Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 4093 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 4093 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26770/2020 R.G. proposto da :
UNIVERSITA’ STUDI G. COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOMECOGNOMENOME COGNOME ed elettivamente domiciliata in ROMA LARGO INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
COGNOME COGNOMENOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME e COGNOME
-controricorrenti- nonché contro
MINISTERO DELLA SALUTE, MINISTERO DELLA SALUTE, MINISTERO ECONOMIA FINANZE, MINISTERO ECONOMIA FINANZE, MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA, -intimati-
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che lo rappresenta e difende
-resistente- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO L’AQUILA n. 100/2020 depositata il 06/02/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 05/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.
la Corte d’Appello di L’Aquila, accogliendo il gravame proposto dai medici meglio indicati in epigrafe, ha rideterminato il trattamento economico agli stessi spettante per il periodo tra il 1993 ed il 2006 (compresi) , calcolando in loro favore l’adeguamento triennale della borsa di studio di cu i all’art . 6 del d.lgs. n. 257 del 1991, in forza di sentenza (n. 1490/2013) passata in giudicato della medesima Corte d’Appello, di mero accertamento di quel diritto;
la Corte territoriale riteneva che, stante la sussistenza del giudicato, non si potesse più discutere né della questione sulla legittimazione passiva dell’Università di L’Aquila, ivi sancita, né della spettanza di quell’adeguamento;
pertanto, sebbene la pronuncia in giudicato non indicasse alcun parametro per quella rideterminazione triennale, la Corte d’Appello riteneva che a tale determinazione si potesse giungere
considerando l’intera retribuzione comprensiva dai medici del S.S.N. all’inizio della loro carriera, valutandone la proporzione differenziale rispetto al valore della borsa di studio del momento iniziale del calcolo e quindi attribuendo un importo di pari proporzione in ragione degli incrementi stabiliti dai contratti collettivi del trattamento dei medici del S.S.N., nel periodo interessato;
2.
l’Università degli Studi ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, resistiti da controricorso dei medici, mentre la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha depositato atto di sola costituzione in giudizio e le altre parti pubbliche sono rimaste intimate;
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.
con il primo motivo di ricorso l’Università adduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 n. 3 c.p.c.) con riferimento alla parte della sentenza impugnata in cui la Corte distrettuale ha ritenuto di non poter esaminare la questione sulla legittimazione passiva dell’Università per effetto della pronuncia passata in giudicato, sottolineando come solo la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed i Ministeri fossero preposti all’erogazione dei finanziamenti necessari ad alimentare le borse di studio e dovessero qui di rispondere dei crediti rivendicati in causa;
con il secondo motivo la violazione di legge è dedotta con riferimento al fatto che, in assenza di elementi concreti desumibili dalla sentenza passata in giudicato, una determinazione dell’adeguamento delle borse di studio era in realtà impossibile per mancanza dei necessari decreti ministeriali, mai emanati per il blocco di quegli adeguamenti disposto dalla legislazione primaria;
il terzo motivo sostiene infine la violazione e falsa applicazione delle norme sulla regolazione delle spese di giudizio, sul presupposto che le uniche responsabili della vicenda sarebbero da considerare le amministrazioni statali, che dovrebbero quindi anche sopportare gli oneri processuali consequenziali;
2.
preliminarmente, si rileva come non risulti del tutto chiaro se il difensore dell’Università sia un dipendente di essa o un legale del libero foro;
tuttavia, se anche quest’ultima fosse l’ipotesi, la proposizione dell’impugnativa sulla base di una mera decisione del rettore sarebbe da considerare del tutto valida;
vale infatti il principio delineato da Cass., S.U., 20 ottobre 2017, n. 24876, secondo cui « ai sensi dell’art. 43 del r.d. n. 1611 del 1933 -come modificato dall’art. 11 della I. 3 aprile 1979 n. 103 – la facoltà per le Università statali di derogare, “in casi speciali” al “patrocinio autorizzato” spettante per legge all’Avvocatura dello Stato, per avvalersi dell’opera di liberi professionisti, è subordinata all’adozione di una specifica e motivata deliberazione dell’ente (ossia del rettore) da sottoporre agli organi di vigilanza (consiglio di amministrazione) per un controllo di legittimità. In via generale, la mancanza di tale controllo determina la nullità del mandato alle liti, non rilevando che esso sia stato conferito con le modalità prescritte dal regolamento o dallo statuto dell’Università, fonti di rango secondario insuscettibili di derogare alla legislazione primaria. Tuttavia, nei casi in cui ricorra una vera e propria urgenza, ai sensi dell’art. 12 del r.d. n. 1592 del 1933, il rettore, quale presidente del consiglio d’amministrazione, può provvedere direttamente al conferimento dell’incarico all’avvocato del libero foro, purché curi di far approvare sollecitamente la relativa delibera dal consiglio, così sanando l’originaria irregolarità. Inoltre, in base al citato art. 43, è valido il mandato conferito ad avvocati del libero foro con il solo
provvedimento del rettore, non seguito dal vaglio del consiglio, nel caso in cui si verifichi in concreto un conflitto di interessi sostanziali tra più enti pubblici parti nel medesimo giudizio, rendendo un simile conflitto di interessi – che deve essere reale, non meramente ipotetico e documentato -non ipotizzabile il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato in favore dell’Università, sicché non vi è alcuna ragione di richiedere la suindicata preventiva autorizzazione »;
nel caso di specie, è palese il conflitto di interessi esistente con le amministrazioni statali destinate al patrocinio ineludibile dell’Avvocatura dello Stato, stante il persistente dibattito sulla legittimazione passiva rispetto ai crediti azionati dai medici;
3.
