Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 33867 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 33867 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 37205/2019 r.g. proposto da:
Comune di Ripa Teatina, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura speciale in calce al presente ricorso, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni e notifiche agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati.
-ricorrente – contro
COGNOME NOME e COGNOME NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura speciale rilasciata su foglio separato e congiunto al controricorso, elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME i quali dichiarano di voler ricevere le comunicazioni presso gli indirizzi di posta elettronica certificata indicati
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte di appello dell’Aquila n. 1803/2019, depositata in data 7/11/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/12 /2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Si muove dal dato oggettivo di due occupazioni subite dagli attori NOME COGNOME e NOME COGNOME la prima del 24/9/1990, con riferimento al primo lotto, e la seconda del 20/6/1992, entrambe per la durata massima di anni cinque.
Con riferimento alla prima occupazione di terreno, il decreto di esproprio veniva dichiarato nullo dalla Corte d’appello con pronuncia n. 1008 del 2005, mentre in relazione alla seconda occupazione non veniva emesso alcun decreto di esproprio.
In data 7/6/2013 veniva adottato il provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
Con provvedimento dirigenziale n. 126/A della 7/6/2013 emesso nelle more di un contenzioso pendente dinanzi al Consiglio di Stato per il risarcimento dei danni per illegittima occupazione ed irreversibile trasformazione dei terreni, notificato a NOME COGNOME e NOME COGNOME con raccomandate ricevute
rispettivamente l’11/6/2013 ed il 12/6/2013, il Comune di Ripa Teatina disponeva, ai sensi dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, l’acquisizione al proprio patrimonio indisponibile degli immobili di proprietà dei fratelli COGNOME, aventi superficie complessiva pari a mq 10.520, sui quali – a seguito di occupazione non seguita da tempestiva emissione di decreto di esproprio – era stato realizzato un impianto sportivo polivalente.
Infatti, in precedenza il TAR Abruzzo, con sentenza n.360 del 2012, aveva condannato il Comune a pagare l’indennità di occupazione quinquennale e il risarcimento del danno da occupazione illegittima.
Il Consiglio di Stato, adito in sede cautelare, con ordinanza n. 193/2013 del 22/1/2013, aveva rigettato l’istanza cautelare ed evidenziato che «il Comune non può dunque che riparare al danno commesso eventualmente avviando il particolare procedimento di cui all’art. 42bis del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327».
Con il provvedimento di acquisizione veniva offerta ai COGNOME la somma di euro 28.057,64, di cui euro 12.596,19 per pregiudizio patrimoniale, euro 1259,61 per pregiudizio non patrimoniale, nella misura del 10%, ed euro 14.201,93 per il periodo di occupazione divenuta senza titolo dal 24/9/1995 – quanto a mq 4850 – e dal 24/6/1997 – quanto ai restanti mq 5670.
Gli attori, invece, chiedevano l’indennizzo parametrato ad euro 19,42 al metro quadrato, per un ammontare complessivo di euro 520.000,00.
Successivamente gli attori notificavano ricorso dinanzi alla Corte d’appello il 29/9/2017 ai sensi dell’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011.
Il Comune di Ripa Teatina si costituiva sollevando, per quel che ancora qui rileva, eccezioni di giurisdizione e di decadenza ex art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011.
Inoltre, l’Ente eccepiva l’intervenuto giudicato derivante dalla sentenza della Corte d’appello n. 1008 del 2005, che aveva «definito la precedente opposizione alla stima».
Nel merito, l’Ente deduceva la natura e destinazione agricola dei terreni, al momento dell’occupazione, essendo gli stessi inseriti nel PRG approvato il 5/ 2/1980, in zona F3 verde attrezzato-attività sportiva, oltre alla impossibilità di applicare retroattivamente l’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
La Corte d’appello dell’Aquila, con sentenza n. 1803/2019 del 7/11/2019, rilevava che gli immobili potevano essere destinati ad un utilizzo intermedio.
Premetteva che la Corte costituzionale con la sentenza n. 71 del 2015 aveva dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 in riferimento agli articoli 3,24,42,97,111,113 e 117 della Costituzione, trattandosi di uno «speciale procedimento ablatorio svincolato dal fatto illecito ravvisabile nella precedente occupazione illegittima del bene oggetto di acquisizione», essendo volto a «ripristinare, con effetto ex nunc , la legalità amministrativa violata» e costituendo «una extrema ratio per la soddisfazione di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico e non già il rimedio rispetto ad un illecito».
Di qui: a) il carattere non retroattivo dell’acquisizione del bene al patrimonio indisponibile della PA; b) l’improcedibilità delle eventuali domande di restituzione e di risarcimento del danno che fossero state proposte in relazione agli immobili acquisiti, salva la formazione del giudicato; c) la natura indennitaria e non risarcitoria delle somme che la PA è tenuta a pagare; d) l’attribuzione delle
contro
versie alla giurisdizione del giudice ordinario; e) la devoluzione delle controversie alla Corte d’appello, in unico grado.
