Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 9712 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 9712 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/04/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 27408/2020 r.g. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE MONTE DEI PASCHI DI SIENA RAGIONE_SOCIALE, con sede in Siena, alla INDIRIZZO, in persona della procuratrice speciale NOME COGNOME, rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata al ricorso, dall’AVV_NOTAIO, presso il cui studio elettivamente domicilia in Roma, alla INDIRIZZO.
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, con sede in Molfetta (BA), alla INDIRIZZO, in persona del legale rappresentante pro tempore NOME COGNOME, rappresentata e difesa, giusta procura speciale allegata al controricorso, dagli AVV_NOTAIO NOME COGNOME e NOME COGNOME, con cui elettivamente domiciliano i Roma, alla INDIRIZZO (RAGIONE_SOCIALE).
–
contro
ricorrente –
avverso la sentenza, n. cron. 1462/2020, della CORTE DI APPELLO DI BARI, pubblicata il giorno 03/08/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 05/04/2024 dal AVV_NOTAIO.
FATTI DI CAUSA
RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE citò Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. (d’ora in avanti, anche, breviter , MPS) innanzi al Tribunale di Trani esponendo: i ) di avere intrattenuto, con Banca Cattolica Coop. di Credito, filiale di Molfetta, dal 12 aprile 1979, il conto corrente n. 11120216755, successivamente divenuto n. 10349 con l’acquisizione del menzionato istituto di credito da parte di Banca Antonveneta e rimasto tale anche dopo l’acquisizione di quest’ultima ad opera di MPS; ii ) che, nel corso del rapporto, chiuso il 22 marzo 2011, le erano stati addebitati importi per interessi superiori al tasso legale, benché non pattuiti, ed anatocistici, nonché penali, spese, commissioni e competenze parimenti non concordate. Chiese, pertanto, previa declaratoria di nullità delle corrispondenti clausole contrattuali, condannarsi MPS alla restituzione di quanto illegittimamente percepito per le menzionate causali.
1.1. Costituita si la convenuta, che, tra l’altro, contestò le avverse pretese eccependone pure la intervenuta prescrizione, l’adito tribunale, disposta ed espletata una consulenza contabile, accolse parzialmente la domanda dell’attrice e condannò MPS a corrisponderle la somma di € 46.313,74, oltre interessi legali dal 20 settembre 2013 fino al soddisfo.
Pronunciando sul gravame promosso da RAGIONE_SOCIALE contro quella decisione, l’adita Corte di appello di Bari, con sentenza del 3 agosto 2020, n. 1462, resa nel contraddittorio con MPS, lo accolse, per quanto di ragione, dichiarando la detta banca tenuta a restituirle l’importo di € 282.873,67 e condannandola, pertanto, al pagamento, in suo favore, della residua somma di € 236.559,93 (€ 282.873,67 -€ 46.313, 74), oltre interessi legali dal 20 settembre 2013 fino al soddisfo.
2.1. Per quanto ancora di interesse in questa sede, quella corte, dopo aver descritto i formulati motivi di appello: i ) ritenne « provato, sulla scorta di plurimi e convergenti elementi indiziari, un affidamento di fatto, concesso dalla banca sin da epoca immediatamente successiva all’apertura del rapporto di conto corrente. L’esistenza dell’affidamento, infatti, non deve necessariamente essere provata con la formale stipulazione del contratto di apertura di credito, potendosi evincere anche per facta concludentia , vale a dire risultare dal contegno tenuto dalla banca nella gestione del conto, non assolvendosi alla prova dell’affidamento solamente attraverso la produzione in giudizio del relativo contratto scritto, ma anche per il tramite di prove indirette che implichino, inequivocamente, riconoscimento, da parte della banca, dell’avvenuta concessione del fido. . Va ricordato, inoltre, che