ciò posto, ed iniziando la disamina dal secondo motivo di ricorso, il collegio ritiene che esso sia fondato;
non vi è dubbio che il diritto riconosciuto dalla Corte d’Appello sia quello alla borsa di studio secondo le misure e gli incrementi di cui all’art. 6 del d. lgs. n. 257 del 1991, perché in tal senso la sentenza è esplicita, come lo è anche la sentenza passata in giudicato su cui la pronuncia qui impugnata si basa;
l’art. 6, stabilisce peraltro che la rideterminazione -che è quanto oggetto della presente causa -avvenga « ogni triennio, con decreto del Ministro della sanità, di concerto con i Ministri dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica e del tesoro, in funzione del miglioramento stipendiale tabellare minimo previsto dalla contrattazione relativa al personale medico dipendente del Servizio sanitario nazionale »;
è poi vero che l’accertamento del diritto a quella rideterminazione è contenuto in una sentenza passata in giudicato formale, ma è anche vero che quel diritto non esiste a prescindere dai decreti ministeriali che sono deputati a stabilirne l’ammontare;
il rinvio a quella decretazione complessa ed oggetto di concerto intragovernativo sta a significare che la fonte secondaria era chiamata a regolare discrezionalmente quella fattispecie, potendosi stabilire criteri e modi di quella rideterminazione, che non sono suscettibili di sostituzione ad opera di un intervento giudiziale che necessariamente, sovrapponendo un proprio criterio (qui, della proporzionalità calcolata secondo quanto indicato nel riepilogo dello storico di lite), a quelli che erano rimessi alla discrezionalità normativa ministeriale, finisce per divenire -pur nella logicità in sé dell’argomentazione arbitrario;
d’altra parte, il profilo è stato trascurato dalla sentenza sul cui giudicato si fonda l’azione svolta in questa causa, in quanto, nel riconoscere il diritto essa non ha tenuto conto dalla sua completa fattispecie, che ricomprende inevitabilmente quei decreti ministeriali, in realtà mai emanati;
la mancata emanazione dei decreti attuativi non è del resto casuale, visto che la stessa giurisprudenza di questa S.C. si è -dopo iniziali incertezze -dapprima ampiamente stabilizzata e consolidata nel senso che quegli incrementi non spettassero, fino ad una pronuncia ultima delle Sezioni Unite che ha finito per ribadire il principio per cui « l’importo delle borse di studio dei medici specializzandi iscritti ai corsi di specializzazione negli anni accademici compresi tra il 1992/1993 e il 2005/2006 non è soggetto né all’incremento annuale in relazione alla variazione del costo della vita né all’adeguamento triennale, previsti dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 257 del 1991, in virtù del blocco di tali aggiornamenti previsto, con effetti convergenti e senza soluzione di continuità, dall’art. 7, comma 5, d.l. n. 384 del 1992, conv. dalla l. n. 438 del 1992, come interpretato dall’art. 1, comma 33, della l. n. 549 del 1995; dall’art. 3, comma 36, della l. n. 537 del 1993; dall’art. 1, comma 66, della l. n. 662 del 1996; dall’art. 32, comma 12, della l. n. 449 del 1997; dall’art. 22 della l. n. 488 del 1999;
dall’art. 36 della l. n. 289 del 2002 » (Cass., S.U. 19 luglio 2024, n. 20006);