7.1. In ordine all’eccezione di difetto di giurisdizione la Corte territoriale la reputava infondata evidenziando che persisteva la giurisdizione amministrativa ove si intendesse ottenere l’annullamento integrale del provvedimento ex art. 42bis «innanzitutto nel suo contenuto ablativo della proprietà, oltre che nella parte attinente alla liquidazione dell’indennizzo» (si citava Cass. Sez. U., n. 6018 del 2016, in relazione alla fattispecie in cui si contestava la carenza delle condizioni previste dal comma 4 della norma per difetto di esame delle soluzioni alternative all’esproprio).
Il presupposto della devoluzione alla giurisdizione ordinaria – ad avviso della Corte d’appello – «è che si discuta unicamente della quantificazione dell’importo dovuto in applicazione dell’art. 42bis » (si citava Cass., Sez. U., n. 15343 del 2018).
Tuttavia, nella pronuncia di legittimità sopra richiamata, oltre che in Cass., n. 11180 del 2018, si reputava sussistere la giurisdizione del giudice ordinario ove «i proprietari, pur impugnando il provvedimento e chiedendone l’annullamento, lamentino ‘soltanto l’inadeguatezza del quantum degli indennizzi in relazione al valore venale dei beni, senza investire la legittimità dei provvedimenti di acquisizione sanante’ sotto diversi profili».
Nella specie – aggiungeva la Corte territoriale – era proprio questa la situazione in cui si versava, «avendo i ricorrenti sostanzialmente lamentato unicamente la violazione dei criteri di determinazione dell’indennità previsti dal comma 3 dell’art. 42bis , ponendo tale violazione (e la conseguente non esaustività delle somme depositate dal Comune di Ripa Teatina) anche a fondamento della domanda accessoria tesa a far valere la nullità o a ad ottenere
l’annullamento del provvedimento ablatorio e della relativa trascrizione».
Proprio tale ultima «domanda accessoria» era inidonea a determinare il difetto di giurisdizione in quanto inammissibile, poiché esulante dall’ambito cognitivo che caratterizzava i giudizi in unico grado davanti alla Corte d’appello.
7.2. La Corte territoriale respingeva anche l’eccezione di decadenza di cui all’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, muovendo dal rilievo che le disposizioni in tema di decadenza erano, per loro natura, «di stretta interpretazione», anche alla luce della giurisprudenza unionale «la quale ammette le limitazioni all’accesso ad un giudice solo in quanto espressamente previste dalla legge».
Tra l’altro, anche ammettendo l’applicazione estensiva dell’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2011 alla controversia in esame, il decorso del termine di decadenza presupponeva che vi fosse stata, in sede amministrativa, la stima definitiva dell’indennità di espropriazione, non potendo operare «per le ipotesi di azione giudiziale per la determinazione dell’indennità ove non sia intervenuta alcuna stima definitiva».
La disciplina di cui all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 non contemplava invece alcuna stima definitiva, essendo prevista soltanto la liquidazione dell’indennizzo contenuta nello stesso provvedimento ablatorio.
Sussisteva, dunque, solo l’ordinario termine decennale di prescrizione che decorreva dalla notificazione del provvedimento ablatorio, risultando così infondata l’eccezione di prescrizione.
Precisava la Corte d’appello che alcun fondamento aveva l’eccezione di giudicato o di intangibilità e inoppugnabilità del provvedimento ex art. 42bis «derivante dalla prevenzione del
giudizio nel quale esso era stato impugnato davanti al giudice amministrativo».
Allo stesso modo, trattandosi di indennità dovute ex lege , non era applicabile l’art. 1227, secondo comma, c.c., in ordine al comportamento non diligente del ricorrente, cui veniva imputato di non aver intrapreso più tempestivamente un’azione risarcitoria, come invece avevano fatto alcuni proprietari confinanti.
Non aveva valore di giudicato di impedimento all’azione degli attori neppure la sentenza della Corte d’appello n. 1008 del 2005 con cui era stata dichiarata «inammissibile l’opposizione alla stima proposta agli odierni ricorrenti a seguito del (poi rivelatosi tardivamente emesso dopo la scadenza del termine di occupazione temporanea) decreto di esproprio di parte dei beni». Vi era stata, infatti, una successiva determinazione dell’amministrazione che aveva condotto ad un’acquisizione dei beni svincolata dalle pregresse vicende del procedimento espropriativo non sfociato in tempestivi provvedimenti ablatori.
8. La Corte d’appello, in ordine alla valutazione dei beni, rilevava che il Comune aveva valutato erroneamente l’indennizzo con il valore agricolo medio (e non al valore venale) riferito agli anni 1990 e 1992 (tra l’altro senza alcuna rivalutazione) invece che in relazione alla data di emissione del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del 7/6/2013.
Si era tenuto conto, erroneamente, della data di occupazione dei terreni, avvenuta rispettivamente nel 1990 nel 1992, anziché della data di emissione del provvedimento di acquisizione sanante.
Quanto alla destinazione urbanistica, chiariva la Corte di merito, che «il Comune di Ripa Teatina realizzò il centro sportivo polivalente (costituito da due campi da gioco coperti, da due spogliatoi e da una fabbricato di servizio a due piani)», inseriti «nella categoria delle
‘aree pubbliche di interesse generale’ normata dall’art. 22 NTA, secondo il quale ‘gli elementi tipomorfologici delle costruzioni, dove ammesse, non possono determinare usi fondiari eccedenti la densità di 2,00 mc/mq’».
