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Affidamento di fatto: prova senza contratto scritto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16445/2024, ha stabilito che per i rapporti bancari sorti prima del 1992, la prova di un’apertura di credito non necessita di un contratto scritto. L’esistenza di un “affidamento di fatto” può essere dimostrata attraverso il comportamento concludente delle parti, come la sistematica accettazione di scoperti di conto. La Corte ha cassato la sentenza d’appello che, richiedendo la prova scritta, aveva erroneamente considerato prescritto il diritto di un cliente a recuperare somme indebitamente pagate.

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Pubblicato il 27 novembre 2025 in Diritto Bancario, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Affidamento di Fatto: La Cassazione Conferma la Prova Senza Contratto Scritto

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio fondamentale per i rapporti bancari di lunga data, stabilendo che la prova di un affidamento di fatto non richiede necessariamente un contratto scritto, specialmente per le relazioni contrattuali sorte prima della legislazione del 1992. Questa decisione ha importanti implicazioni per i correntisti che agiscono in giudizio per la ripetizione di somme indebitamente pagate a titolo di interessi anatocistici e ultralegali.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine dalla richiesta di una società cliente nei confronti di un istituto di credito per la restituzione di somme pagate per interessi anatocistici, commissioni di massimo scoperto e altri oneri ritenuti illegittimi. In primo grado, il tribunale aveva dato ragione alla società. Tuttavia, la Corte d’Appello aveva ribaltato la decisione, accogliendo l’eccezione di prescrizione sollevata dalla banca.

Secondo i giudici d’appello, in assenza di un contratto scritto di apertura di credito, non era possibile dimostrare l’esistenza di un fido. Di conseguenza, tutti i versamenti (rimesse) effettuati dalla società sul conto corrente erano stati classificati come ‘solutori’, ovvero come pagamenti di un debito. Questo ha comportato che il termine di prescrizione per la richiesta di restituzione decorresse da ogni singolo versamento, portando alla prescrizione dei diritti della società.

La Prova dell’Affidamento di Fatto secondo la Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso della società, cassando la sentenza d’appello. Il punto centrale della decisione riguarda la modalità di prova dell’apertura di credito in un’epoca in cui la legge non imponeva la forma scritta per i contratti bancari. La legge n. 154 del 1992 (confluita poi nel Testo Unico Bancario) ha introdotto l’obbligo della forma scritta, ma tale norma non può essere applicata retroattivamente.

La Cassazione ha chiarito che, per i rapporti sorti prima di tale legge, era pienamente ammissibile la conclusione di un contratto di apertura di credito per facta concludentia. In altre parole, l’esistenza di un fido poteva essere desunta dal comportamento concreto e reiterato della banca, come ad esempio l’aver costantemente permesso al cliente di operare con un saldo negativo o l’aver pagato assegni nonostante lo scoperto di conto. Questo comportamento dimostra l’esistenza di un accordo, anche se non formalizzato per iscritto.

Le Motivazioni della Decisione

I giudici di legittimità hanno sottolineato che la Corte d’Appello ha commesso un errore nel pretendere una prova documentale che la normativa dell’epoca non richiedeva. Ritenere che l’affidamento dovesse essere provato solo per iscritto significava applicare retroattivamente un obbligo di forma introdotto solo nel 1992, violando un principio cardine dell’ordinamento giuridico.

La Corte ha ribadito che la prova dell’affidamento di fatto può essere fornita anche tramite presunzioni semplici, ovvero attraverso un ragionamento logico che, partendo da fatti noti e provati (come l’analisi degli estratti conto che mostrano una tolleranza costante agli scoperti), permette di risalire al fatto ignoto (l’esistenza dell’accordo di fido). L’erronea impostazione della Corte d’Appello ha precluso alla società la possibilità di dimostrare la natura ‘ripristinatoria’ delle sue rimesse, con conseguenze dirette e decisive sul calcolo della prescrizione.

Conclusioni e Implicazioni Pratiche

Questa ordinanza consolida un orientamento giurisprudenziale di grande importanza a tutela dei correntisti. Il principio affermato è che il formalismo non può prevalere sulla sostanza dei rapporti, specialmente quando la legge stessa non lo imponeva. Per tutti i contratti di conto corrente stipulati prima del 1992, il cliente può dimostrare l’esistenza di un’apertura di credito basandosi sull’analisi del comportamento tenuto dalla banca nel corso degli anni.

Di conseguenza, le banche non possono difendersi semplicemente negando l’esistenza di un contratto scritto, se la loro condotta passata dimostra il contrario. Questa decisione riapre la possibilità per molti clienti di agire per la restituzione di somme indebite, poiché la qualificazione delle rimesse come ‘ripristinatorie’ (e non ‘solutorie’) sposta in avanti il momento da cui inizia a decorrere la prescrizione decennale, facendola coincidere con la chiusura del conto corrente.

È possibile provare l’esistenza di una linea di credito bancaria senza un contratto scritto?
Sì, per i rapporti sorti prima dell’entrata in vigore della Legge n. 154 del 1992, la Corte di Cassazione ha confermato che l’esistenza di un’apertura di credito (affidamento di fatto) può essere provata anche attraverso il comportamento concludente della banca, senza la necessità di un documento formale.

Perché la distinzione tra rimesse ‘solutorie’ e ‘ripristinatorie’ è cruciale per la prescrizione?
La distinzione è fondamentale perché le rimesse ‘solutorie’ (versamenti su un conto scoperto senza fido) sono considerate pagamenti di un debito e il termine di prescrizione per chiederne la restituzione decorre da ogni singola operazione. Le rimesse ‘ripristinatorie’ (versamenti su un conto affidato entro i limiti del fido) non sono pagamenti, ma ripristinano la disponibilità del credito; in questo caso, la prescrizione per la restituzione delle somme indebite decorre solo dalla data di chiusura del conto.

Qual è stato l’errore commesso dalla Corte d’Appello nel caso esaminato?
L’errore è stato quello di applicare retroattivamente l’obbligo della forma scritta per i contratti bancari, introdotto solo nel 1992. La Corte d’Appello ha erroneamente preteso una prova documentale per un rapporto sorto quando la legge non la richiedeva, escludendo a priori la possibilità di dimostrare un affidamento di fatto tramite il comportamento delle parti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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