la nullità del contratto bancario amorfo -come, in generale, le nullità previste dalle norme di trasparenza del T.U.B. -è nullità unilaterale, che può essere fatta valere solo dal cliente, ovvero anche d’ufficio dal giudice, purché ciò avvenga nell’interesse di quest’ultimo. Né può ritenersi che, in assenza di contratto scritto, non sarebbe possibile accertare il limite massimo dell’affidamento, in quanto la predeterminazione di tale limite massimo non costituisce elemento essenziale della causa di contratto di apertura credito in conto corrente , dovendosi, per converso, ritenere che, in presenza di fido di fatto, desumibile da elementi indiziari, ben possa il limite massimo essere individuato nello stesso massimo scoperto ‘di fatto’ consentito dalla banca prima dell’adozione, da parte di quest’ultima, di qualsivoglia iniziativa di rientro , gravando, al contrario, sulla banca l’onere di provare l’esistenza, nelle forme di legge, di un fido di diverso ammontare predeterminato »; ii ) considerò ripristinatorie tutte le rimesse effettuate sul conto dalla correntista dall’apertura del conto fino alla successiva for malizzazione del contratto di affidamento, altresì rimarcando che « il debito della correntista veniva via via alimentato dalle poste debitorie illegittimamente conteggiate dalla banca, relative all’applicazione di interessi ultralegali, anatocismo, illegittima antergazione e postergazione di valuta (così come ritenuto dal giudice di primo grado) ed all’applicazione di c.m.s. non pattuite o comunque, come di
seguito si chiarirà, non dovute per nullità della relativa pattuizione. Di tali illegittimi addebiti ritiene il Collegio che, ai fini del calcolo della prescrizione, il conto avrebbe dovuto, in ogni caso, essere epurato prima di procedere alla individuazione delle eventuali rimesse solutorie. Infatti, essendo imprescrittibile l’azione di accertamento della nullità della capitalizzazione trimestrale e di eventuali altre clausole contrattuali, l’accertamento di tale nullità comporta il venir meno della clausola ex tunc , vale a dire dal momento iniziale, travolgendo ogni effetto successivo, conseguendone che non può aversi riguardo al saldo banca, distorto dagli addebiti illegittimi, tali da modificare la natura delle rimesse »; iii ) affermò che, « decorrendo la prescrizione dalla data di chiusura del conto, il giudice di prime cure avrebbe dovuto correttamente considerare, al fine di determinare il credito in favore del correntista, le risultanze del conteggio n. 1 operato dal c.t.u. (che ha rideterminato le competenze e gli interessi per tutto il periodo di durata del conto corrente, dal 12.4.1979 al 22.3.201, con applicazione del tasso di interesse legale fino all’8.7.92, del tasso sostitutivo di cui all’art. 117 TUB dal 9.7.92 all’8.3.99 e dei tassi pattuiti o di quelli migliorativi applicati dalla banca per il periodo successivo, con capitalizzazione semplice per tutta la durata del rapporto, con esclusione delle spese in quanto non pattuite) che ha condotto all’accertamento, a credito del correntiste, di € 26 1.353,60, . Le doglianze dell’appellante si reputano fondate anche riguardo alla dedotta nullità della pattuizione di massimo scoperto . La Banca è quindi tenuta alla restituzione delle c.m.s. indebitamente applicate, nella misura richiesta dall’appellante di € 21.520,07 »; iv) concluse nel senso che «l’importo complessivamente dovuto al correntista, a titolo di restituzione di indebito, ammonta a complessivi € 282.873,67 (€ 261.353,60 + € 21.520,07), dovendo, quindi, la banca essere condannata a p agare l’ulteriore importo di € 236.559,93, quale differenza tra l’importo dovuto a titolo di restituzione e quello di € 46.313,74, riconosciuto con la sentenza di pr imo grado e già corrisposto. Su tale somma spettano gli interessi legali dal 20.9.2013 al soddisfo ».