Tuttavia, ciò non significava affermare l’assoluta inutilizzabilità dei beni, «dovendosi desumere il contrario dallo specifico indice di densità fondiaria previsto dalla NTA sopra ricordata».
Tanto più che tali terreni nel giugno del 2013 erano caratterizzati dalla presenza di impianti sportivi di costruzioni a servizio degli stessi e che l’acquisizione sanante imponeva di tenere conto delle circostanze fattuali (oltre che giuridiche) riscontrabili nel momento dell’acquisizione, che coincideva con l’emissione del decreto che la disponeva.
Non poteva prescindersi, allora, dal valutare le possibilità di utilizzazione dell’area «diverse da quelle agricole ed intermedie tra queste e quelle propriamente edificatorie» .
Il giudice di secondo grado, poi, richiamava le tre diverse stime del valore venale documentate dei ricorrenti: a) la stima effettuata dall’UTE di Chieti nel dicembre 1994, con individuazione di un valore venale pari a euro 10,33 al metro quadrato, che, rivalutato in base agli indici Istat dal gennaio 1995 al giugno 2013, ammontava ad euro 15,66 al metro quadrato; b) la stima contenuta nella relazione del 29/3/2001, con cui il CTU geom. COGNOME su incarico della Corte d’appello, nel giudizio definito con la sentenza n. 1008 del 2005, aveva indicato il valore venale complessivo dei beni nella loro intera estensione di mq 10.520, in euro 187.810,00, individuando il valore al metro quadrato in euro 17,85, che, rivalutato dal marzo 2000 al 1° giugno 2013, in base agli indici Istat, ammontava ad euro 22,94 al mq; c) la stima effettuata nella relazione del 4/9/2013 dal geom. NOME COGNOME COGNOME il quale quantificava il valore in euro
19,42 m², utilizzando il metodo di trasformazione, con riferimento all’anno 2013.
La Corte d’appello rettificava la stima del geometra COGNOME in quanto aveva conferito rilevanza ad indici urbanistici certamente non vigenti al 7/6/2013, essendo stati previsti dalla variante di PRG all’epoca non ancora approvata ancorché già adottata, avendo peraltro ricavato il valore del realizzabile da quello medio risultante nella banca dati OMI per l’applicazione a tipologie di utilizzazione terziaria ubicate nella fascia centrale B1 di Ripa Teatina, anziché nella fascia periferica del Comune.
Per tale ragione il valore al metro quadrato era di euro 16,34, sicché risultava molto vicino a quello a suo tempo stimato dall’UTE e rivalutato al giugno 2013. La Corte d’appello determinava il valore dei beni a metro quadrato in euro 65,00.
Tale dato era in sintonia con gli «atti di trasferimento tra privati concernenti immobili aventi la medesima destinazione urbanistica di quelli qui in esame di cui il compendio istruttorio fra contezza».
Non poteva essere utilizzato il valore individuato dalla stima effettuata dal geom. COGNOMECTU incaricato dal tribunale di Chieti in una controversia risarcitoria instaurata da altri proprietari di fondi confinanti), trattandosi di terreni edificabili.
Per tale ragione, il pregiudizio patrimoniale veniva quantificato in euro 168.320 (euro 16,00 moltiplicato per la superficie di mq 10.520), con un pregiudizio non patrimoniale di euro 16.832,00 (pari al 10%) ed un indennizzo per il periodo di occupazione senza titolo pari ad euro 141.446,00 (pari al 5%), per un totale di euro 326.598,00.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Ripa Teatina, depositando anche memoria scritta.
Hanno resistito con controricorso NOME COGNOME e NOME COGNOME depositando anche memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione e-o erronea applicazione degli articoli 7 e 133, comma 1, lettera G), del d.lgs. n. 104 del 2010, art. 53, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, dell’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, nonché di ogni altra norma e principio in tema di giurisdizione del giudice amministrativo sulla impugnativa di atti e provvedimenti amministrativi concernenti l’acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 citato violazione e/o erronea applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 1362 e seguenti c.c., nonché di ogni altra norma e principio in tema di interpretazione e di qualificazione della domanda giudiziale, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Per il ricorrente, dunque, la giurisdizione spetterebbe al giudice amministrativo.
La Corte d’appello ha ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice ordinario in quanto i proprietari, pur impugnando il provvedimento chiedendone l’annullamento, avevano lamentato «soltanto l’inadeguatezza del quantum degli indennizzi in relazione al valore venale dei beni, senza investire la legittimità dei provvedimenti di acquisizione sanante».
In realtà, ad avviso del ricorrente, nel ricorso introduttivo del giudizio gli attori avevano affermato di instaurare il giudizio per il conseguimento dell’indennizzo, «salvo la verifica della sua legalità e legittimità, ancora tutte da compiere, e, quindi, salvo la verifica della definitiva, legale e legittima acquisizione sanante».
Nella parte in ‘Diritto’ del ricorso introduttivo si era evidenziato che «gli impugnati provvedimenti sono illegittimi e gravemente lesivi dei diritti e degli interessi dei ricorrenti», chiedendosene «la declaratoria di illegittimità e conseguente nullità per i motivi di seguito specificati, con la contestuale rideterminazione delle somme dovute».
Nelle conclusioni del ricorso introduttivo si chiedeva che fosse «dichiarato nullo o annullato il decreto di esproprio» oltre che «dichiarare nullo e/o annullabile il decreto 7/6/2013 di acquisizione dell’immobile di proprietà COGNOME al patrimonio indisponibile del Comune di Ripa Teatina».
Per il ricorrente sarebbe evidente che «la domanda di nullità e in subordine di annullamento degli atti e provvedimenti amministrativi è stata proposta in via diretta ed immediata nonché condizionante rispetto alla decisione su quella concernente l’attribuzione dell’indennizzo».
Non potrebbe reputarsi tale domanda come «meramente accessoria» e, come tale, non determinante il difetto di giurisdizione.
A tale interpretazione della domanda giudiziale dovrebbe indurre l’interpretazione letterale nonché logico-sistematica del contenuto dell’avverso ricorso introduttivo del giudizio di merito.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la «violazione e/o erronea applicazione dell’art. 112 c.p.c., nonché di ogni altra norma e principio in tema di corrispondenza tra chiesto e pronunciato – vizio di extrapetizione ovvero di ultrapetizione, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – nullità della sentenza, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
La Corte d’appello avrebbe reputato sostanzialmente inammissibile la domanda di nullità e di annullamento del provvedimento ablatorio e della trascrizione. Tale declaratoria di
inammissibilità non poteva fondarsi sul presupposto che tale domanda era esulante dall’ambito cognitivo che caratterizzava i giudizi in unico grado dinanzi alla Corte d’appello disciplinati dall’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011.
Proprio tale rilievo «avrebbe dovuto ineludibilmente condurre la medesima Corte di merito a declinare la propria giurisdizione in favore di quella amministrativa».
I primi due motivi, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono infondati.
3.1. Si premette che vi sono precedenti specifici di legittimità, a sezioni unite, in ordine alla sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in tema di determinazione dell’indennizzo spettante a seguito dell’emissione del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, sicché trova applicazione l’art. 374, primo comma, c.p.c. a mente del quale «il ricorso può essere assegnato alle sezioni semplici, se sulla questione di giurisdizione proposta si sono già pronunciate le sezioni unite».
Inoltre, trova applicazione il principio giurisprudenziale per cui, ai fini dell’interpretazione delle domande giudiziali non sono utilizzabili i criteri di interpretazione del contratto dettati dagli artt. 1362 ss. c.c. poiché, rispetto alle attività giudiziali, non si pone una questione di individuazione della comune intenzione delle parti e la stessa soggettiva intenzione dell’attore rileva solo nei limiti in cui sia stata esplicitata in modo tale da consentire al convenuto di cogliere l’effettivo contenuto dell’atto e di svolgere un’adeguata difesa (Cass., sez. 3, 4/11/2020, n. 24480).
Si è chiarito, infatti, che secondo il prevalente e più recente orientamento di questa Corte ai fini dell’interpretazione della domanda giudiziale non sono utilizzabili i criteri di interpretazione del contratto dettati dall’art. 1362 e seguenti c.c., in quanto non esiste
una comune intenzione delle parti da individuare, e può darsi rilievo alla soggettiva intenzione della parte attrice solo nei limiti in cui essa sia stata esplicitata in modo tale da consentire al convenuto di cogliere l’effettivo contenuto della domanda formulata nei suoi confronti, per poter svolgere un’effettiva difesa.
L’interpretazione della domanda si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, insindacabile in cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione e non per violazione di legge (Cass. n. 24480 del 2020; Cass. n. 2585 del 2014; Cass., n. 248 4/7/2011; Cass., n. 4754 del 2004; mentre è rimasto isolato l’orientamento per cui si reputavano applicabili all’interpretazione della domanda giudiziale le norme in tema di ermeneutica contrattuale; in tale ultimo senso Cass., n. 20325 del 2006).
Peraltro, si è recentemente ritenuto che la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile: a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del ” petitum “, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di ” error in judicando “, in base
all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., o al vizio di ” error facti “, nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass., sez. 3, 10/6/2020, n. 1103; Cass., sez. 5, 6/11/2023, n. 30770).
Nella specie, la Corte territoriale, con adeguato e analitico giudizio di merito, ha proceduto alla corretta interpretazione della domanda giudiziale, ritualmente trascritta nel ricorso per cassazione dagli attori, reputando che il petitum sostanziale fosse rinvenibile esclusivamente nella richiesta di accertamento dell’indennizzo proveniente dall’adozione del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
La Corte territoriale ha evidenziato che gli attori avevano limitato le proprie doglianze lamentando «soltanto l’inadeguatezza del quantum degli indennizzi in relazione al valore venale dei beni, senza investire la legittimità dei provvedimenti di acquisizione sanante sotto diversi profili».
In sostanza, gli attori hanno – ad avviso della Corte d’appello lamentato unicamente «la violazione dei criteri di determinazione delle indennità (pur qualificandole come ‘indennizzo/risarcimento + accessori) previsti dal comma 3 dell’art. 42bis , ponendo tale violazione (e la conseguente non esaustività delle somme depositate dal Comune di Ripa Teatina) anche a fondamento della domanda accessoria tesa a far valere la nullità o ad ottenere l’annullamento del provvedimento ablatorio e della relativa trascrizione».
