per motivi diversi da quelli fatti valere con il ricorso principale, atteso che le regole dell’impugnazione tardiva, in osservanza dell’art. 334 cod. proc. civ. e in base al combinato disposto degli artt. 370 e 371 cod. proc. civ., operano esclusivamente per l’impugnazione incidentale in senso stretto, e cioè proveniente dalla parte contro la quale è stata proposta l’impugnazione principale, solo alla quale è consentito presentare ricorso nelle forme e nei termini di quello incidentale, per l’interesse a contraddire e a presentare, contestualmente con il controricorso, l’eventuale ricorso incidentale anche tardivo (Cass., Sez. 3, 24/8/2020, n. 17614; Cass., Sez. 5, 7/10/2015, n. 20040; Cass., Sez. 5, 28/10/2015, n. 21990; Cass., Sez. 3, 21/1/2014, n. 1120).
Ciò comporta che il ricorso che abbia contenuto adesivo al ricorso principale e che formula un’impugnazione il cui interesse non sorga dall’impugnazione principale, ma in conseguenza della emanazione della sentenza quand’anche contenga censure aggiuntive rispetto a quest’ultima – va proposto, a pena di inammissibilità, nel termine ordinario di impugnazione (Cass., Sez. 2, 22/12/2021, n. 41254; Cass., Sez. 5, 25/1/2008, n. 1610; Cass., Sez. 1, 21/3/2007, n. 6807; Cass., Sez. 2, 18/4/2002, n. 5635).
Né può dirsi applicabile alla specie il diverso principio recentemente pronunciato da Cass., Sez. U, 28/3/2024, n. 8486, secondo cui l’impugnazione incidentale tardiva è ammissibile anche quando riveste le forme dell’impugnazione adesiva rivolta contro la parte destinataria dell’impugnazione principale, in ragione del fatto che l’interesse alla sua proposizione può sorgere dall’impugnazione principale o da un’impugnazione incidentale tardiva.
Detto principio si riferisce, infatti, al diverso caso dell’obbligazione solidale, che, in quanto caratterizzata dalla scindibilità della pluralità di cause, in tale ipotesi cumulate e poi decise con sentenza prevista dall’art. 332 cod. proc. civ., in ragione dell’ambito applicativo dell’art. 1306, primo comma, cod. civ. (secondo cui la sentenza emessa tra un coobbligato ed il creditore non ha effetto nei confronti dei coobbligati rimasti estranei alla controversia) e, in definitiva, della legittimazione disgiunta a contraddire in capo a ciascun coobbligato e, prima ancora, del concetto stesso di solidarietà, per effetto della regola generale secondo cui il creditore può domandare a ciascuno dei coobbligati l’adempimento dell’intera obbligazione, impone di attribuire un peso particolare all’interesse qualificato del co -obbligato a non subire pregiudizio dalla riforma della sentenza impugnata dall’altro co-obbligato solidale in funzione di un corretto riparto dell’obbligazione in sede di regresso, legittimandolo a servirsi di tale rimedio impugnatorio, ancorché in via tardiva.
15. In conclusione, dichiarata l’infondatezza dei motivi di ricorso principale e l’inammissibilità di quello incidentale adesivo autonomo, deve disporsi il rigetto del primo e dichiararsi l’inammissibilità del secondo. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono e devono essere poste a carico delle ricorrenti, principale e incidentale.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti principale e incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e dichiara l’inammissibilità di quello incidentale.
Condanna la ricorrente principale e quella incidentale al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.500,00 per compensi, ciascuna, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale e incidentale del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 21/11/2024