Per la cassazione di questa sentenza ha promosso ricorso Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a., affidandosi ad un motivo, cui ha resistito, con controricorso, illustrato anche da memoria ex art. 380bis .1 cod. proc. civ., RAGIONE_SOCIALE
RAGIONI DELLA DECISIONE
L’unico formulato motivo di ricorso, rubricato, testualmente, « Violazione e/o falsa applicazione del principio di ripartizione dell’onere probatorio ex art. 297 c.p.c., con specifico riguardo alle azioni di ripetizione di indebito e alla qualificazione delle rimesse », contesta alla corte distrettuale di avere ritenuto sussistente, malgrado l’assenza della corrispondente prova scritta, un cd. affidamento di fatto rinveniente, in particolare, da elementi indiziari e dal solo presunto comportamento della banca di volere considerare non già scoperto, ma semplicemente passivo, il conto in questione. Tanto « appare evidentemente contrastante con i principi sanciti, oltre che dalla giurisprudenza di merito, anche dalla Corte di Legittimità, circa la ripartizione dell’onere della prova tra correntista e banca nelle azioni di ripetizione di indebito ». Secondo la ricorrente, dunque, doveva considerarsi insussistente la prova dell’esistenza di un affidamento, da ciò derivandone la natura solutoria di tutte le rimesse e la fondatezza dell’eccezione di prescrizione dalla stessa sollevata. Diversamente da quanto pure ritenuto dalla corte territoriale, infine, la pattuizione della clausola concernente la commissione di massimo scoperto doveva considerarsi assolutamente valida.
Va rapidamente disattesa l’eccezione di inammissibilità del motivo di ricorso, come sollevata dalla controricorrente, sul presupposto che l’articolo del codice di procedura civile richiamato nella sua rubrica (‘ 297 c.p.c .’) « non ha affatto alcuna attinenza con i fatti di causa e con la sentenza gravata ».
2.1. In proposito, infatti, è sufficiente ricordare che, in tema di ricorso per cassazione, l’erronea indicazione della norma violata nella rubrica del motivo non determina ex se l’inammissibilità di questo se la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale
della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura ( cfr . Cass. n. 12690 del 2018).
2.1.1. Nell’odierna fattispecie, le argomentazioni della doglianza di RAGIONE_SOCIALE denotano chiaramente che la stessa abbia inteso lamentare una pretesa violazione del riparto degli oneri probatori tra le parti, sicché può ragionevolmente concludersi nel senso che la indicazione dell’art. ‘ 297 c.p.c .’ nella rubrica del motivo altro non sia che un mero refuso, dovendosi evidentemente ritenere richiamato l’art. 2697 cod. civ..
Fermo quanto precede, la descritta doglianza di RAGIONE_SOCIALE si rivela infondata alla stregua delle argomentazioni tutte di cui appresso.
3.1. La corte di appello, come si è già riferito nel § 2.1. dei ‘ Fatti di causa ‘, ha ritenuto « provato, sulla scorta di plurimi e convergenti elementi indiziari, un affidamento di fatto, concesso dalla banca sin da epoca immediatamente successiva all’apertura del rapporto di conto corrente », rimarcando, « inoltre, che la nullità del contratto bancario amorfo -come, in generale, le nullità previste dalle norme di trasparenza del T.U.B. -è nullità unilaterale, che può essere fatta valere solo dal cliente, ov vero anche d’ufficio dal giudice, purché ciò avvenga nell’interesse di quest’ultimo ». Pertanto, ha considerato ripristinatorie tutte le rimesse effettuate sul conto dalla correntista dall’inizio del rapporto (12 aprile 1979) fino alla successiva formalizzazione del contratto di affidamento, con conseguente infondatezza della eccezione di prescrizione sollevata da MPS, dovendo il corrispondente termine decennale essere fatto decorrere dalla data di chiusura (22 marzo 2011) del conto. Ha opportunamente puntualizzato, peraltro, che « il debito della correntista veniva via via alimentato dalle poste debitorie illegittimamente conteggiate dalla banca, relative all’applicazione di interessi ultralegali, anatocismo, illegittima antergazione e postergazione di valuta (così come ritenuto dal giudice di primo grado) ed all’applicazione di c.m.s. non pattuite o comunque, , non dovute per nullità della relativa pattuizione. Di tali illegittimi addebiti ritiene il Collegio che, ai fini del calcolo della prescrizione, il conto avrebbe dovuto, in ogni caso, essere epurato prima
di procedere alla individuazione delle eventuali rimesse solutorie. Infatti, essendo imprescrittibile l’azione di accertamento della nullità della capitalizzazione trimestrale e di eventuali altre clausole contrattuali, l’accertamento di tale nullità compo rta il venir meno della clausola ex tunc, vale a dire dal momento iniziale, travolgendo ogni effetto successivo, conseguendone che non può aversi riguardo al saldo banca, distorto dagli addebiti illegittimi, tali da modificare la natura delle rimesse ».
3.2. Tale modus procedendi si rivela assolutamente coerente con la più recente giurisprudenza di questa Corte, la quale ha chiarito che: i ) nelle controversie aventi ad oggetto la domanda di ripetizione di indebito conseguente alla declaratoria di nullità delle clausole contrattuali e delle prassi bancarie contrarie a norme imperative ed inderogabili, la ricerca dei versamenti di natura solutoria deve essere preceduta dall’individuazione e dalla successiva cancellazione dal saldo di tutte le competenze illegittime applicate dalla banca e dichiarate nulle dal giudice di merito, di talché il dies a quo della prescrizione dell’azione inizia a decorrere soltanto per quella parte delle rimesse sul conto corrente eccedenti il limite dell’affidamento determinato dopo aver rettificato il saldo ( cfr . Cass. n. 7721 del 2023, alle cui esauriente argomentazioni può qui farsi rinvio ex art. 118, comma 1, disp. att. cod. proc. civ.); ii ) in tema di rapporti di conto corrente bancario, qualora, a fronte di un’azione di ripetizione dell’indebito esercitata dal correntista, la banca convenuta eccepisca la prescrizione del diritto di credito sul presupposto della natura solutoria delle rimesse, l’esistenza di un contratto di apertura di credito che consenta di attribuire semplice natura ripristinatoria della provvista alle rimesse oggetto della ripetizione dell’indebito e, conseguentemente, di far decorrere il termine di prescrizione a far data dalla chiusura del rapporto, costituisce una eccezione in senso lato, come tale rilevabile d’ufficio dal giudice (anche in grado di appello), purché l’affidamento risulti dai documenti legittimamente acquisiti al processo o dalle deduzioni contenute negli atti difensivi delle parti ( cf r. Cass. n. 20455 del 2023, alle cui motivazione può parimenti farsi rinvio ex art. 118, comma 1, disp. att. cod. proc. civ.); iii ) in tema di prescrizione del diritto alla ripetizione di somme
affluite sul conto corrente, la prova della natura ripristinatoria delle rimesse, di cui è onerato il correntista, come i suoi aventi causa, può essere fornita dando riscontro, attraverso presunzioni, della conclusione del contratto di apertura di credito, quando tale contratto sia stato concluso prima dell’entrata in vigore della legge n. 154 del 1992 e del d.lgs. n. 385 del 1993, o quando, pur operando, per il periodo successivo a quest’ultima disciplina, la nullità del contratto per vizio di forma, il correntista o il suo avente causa non facciano valere, a norma dell’art. 127, comma 2, del citato d.lgs., la nullità stessa ( cfr. Cass. n. 34997 del 2023).
3.2.1. Proprio in ragione di tale ultima pronuncia, allora, può opinarsi che l’appellante, odierna controricorrente, non era tenuta a dar prova scritta dell’apertura di credito.
3.2.2. Invero, come emerge dalla sentenza impugnata il rapporto di conto corrente di cui si discute sorse nell’aprile del 1979; in conseguenza, la coeva conclusione di un contratto di apertura di credito non avrebbe dovuto documentarsi per iscritto a pena di nullità: nel regime previgente all’entrata in vigore dell’art. 3 della legge n. 154 del 1992, il quale ha imposto l’obbligo della forma scritta ai contratti relativi alle operazioni e ai servizi bancari, era consentita la conclusione per facta concludentia di un contratto di apertura di credito, alla luce del comportamento rilevante della banca ( cfr . Cass. n. 17090 del 2008). Nella vigenza del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia del 1993, la nullità per il difetto di forma di cui all’art. 117, comma 1, T.U.B. integra -poi -una nullità di protezione, potendo essa operare « soltanto a vantaggio del cliente » (art. 127, comma 2, T.U.B.): con la conseguenza che il mancato rispetto dell’obbligo di documentazione dell’accordo è inopponibile al correntista che non abbia inteso far valere il vizio che affligge il negozio ( cfr ., in motivazione, Cass. n. 34997 del 2023).
3.3. Merita condivisione, inoltre, l’affermazione della corte di appello secondo cui è possibile la dimostrazione per presunzioni del contratto di apertura di credito.