L’incipit in tema di giurisdizione proviene dalla pronuncia di legittimità (Cass., Sez. U., n. 22096 del 2015; poi anche Cass., Sez.U., 25/7/2016, n 15283) per cui nella fattispecie espropriativa di cui all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, l’illecita o illegittima utilizzazione dell’immobile per scopi di interesse pubblico costituisce solo un presupposto dell’acquisizione del bene, sicché, ove il provvedimento acquisitivo sia stato adottato in conformità agli altri
presupposti normativi, l’indennizzo previsto per la perdita della proprietà non ha natura risarcitoria, ma indennitaria, e la controversia sulla sua determinazione e corresponsione appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario ai sensi dell’art. 53 del d.P.R. n. 327 del 2001 e dell’art. 133, lett. g, c.p.a. (cfr. Corte cost. n. 71 del 2015).
Si è, infatti, ripetutamente affermato che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, ove si discuta unicamente della quantificazione dell’importo dovuto in applicazione dell’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario e le relative controversie sulla determinazione e corresponsione dell’indennizzo, globalmente inteso, previsto per la cd. acquisizione sanante, sono devolute, in unico grado, alla Corte di appello, secondo una regola generale dell’ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità, dovendosi interpretare in via estensiva l’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, tanto più che tale norma non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto quale quello della acquisizione sanante – introdotto nell’ordinamento solo in epoca successiva (Cass., Sez.U., 12/6/2018, n. 15343).
Proprio in tale ultima pronuncia si è ribadito che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, con devoluzione, in unico grado, alla Corte d’appello, a fronte della privazione o compressione del diritto dominicale dell’espropriato, ove venga adottato il provvedimento di acquisizione sanante di cui all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001.
Si è precisato che «il presupposto di tale orientamento è che si discuta unicamente della quantificazione dell’importo dovuto in applicazione dell’art. 42bis cit.: tale è l’oggetto della controversia in esame» (Cass., Sez.U., n. 15343 del 2018).
In quella fattispecie gli attori avevano agito in ottemperanza chiedendo l’esecuzione della sentenza del Tar Catania, che aveva disposto che i beni occupati fossero restituiti ai legittimi proprietari, con il risarcimento dei danni, o, in alternativa, che il Comune acquisisse uno o più dei beni occupati risarcendo il danno derivante dall’occupazione illegittima ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001. Con i motivi aggiunti gli attori, però, «avevano lamentato soltanto l’inadeguatezza del quantum degli indennizzi in relazione al valore venale dei beni, senza investire la legittimità dei provvedimenti di acquisizione sanante, la cui emanazione costituisce una delle modalità con cui l’amministrazione poteva dare esecuzione al giudicato» (Cass., Sez. U., n. 15343 del 2018).
In tale sede, si è chiarito che non si denunciava una mancanza o elusione dell’ottemperanza (il che avrebbe radicato la giurisdizione innanzi al giudice amministrativo, ma soltanto un’incongrua liquidazione degli indennizzi, su cui la cognizione restava in capo al giudice ordinario, ex articoli 133, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 104 del 2000 10:53 d.P.R. n. 327 del 2001 (Cass., n. 15343 del 2018).
Di recente, si è ribadito che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie nelle quali sia dedotta la illegittimità in sé del provvedimento di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, per l’insussistenza dei requisiti previsti dalla legge, anche ai fini della valutazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, in relazione ai contrapposti interessi privati ed all’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione (Cass., Sez.U., 20/7/2021, n. 20691).
Va rammentato che la regola di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo non si basa sul criterio del petitum formale, individuato in base all’oggetto del dispositivo che si invoca, bensì su quello del petitum sostanziale, da individuarsi con riguardo alla causa petendi ed al rapporto dedotto in giudizio, oggetto di accertamento giurisdizionale (Cass., Sez.U., 24/1/2024, n. 2368).
Nella specie, dunque, scorrendo il ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alla Corte d’appello emerge che la richiesta effettiva riguarda la corretta determinazione dell’indennità di cui all’art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, mentre la richiesta di nullità o di dichiarazione di annullamento del provvedimento amministrativo sanante è rimasta del tutto sullo sfondo, priva di ogni indicazione sulle specifiche censure avanzate nei confronti dello stesso.
Si legge, infatti, nel ricorso introduttivo dinanzi alla Corte d’appello che le parti hanno chiesto il riconoscimento dell’indennizzo a seguito dell’intervenuto decreto di acquisizione sanante del terreno di loro proprietà al patrimonio indisponibile del Comune «salva la verifica della sua legalità e legittimità, ancora tutte da compiere, e, quindi, salvo la verifica della definitiva, legale e legittima acquisizione sanante».
Come si vede, gli attori non indicano alcun profilo di invalidità del provvedimento amministrativo.
