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Affidamento incolpevole: INPS non paga i danni

La Corte di Cassazione ha stabilito che l’accettazione di una domanda di riscatto da parte dell’INPS non genera un affidamento incolpevole nel cittadino riguardo al raggiungimento dei requisiti pensionistici. Di conseguenza, è stato negato il risarcimento a un lavoratore che si era dimesso confidando erroneamente nel suo diritto alla pensione. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, specificando che l’accoglimento dell’istanza di riscatto non costituisce una certificazione della posizione contributiva complessiva.

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Pubblicato il 13 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Affidamento Incolpevole: Quando la Comunicazione dell’INPS non Basta per il Risarcimento

L’ordinanza in esame affronta un tema delicato nei rapporti tra cittadini ed enti previdenziali: il principio di affidamento incolpevole. Un lavoratore, convinto di aver maturato i requisiti per la pensione, si dimette dopo aver ricevuto una comunicazione favorevole dall’INPS riguardo a una domanda di riscatto. Quando l’ente previdenziale annulla il suo stesso atto, il sogno della pensione svanisce, lasciando il posto a una richiesta di risarcimento danni. La Corte di Cassazione, con questa decisione, traccia una linea netta tra le diverse comunicazioni dell’Istituto e il loro valore certificativo, negando il risarcimento.

I Fatti di Causa

Un lavoratore, confidando di aver raggiunto il requisito contributivo necessario per la pensione, rassegnava le proprie dimissioni. La sua convinzione si basava sull’accoglimento da parte dell’INPS di una sua istanza di riscatto, presentata mediante la costituzione di una rendita vitalizia. Successivamente, però, l’INPS, agendo in autotutela, annullava tale accoglimento per insussistenza dei presupposti originari. Il lavoratore, rimasto senza lavoro e senza pensione, decideva di agire in giudizio contro l’INPS chiedendo il risarcimento dei danni subiti, fondando la sua pretesa sull’affidamento incolpevole generato dalla condotta dell’ente.

La Decisione della Corte d’Appello

La Corte d’Appello, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda del lavoratore. Secondo i giudici di merito, l’errore del lavoratore nasceva non da una comunicazione errata sulla sua posizione contributiva complessiva, ma dall’aver interpretato l’accoglimento dell’istanza di riscatto come una certificazione del diritto alla pensione. La Corte ha precisato che una domanda di riscatto non equivale a una richiesta di estratto conto contributivo e che, di conseguenza, la comunicazione di accoglimento da parte dell’INPS non poteva essere intesa come una garanzia del raggiungimento dei requisiti pensionistici. Pertanto, la condotta dell’INPS non era stata tale da generare un legittimo affidamento meritevole di tutela risarcitoria.

Il Ricorso per Cassazione e l’Affidamento Incolpevole

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione, lamentando principalmente due aspetti:
1. Violazione di legge: per aver la Corte d’Appello attribuito una portata troppo limitata alla comunicazione dell’INPS, escludendo che potesse generare un affidamento incolpevole tutelabile.
2. Omesso esame di un fatto decisivo: per non aver considerato la condotta dell’INPS contraria al dovere di correttezza e buona fede sancito dall’art. 1175 del codice civile.

In sostanza, il ricorrente sosteneva che l’ente previdenziale avesse agito in modo da indurlo in errore, spingendolo a prendere la decisione irreversibile delle dimissioni.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione d’appello. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ribadito che il loro sindacato sulla motivazione di una sentenza è limitato al cosiddetto “minimo costituzionale”. Ciò significa che una sentenza può essere cassata solo se la motivazione è totalmente assente, meramente apparente, o se presenta un contrasto insanabile tra affermazioni inconciliabili. Non è possibile, invece, censurare la semplice insufficienza della motivazione.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la motivazione della Corte d’Appello fosse adeguata e logicamente coerente. I giudici di secondo grado avevano chiaramente spiegato perché la condotta dell’INPS non potesse fondare una responsabilità per affidamento incolpevole. Il ricorrente, secondo la Cassazione, attraverso le sue doglianze, non stava denunciando un vero vizio di motivazione o una violazione di legge, ma stava tentando di ottenere un riesame dei fatti e delle prove, chiedendo alla Corte di fornire una diversa interpretazione del materiale probatorio. Questa attività, tuttavia, è preclusa nel giudizio di legittimità.

Conclusioni

La pronuncia è di notevole importanza pratica. Essa chiarisce che non tutte le comunicazioni provenienti dall’INPS hanno lo stesso valore. L’accettazione di una domanda di riscatto è un atto procedimentale specifico e non può essere equiparato a una certificazione ufficiale del diritto alla pensione (come, ad esempio, l’estratto conto certificativo). I cittadini devono quindi prestare massima attenzione e, prima di prendere decisioni drastiche come le dimissioni, è fondamentale richiedere all’ente previdenziale i documenti specifici che attestino in modo inequivocabile la propria posizione contributiva. L’affidamento incolpevole può essere tutelato solo quando l’errore del cittadino è direttamente e inequivocabilmente causato da un’informazione sbagliata fornita dall’ente su un aspetto specifico e certificato, cosa che in questo caso non è stata ravvisata.

L’accettazione di una domanda di riscatto da parte dell’INPS genera un affidamento incolpevole sul diritto alla pensione?
No. Secondo questa ordinanza, l’accoglimento di un’istanza di riscatto non equivale a una certificazione del raggiungimento dei requisiti per la pensione e non genera un affidamento tutelabile che possa dar luogo a risarcimento danni in caso di successivo annullamento dell’atto.

Perché la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso?
La Corte ha ritenuto che i motivi del ricorso, pur formulati come violazioni di legge o vizi di motivazione, mirassero in realtà a ottenere un riesame dei fatti e delle prove del caso, attività che non è consentita nel giudizio di Cassazione, il quale si limita a un controllo di legittimità.

Cosa si intende per ‘minimo costituzionale’ della motivazione di una sentenza?
Significa che la motivazione deve esistere e non essere meramente apparente o palesemente contraddittoria. La Cassazione può annullare una sentenza solo se la motivazione è graficamente mancante, talmente illogica da non far comprendere il ragionamento del giudice, o se contiene affermazioni inconciliabili. Non può, invece, sindacare se la motivazione sia sufficientemente convincente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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