3.3.1. Le presunzioni semplici sono sicuramente delle prove: esse sono disciplinate nel titolo II del libro VI del codice civile, dedicato appunto alle
prove; significativamente le presunzioni sono alternativamente definite come « prove indirette » o « prove critiche ».
3.3.2. L’art. 2725 cod. civ. (norma che rientra tra quelle richiamate dall’art. 2729, comma 2, cod. civ., dettato in tema di presunzioni) è evidentemente inapplicabile ai contratti di apertura di credito conclusi in epoca in cui i medesimi non dovevano stipularsi per iscritto a pena di nullità.
3.3.3. Ma non lo è pure nei confronti di quei contratti conclusi nel vigore del testo unico bancario in una forma diversa da quella scritta, ove il cliente della banca decida di non opporre la nullità: poiché, come sopra accennato, la nullità opera « soltanto a vantaggio del cliente », l’obbligo di forma posto dal cit. art. 117, comma 1, la cui inosservanza è sanzionata con la nullità del contratto, non ha modo di operare ove la controparte della banca intenda avvalersi del contratto stesso, con ciò rinunciando ad invocare in giudizio il vizio che affligge il negozio. Né rileva che, giusta l’art. 127, comma 2, T.U.B., la nullità di protezione possa essere rilevata d’ufficio dal giudice. Infatti, se la rilevazione ex officio delle nullità negoziali, intesa come indicazione alle parti di tale vizio, è sempre obbligatoria, purché la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata « ragione più liquida », la loro «dichiarazione», ove sia mancata un’espressa domanda della parte pure all’esito della suddetta indicazione officiosa, costituisce statuizione facoltativa del medesimo vizio, previo suo accertamento: sempre che, però, non vengano in questione -come nel caso in esame -nullità speciali, le quali presuppongono una manifestazione di interesse della parte ( cfr . Cass., SU, nn. 26242 e 26243 del 2014; in senso conforme, di recente, Cass. n. 39437 del 2021).
3.3.4. Se, dunque, rientra nella disponibilità esclusiva del cliente della banca la scelta se far valere, o meno, in giudizio un contratto privo del requisito di forma, ciò significa, di riflesso, che al cliente che invochi il detto contratto non si può opporre l’onere di darne prova documentale, onde la conclusione del negozio ben potrà da lui fornirsi attraverso presunzioni, senza incontrare il limite segnato dall’art. 2724, n. 3), cod. civ., cui rinvia l’art. 2725 ( cfr . Cass. n. 34997 del 2023).
3.4. È vero che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’esistenza di un contratto di apertura di credito bancario non può essere ricavata, per facta concludentia , dalla mera tolleranza di una situazione di scoperto ( cfr . Cass. n. 8160 del 1999) e che, in particolare, una situazione di fatto caratterizzata dallo svolgimento di un conto passivo con adempimenti reiterati, da parte della banca, di ordini di pagamento del correntista, anche in assenza di provvista e nell’ambito dei limiti di rischio dalla stessa banca preventivamente valutati, non dimostra, in sé, la stipulazione, per fatti concludenti, di un contratto di apertura di credito in conto corrente, con obbligo della banca di eseguire operazioni di credito passive, potendo la suddetta situazione di fatto trovare fondamento in una posizione di mera tolleranza da parte della banca stessa ( cfr . Cass. n. 12947 del 1992).
3.4.1. Ciò non significa, tuttavia, che sia impedita la prova per presunzioni dell’apertura di credito: vuol dire, piuttosto, che una presunzione, quanto all’esistenza dell’apertura di credito, non possa trarsi dalle descritte situazioni. Ebbene, la corte di appello ha utilizzato proprio la prova presuntiva (indicando gli elementi indiziari a tal fine considerati) al fine di ritenere comunque dimostrata l’esistenza di un affidamento del conto corrente in questione fin dalla sua apertura: il che, quindi, è corretto in diritto.