Allo stesso modo, nella porzione dedicata al ‘Diritto’, gli attori deducevano la richiesta di «declaratoria di illegittimità e conseguente nullità per i motivi di seguito specificati, con la contestuale rideterminazione, sulla scorta di quanto previsto dagli articoli 42bis commi 1 e 3 e 22bis comma 5 delle somme dovute ai ricorrenti per la perdita della proprietà».
Nelle conclusioni del ricorso proposto dinanzi alla Corte d’appello si chiede espressamente : «dichiarato nullo o annullato il decreto d’esproprio, condannare il Comune di Ripa Teatina al pagamento, in favore dei ricorrenti dell’indennizzo/risarcimento + accessori, quantificate in euro 520.000,00». Si chiede, altresì: «dichiarare nullo e/o annullabile il decreto 7/6/2013 di acquisizione dell’immobile».
Anche in questo caso, nessuno specifico motivo di invalidità del provvedimento amministrativo sanante è stato dedotto.
Con il terzo motivo di impugnazione si deduce la «violazione e/o erronea applicazione dell’art. 1362 e seguenti c.c., in relazione all’art. 112 c.p.c., nonché di ogni altra norma e principio in tema di interpretazione e di qualificazione della domanda giudiziale, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
La Corte d’appello avrebbe errato nel disporre il deposito delle somme dovute agli attori presso la Ragioneria Territoriale dello Stato di Chieti.
I ricorrenti, invece, nell’atto introduttivo del giudizio avevano espressamente chiesto la condanna del Comune al pagamento dell’indennizzo quantificato in euro 520.000,00. A fronte di una espressa domanda di condanna dell’ente al pagamento in loro favore dell’indennizzo, la Corte avrebbe dovuto pronunciarsi su tale domanda «rigettandola – non ricorrendo i presupposti per il suo accoglimento -, e non poteva disporre -stante la mancata proposizione della relativa domanda – che il Comune provvedesse ad integrare il deposito «già acceso in favore dei ricorrenti presso la Ragioneria Territoriale dello Stato di Chieti».
Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la «violazione dell’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011, dell’art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001 nonché di ogni altra norma e principio in tema
di decadenza dalla proposizione dell’opposizione alla stima nei casi di esproprio e di acquisizione sanante ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Il ricorrente non condivide l’affermazione della Corte territoriale nella parte in cui questa ha reputato che l’azione del proprietario relativa alla richiesta di determinazione dell’indennizzo ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 non potesse essere soggetta ad alcun termine di decadenza.
Per il Comune ricorrente si tratterebbe, invece, di un procedimento espropriativo, seppure semplificato, soggetto però alle disposizioni di cui al d.P.R. n. 327 del 2001 e, dunque, anche all’art. 54 del medesimo d.P.R. oltre che all’art. 29 del d.lgs. n. 150 del 2011.
10. Con il quinto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la «violazione e/o erronea applicazione degli articoli 42bis , 32,37,40, comma 1, del d.P.R. n. 327 del 2001, nonché di ogni altra norma e principio in tema di valore venale dei beni utilizzati per scopi di pubblica utilità e degli immobili acquisiti al patrimonio pubblico ex art. 42bis del d.P.R. n. 327 del 2001 citato, di vincoli conformativi e di edificabilità ovvero di utilizzabilità ai fini edilizi o edificatori dei medesimi immobili, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La Corte d’appello ha reputato che gli immobili in contestazione erano inseriti, ancora a giugno 2013, quindi all’epoca dell’acquisizione sanante, nel PRG in zona F3, verde attrezzato, attività sportiva, inclusa nella categoria delle «aree pubbliche di interesse generale», con applicazione dell’art. 22 NTA, in base al quale «gli elementi tipomorfologici delle costruzioni, dove ammesse, non possono determinare usi fondiari eccedenti la densità di 2,00 mc/mq».
Ha reputato, quindi, possibile un utilizzo intermedio dei terreni, e non meramente agricolo.
Per il ricorrente risulta condivisibile l’affermazione della Corte per cui i fondi sono effettivamente inclusi nella zona F3, come da vincolo conformativo di tale destinazione.
Tuttavia, il Comune reputa che deve essere esclusa ogni possibilità di edificazione tutte le volte in cui, per lo strumento urbanistico vigente all’epoca in cui deve compiersi la ricognizione legale, la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità ecc.) in quanto dette classificazioni apportano un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica d’edificazione, da intendere come estrinsecazione dello ius aedificandi connesso al diritto di proprietà, ovvero con l’edilizia privata esprimibile dal proprietario dell’area».
Di qui, la considerazione per cui sarebbe erronea l’affermazione della Corte d’appello che ha reputato illegittimo il computo di determinazione dell’indennizzo, in quanto è stato utilizzato il metodo del valore agricolo medio, e non quello del valore reale e venale, relativo agli anni 1990 e 1992, anni in cui i beni erano stati occupati.
Per il ricorrente, invece, «dall’assoluta inedificabilità ed inutilizzabilità dei fondi in esame non poteva non derivarne l’applicazione del criterio del valore agricolo medio, quale unico parametro cui potersi fare riferimento».