detto altrimenti, il tema non è quello di un diritto riconosciuto nell’ an e da determinarsi nel quantum , ma di un diritto che esiste, per struttura normativa, nella misura in cui i decreti ministeriali lo abbiano riconosciuto e che invece, stante il blocco disposto dalla legislazione successiva, non è mai potuto sorgere, proprio per la mancanza di quei decreti;
il giudicato su una sola parte della fattispecie è dunque in sé impossibile ad essere attuato, perché il diritto ha quella conformazione e non altre, senza contare che, ai sensi dell’art. 1173 c.c., le obbligazioni devono comunque nascere per legge, per contratto o per altri atti o fatti idonei, ma pur sempre « in conf ormità dell’ordinamento giuridico »;
l’integrazione di quel giudicato con parametri determinativi delle somme dovute estranei rispetto alla fattispecie propria di quel diritto non è dunque ammissibile;
il diritto di cui all’art. 6 in definitiva non sorge e non può essere utilmente riconosciuto -come tale – se non in dipendenza di quei decreti ministeriali, che mai sono stati emanati per le ragioni appena dette;
3.1
si deve del resto considerare che, come precisato dalle S.U. nel precedente appena citato « l’attività svolta dai medici iscritti alle scuole di specializzazione universitarie non è inquadrabile nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato né del lavoro parasubordinato, non essendo ravvisabile una relazione sinallagmatica di scambio tra la suddetta attività e la remunerazione prevista dalla legge », trattandosi, piuttosto « di un rapporto di diritto privato come tale sottratto ai limiti ed ai vincoli di disciplina che sono invece propri del rapporto di lavoro
subordinato o parasubordinato, in ragione della rilevanza costituzionale e sovranazionale dei diritti coinvolti »;
quelli oggetto di causa sono dunque una situazione giuridica ed un rapporto a sé stanti e soggetti a regolazione legale, nei termini -non scindibili -di cui si è detto e non sostituibili attraverso altri parametri normativi;
3.2
per analoghe ragioni neanche vi è da ipotizzare una determinazione equitativa ai sensi dell’art. 432 c.p.c., perché l’applicazione della norma presuppone difficoltà di prova nel quantum di un diritto esistente, mentre qui un diritto all’adeguamento ex art. 6 non esiste e non può essere accertato con sentenza che prescinda dai decreti ministeriali che sono costitutivi della situazione giuridica azionata;
4.
sussiste quindi la violazione del citato art. 6 e ciò comporta l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, perché anche la legittimazione passiva (sostanziale) comunque non può esservi a fronte di un diritto che non esiste come tale, mentre il motivo sulle spese resta assorbito;
5. alla cassazione della sentenza può seguire la decisione nel merito che, anche alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale, vivente, assurto per la sua uniformità alla stregua di diritto comporta il rigetto della domanda;
5.1
a quanto già argomentato dalle S.U. può qui aggiungersi quanto costantemente affermato da questa S.C. in merito alla compatibilità eurounitaria del sistema;
in proposito già Cass. 23 febbraio 2018, n. 4449 rilevò come fosse infondato l’assunto secondo cui « lo Stato Italiano avesse dato attuazione alla Direttiva solo nell’anno 2007 … perché … con il D.