3.5. Del resto, l’inutilizzabilità della prova per presunzioni nemmeno può trovare fondamento nel rilievo per cui, nella fattispecie, occorreva aver certezza quanto al limite dell’affidamento. Poiché nella prospettiva sopra indicata (avendo cioè riguardo alla disciplina anteriore alla legge n. 154/1992 ed al regime della nullità di protezione) -la pattuizione di un obbligo della banca di eseguire operazioni di credito bancario passive può emergere dallo stesso contegno della stessa nella gestione del conto, la predeterminazione del limite massimo della somma accreditabile non costituisce elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito in conto corrente ( cfr. Cass. 23 aprile 1996, n. 3842 del 1996, ribadita, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 34997 del 2023). A fronte di presunzioni gravi, precise e concordanti quanto al reciproco consenso manifestato dalle parti in ordine alla messa a disposizione della provvista con cui far fronte a scoperti del conto
non rileva che le parti abbiano mancato di individuare il limite delle somme che la banca avrebbe temporaneamente accreditato al cliente: lo scoperto che la banca ha in concreto consentito ben può rappresentare espressione della volontà di concedere un’apertura di credito per somma pari a tale valore monetario.
3.5.1. Resta ovviamente demandato al giudice del merito, e quindi, nel caso in esame, a quanto già opinato, sul punto, dalla corte distrettuale (con valutazione non ulteriormente sindacabile in questa sede, se non sotto un profilo di vizio motivazionale -peraltro nei ristretti limiti in cui oggi ancora lo consente il novellato art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc civ., applicabile ratione temporis -qui nemmeno prospettato), l’accertamento circa l’esistenza, affermata da quella corte, di un’effettiva volontà negoziale nel senso sopra indicato.
3.6. Resta solo da dire, quanto, alla ritenuta nullità della pattuizione della commissione di massimo scoperto, che la valutazione effettuatane dalla corte distrettuale si rivela affatto coerente con la qui condivisa giurisprudenza di legittimità secondo cui « deve considerarsi nulla per indeterminatezza dell’oggetto la clausola che preveda la commissione di massimo scoperto indicandone semplicemente la misura percentuale, senza specificare le modalità di calcolo e di quantificazione della stessa, posto che, in tal caso, il correntista non è, invero, in grado di conoscere quando e come sorgerà l’obbligo di dover corrispondere la suddetta commissione alla banca. Non è perciò legittima una clausola negoziale nella quale la commissione di massimo scoperto viene indicata unicamente mediante una determinata percentuale, senza alcun riferimento al valore sul quale dovesse essere calcolata tale percentuale » ( cfr ., in motivazione, Cass. n. 19825 del 2022).
3.6.1. Ragioni di completezza, infine, impongono di precisare che il Collegio conosce la recente statuizione di Cass. n. 1373 del 2024, a tenore della quale ‘ In tema di conto corrente bancario, non è nulla la clausola contrattuale che individui la commissione di massimo scoperto mediante la sola specificazione del tasso percentuale, senza alcun riferimento alla periodicità di calcolo, qualora detta periodicità sia comunque determinabile
facendo corretto uso delle regole di interpretazione del contratto, avuto riguardo, in particolare, alla necessità di tener conto delle altre previsioni negoziali e di una interpretazione del testo compiuta secondo buona fede e in modo da valorizzare la comune volontà delle parti ‘. Nella specie, tuttavia, l’assoluta carenza di indicazione, in ricorso, delle clausole negoziali relative al contratto di conto corrente de quo in esame impedisce qualsivoglia ulteriore valutazione.
4. In conclusione, dunque, l’odierno ricorso promosso da Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. deve essere respinto, restando a suo carico le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi controricorrente, con attribuzione, ex art. 93 cod. proc. civ., ai suoi difensori, AVV_NOTAIO NOME COGNOME e NOME COGNOME, dichiaratisene anticipatari, altresì dandosi atto, -in assenza di ogni discrezionalità al riguardo ( cfr . Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 -che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte della medesima ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre « spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento ».
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso di Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. e la condanna al pagamento delle spese di questo giudizio di legittimità sostenute da RAGIONE_SOCIALE, liquidate in complessivi € 12.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00, ed agli accessori di legge, con attribuzione, ex art. 93 cod. proc. civ., ai suoi difensori, AVV_NOTAIO NOME COGNOME e NOME COGNOME, dichiaratisene anticipatari.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza
dei presupposti processuali per il versamento, ad opera della medesima ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, giusta il comma 1bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima sezione civile