11. Con il sesto motivo di impugnazione il ricorrente si duole della «violazione e/o erronea applicazione dell’art. 22 delle Norme Tecniche di Attuazione del Piano Regolatore Generale del Comune di Ripa Teatina – anche in relazione al D.M. 1444/1968 -, oltre che degli articoli 1362 e seguenti c.c., nonché di ogni altra norma e principio
in tema di interpretazione degli atti e provvedimenti amministrativi, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – violazione dell’art. 2 del D.M. 1444/1968, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
Ad avviso del ricorrente l’art. 22 delle Norme Tecniche di Attuazione «non consente affatto ai privati l’attività di edificazione e/o di trasformazione dei fondi».
Laddove l’art. 22 stabilisce che «gli elementi tipomorfologici delle costruzioni, dove ammesse, non possono determinare usi fondiari eccedenti la densità di 2,00 mc/mq» si riferisce «chiaramente all’ente pubblico che deve provvedere all’edificazione ovvero alla trasformazione, stante il suindicato vincolo conformativo e, quindi, l’impossibilità per i privati di eseguire le medesime attività».
Aggiunge il ricorrente che tale norma «potrebbe, eventualmente, disciplinare le attività permesse ai privati in relazione a zone residue – appartenenti ai medesimi privati – dopo che l’ente abbia realizzato l’intervento; il che, ovviamente, non interessa il caso di specie».
Deve essere prioritariamente esaminato, trattandosi di questione pregiudiziale, il quarto motivo relativo alla pretesa sussistenza dell’obbligo degli attori di impugnare il provvedimento di acquisizione sanante entro 30 giorni dalla sua notifica.
12.1. Il motivo è infondato.
Correttamente la Corte d’appello ha reputato applicarsi il termine di prescrizione decennale e non nel termine di 30 giorni di cui all’art. 54 del d.P.R. n. 327 del 2001.
Infatti, per questa Corte – dopo oscillazioni giurisprudenziali – il termine perentorio previsto dall’art. 54, comma 2, del d.P.R n. 327 del 2001 e, successivamente, dall’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2011, per l’opposizione alla stima definitiva dell’indennità di
esproprio, non è applicabile alla contestazione relativa alla determinazione dell’indennizzo contenuta nel provvedimento acquisitivo adottato a norma dell’art. 42bis del d.P .R n. 327 del 2001, con la conseguenza che il soggetto attinto dal decreto di acquisizione ha facoltà di contestare la liquidazione e chiederne la determinazione giudiziale nel termine ordinario di prescrizione; infatti, l’art. 29 citato, pur essendo successivo, non effettua alcun rinvio al precedente art. 42bis del menzionato d.P.R n. 327, non risultando peraltro, in ogni caso, consentite interpretazioni estensive e analogiche di norme che condizionano l’esercizio del diritto di azione con riferimento a termini di decadenza e inammissibilità non specificamente previsti dalla legge; al contempo, se la comune natura indennitaria del credito pecuniario dell’espropriato e del soggetto attinto dal decreto di acquisizione può valorizzarsi per giustificare la giurisdizione ordinaria e la competenza funzionale della Corte d’appello, quale giudice delle indennità in materia, ciò non consente di superare le diversità strutturale dei relativi procedimenti amministrativi (Cass., sez. 1, 18/12/2023, n. 35287).
13. Il terzo motivo è anch’esso infondato.
Non v’è stata alcuna violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato.
Infatti, nel ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alla Corte d’appello gli attori hanno chiesto: «dichiarato nullo o annullato il decreto di esproprio, condannare il Comune di Ripa Teatina al pagamento, in favore dei ricorrenti dell’indennizzo/risarcimento+ accessori quantificato in euro 520.000,00».
La Corte d’appello con la sentenza n. 1803 del 2019, in piena consonanza con le richieste degli attori, ha precisato che «di tale somma non può essere qui disposto il pagamento, ma (trattandosi di indennizzo non concordato) solo il deposito presso la Ragioneria
Territoriale dello Stato di Chieti, ad integrazione di quelli già effettuati dal Comune di Ripa Teatina, che ammontavano ad euro 28.057,64, oltre interessi nel frattempo maturati, con la precisazione che, sulla parte non ancora depositata e fino al deposito stesso, decorrono interessi corrispettivi, in misura legale, dalla 7/6/2013, data del decreto di acquisizione».
Di conseguenza, la Corte d’appello, dopo aver determinato le indennità dovute ai ricorrenti, ha disposto che «il Comune di Ripa Teatina provvede ad integrare il deposito già acceso in favore dei ricorrenti presso la Ragioneria Territoriale dello stato di Chieti, pari ad euro 28.057,64 oltre interessi medio tempore maturati su tale somma, fino alla concorrenza della somma complessiva».
Ed infatti, per questa Corte il giudizio di opposizione alla stima delle indennità di espropriazione e di occupazione temporanea, al pari di quello volto alla determinazione giudiziale del giusto indennizzo, devoluti alla competenza in unico grado della Corte di appello, sono circoscritti alle questioni relative all’ammontare di dette indennità nei rapporti tra espropriante ed espropriati, dovendo la Corte non pronunciare condanna dell’espropriante al relativo pagamento, ma limitarsi ad ordinare il deposito presso la Cassa depositi e prestiti della differenza tra il superiore importo liquidato in sede giudiziaria e quello fissato in sede amministrativa. Ne consegue che l’espropriante non può opporre in compensazione proprie autonome ragioni di credito vantate nei confronti delle controparti ed inerenti a rapporti diversi, il cui accertamento esula dall’oggetto dei giudizi in questione e che sono insuscettibili di contrapporsi all’obbligo di deposito degli indennizzi imposto dalla legge (Cass., sez. 1, 21/8/2013, n. 19323).
Si è chiarito che, anche a garanzia di eventuali diritti di terzi, il procedimento da seguire per lo svincolo dell’indennità depositata si
applica anche nell’ipotesi del maggiore supplemento d’indennità liquidato dal giudice a favore dell’espropriato, sicché l’espropriante è tenuto a quel deposito e non è quindi configurabile una condanna dell’espropriante stesso al pagamento diretto verso l’espropriato (Cass., Sez.U., 18/4/1962, n. 757).
14. Il quinto e sesto motivo di ricorso, che vanno affrontati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono infondati.
La Corte d’appello, con piena valutazione di merito, confortata dalle risultanze della CTU, ha reputato che i terreni per cui è causa fossero assoggettati ad un regime di utilizzabilità intermedia.
Tra l’altro, correttamente la Corte territoriale ha censurato la condotta del Comune che aveva liquidato un indennizzo «palesemente difforme dai criteri legali», facendo utilizzo del valore agricolo medio, e non del valore venale, riferito (senza neanche essere rivalutato all’anno 2013) agli anni 1990 e 1992.
Al contrario, per il giudice d’appello, doveva trovare applicazione la destinazione urbanistica degli immobili a giugno del 2013, quando gli stessi si trovavano inserite nel PRG, in zona F3, verde attrezzatoattività sportiva, inclusa nella categoria delle «aree pubbliche di interesse generale», disciplinata in modo specifico dall’art. 22 delle Norme Tecniche di Attuazione, a mente del quale «gli elementi tipomorfologici delle costruzioni, dove ammesse, non possono determinare usi fondiari eccedenti la densità di 2,00 mc/mq».
Per la Corte d’appello, non si può affermare l’assoluta inutilizzabilità dei terreni, dovendosi rispettare la loro destinazione urbanistica a verde ed attività sportiva, dovendosi desumere una parziale utilizzabilità proprio «dallo specifico indice di densità fondiaria previsto dalla NTA sopra ricordata».
Sempre con pieno giudizio meritale la Corte d’appello ha reputato che del resto «nel giugno 2013 i suddetti terreni erano caratterizzati
(come si evince dallo stesso provvedimento di acquisizione) dalla presenza di impianti sportivi e di costruzioni a servizio degli stessi e che il carattere non retroattivo della cd acquisizione sanante impone di tenere conto delle circostanze fattuali (oltreché giuridiche) riscontrabili nel momento dell’acquisizione».
Di conseguenza, per il giudice d’appello, «ai fini della determinazione del valore venale al 7/6/2013 non possa prescindersi dal valutare le possibilità di utilizzazione dell’area, diverse da quelle agricole ed intermedie tra queste e quelle pienamente edificatorie (si veda, ad esempio, Cass. 22918/2013)».
Tali considerazioni sono perfettamente rispondenti alle pronunce di questa Corte, anche a sezioni unite.
Infatti, si è affermato che, in tema di determinazione dell’indennità di occupazione legittima di terreni agricoli, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del criterio del valore agricolo medio (VAM), la stima deve essere effettuata in base al criterio del valore venale pieno, con la possibilità di dimostrare che il fondo, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà, sia suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso rispetto a quello agricolo, tale da attribuire allo stesso una valutazione di mercato che rispecchi possibilità di utilizzazione intermedie tra quella agricola e quella edificatoria – fattispecie relativa all’occupazione di un’area destinata ad attrezzature sportive, campi da gioco ed attrezzature varie – (Cass., Sez.U., 19/3/2020, n. 7454).
Si è, dunque, chiarito che per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011, la stima deve essere effettuata, non in base al valore agricolo medio, ma in base al criterio del valore venale pieno, con la conseguente possibilità di dimostrare che, pur senza raggiungere il livello dell’edificatorietà, il fondo presenti
caratteristiche che ne consentono lo sfruttamento per fini ulteriori e diversi da quello agricolo, e quindi di attribuire allo stesso una valutazione di mercato tale da rispecchiare la possibilità di utilizzazione intermedie tra quelle agricole quella edificatoria (Cass., Sez. U., 19 del 2020, n. 7454; Cass., Sez.U., 3/7/2013, n. 17868; Cass., Sez.U., 7/5/2019, n. 11930; Cass. 19/7/2018, n. 19295).
Si è, dunque, precisato che «a tale indirizzo si è pienamente uniformato il giudice di appello, in considerazione dell’esistenza di un compendio immobiliare nel quale l’area interessata dall’attività di trasformazione risultava destinato ad attrezzature sportive, campi da gioco e attrezzature varie» (Cass., Sez.U., n. 7454 del 2020, in motivazione).
Nella specie, dunque, la Corte territoriale si è attenuta pienamente, con valutazione meritale adeguata, ai principi di diritto sopra indicati.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste, per il principio della soccombenza, a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore dei controricorrenti le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 10.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17 dicembre