Lgs. 17 agosto 1999 n. 368 il legislatore italiano ha dato attuazione alla direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli e delle direttive 97/50/CE, 98/21/CE, 98/63/CE e 99/46/CE che modificano la direttiva 93/16/CEE. 77 »;
viceversa -si afferma in quella pronuncia – « il legislatore, come già evidenziato, nel disporre il differimento dell’applicazione delle disposizioni contenute negli artt. da 37 a 42 e la sostanziale conferma del contenuto del D. Lgs. n. 257 del 1991 ha esercitato legittimamente la sua potestà legislativa, non essendo vincolato a disciplinare il rapporto dei medici specializzandi secondo un particolare schema giuridico né ad attribuire una remunerazione di ammontare preindicato »
a quella statuizione ne sono seguite altre conformi ed anche di recente vi stata ulteriore analisi della tematica, con conferma dell’orientamento;
Cass. 20 novembre 2024, n. 29920 ha infatti precisato che « lo Stato italiano aveva adempiuto al proprio obbligo di fissazione di una adeguata rimunerazione già con l’art. 6 del d.lgs. n. 257 del 1991; la normativa dell’Unione europea, infatti, non contiene, né potrebbe essere diversamente, alcuna definizione di quale sia la rimunerazione adeguata, la cui soglia deve essere fissata dagli Stati membri nell’esercizio della propria discrezionalità, la quale trova un inevitabile limite anche nelle esigenze di contenimento della spesa pubblica. Come ha efficacemente spiegato la sentenza n. 4449 del 2018 della Sezione Lavoro, il legislatore, «nel disporre il differimento dell’applicazione delle disposizioni contenute negli artt. da 37 a 42 (del d.lgs. n. 368 del 1999) e la sostanziale conferma del contenuto del d.lgs. n. 257 del 1991, ha esercitato legittimamente la sua potestà legislativa (Cass. 15362/2014), non essendo vincolato a disciplinare il rapporto dei medici specializzandi secondo un particolare schema giuridico né ad attribuire una
remunerazione di ammontare preindicato (cfr. punti nn. 23 e 24 di questa sentenza). Né vale argomentare che lo stesso legislatore italiano, intervenendo in materia, ha modificato la legislazione del 1991 con l’introduzione di una nuova normativa nel 1999 incentrata sullo schema della formazione-lavoro; anche ammettendo che il nuovo sistema sia più congeniale a disciplinare la specifica condizione dei medici specializzandi, non può desumersi dalla sola successione di leggi diverse che la precedente disciplina non fosse idonea in ordine al recepimento delle direttive ed a dare effettiva tutela al diritto ivi affermato dell’adeguata retribuzione». In altri termini, in conformità all’ordinanza n. 6355 del 2018, va affermato che il «nuovo ordinamento delle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia introdotto con il decreto legislativo n. 368 del 1999 (a decorrere dall’anno accademico 2006/2007, in base alla legge n. 266 del 2005), e il relativo meccanismo di retribuzione, non possono pertanto ritenersi il primo atto di effettivo recepimento ed adeguamento dell’ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalle direttive comunitarie, in particolare per quanto riguarda la misura della remunerazione spettante ai medici specializzandi, ma costituiscono il frutto di una successiva scelta discrezionale del legislatore nazionale, non vincolata o condizionata dai suddetti obblighi». Ragione per cui l’inadempimento dell’Italia agli obblighi comunitari, sotto il profilo in esame, è cessato con l’emanazione del decreto legislativo n. 257 del 1991, come del resto la Corte di giustizia dell’Unione europea ha già da tempo affermato (v. le sentenze 25 febbraio 1999 in causa C-131/97, COGNOME, e 3 ottobre 2000 in causa C-371/97, Gozza); e il d.lgs. n. 368 del 1999 è intervenuto in un ambito di piena discrezionalità per il legislatore nazionale. 9.4. Alla luce di quanto detto fin qui, pare evidente che non c’è alcuno spazio per invocare ipotetiche violazioni del diritto dell’Unione europea e che la causa promossa dai ricorrenti è finalizzata, in realtà, ad ottenere
l’applicazione retroattiva del d.lgs. n. 368 del 1999. Ne consegue che ogni questione non può che riguardare «esclusivamente l’ordinamento interno» (ordinanza n. 6355 del 2018). Ma, a prescindere dal fatto che nessuna doglianza risulta essere stata avanzata sotto tale profilo in sede di merito, osserva il Collegio che il differimento dell’entrata in vigore della normativa di cui al d.lgs. n. 368 del 1999 -che è una normativa più favorevole -rientrava nella discrezionalità del legislatore, sicché il farla scattare dal 2007 non solo non ha potuto determinare alcuna situazione di tardivo recepimento del diritto comunitario, ma nemmeno ha violato l’art. 3 Cost. sul versante della ragionevolezza, in quanto una normativa di favore e migliorativa rispetto ad una vigente può essere fatta entrare in vigore dal legislatore nazionale nel momento in cui, secondo la discrezionalità che gli appartiene, egli lo reputi opportuno. Non si pone, perciò, alcuna questione di rinvio pregiudiziale e nemmeno alcuna questione di costituzionalità di diritto interno »;
il legittimo risalire della regolazione al diritto interno -complessivamente inteso – assorbe poi, in ultima analisi, anche ogni ipotetico profilo di rilievo eurounitario riguardante il blocco di aggiornamenti ed adeguamenti disposto sempre dalla normativa nazionale, secondo quanto argomentato dalle S.U. e dal costante orientamento cui esse hanno dato conferma;
6.
l a notevolissima complessità dei temi affrontati e l’indubbia particolarità giuridica della fattispecie giustificano la compensazione integrale delle spese del processo.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le originarie domande.
Compensa le spese dell’intero processo.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro